Le parole del maestro
Randet raccontò minuziosamente di Arkas e dell'attacco, di come alcuni igson fossero già al suo servizio e di come Yabut l'aveva tratto in salvo. Spiegò di come si fosse addormentato lasciando che il cavallo lo portasse sulla strada per Loreyn senza passare per Korades e non risparmiò le lacrime quando fu il momento di annunciare la morte di suo padre. Nella stanza sembrava scendesse la neve tanti erano i fogli che svolazzavano da una parte e dall'altra all'infervorarsi del racconto.
‒ Si tratta di un avvenimento senza precedenti ‒ disse con aria preoccupata il comandante quando ritenne che il principe si fosse calmato.
‒ Voi conoscete l'autore di questa tragedia? Perché ha fatto tutto questo? ‒ riprese il principe.
‒ Davvero non conoscete la sua storia? Mi sbalordisce! Per molti mesi non si è parlato d'altro nelle città del regno. Ma posso capire che forse non si volesse turbare la quiete della vostra dimora se mi consentite di dirlo, mio Signore.
‒ Andate avanti comandante...
‒ Ebbene, la madre di quell'essere faceva parte della nobiltà a palazzo, della famiglia dei Monur se non erro. Fin da quando ella era giovane fu chiamato uno stregone perché l'ammaestrasse nel combattimento ‒ In quel momento il comandante si alzò dirigendosi verso l'unica finestra della stanza, si chinò leggermente, scostò la tenda e, guardando fuori, proseguì ‒ Si dice che col tempo sia nato qualcosa tra l'allieva e il maestro e che Arkas sia il frutto di quell'unione... capite mio Signore? Lui è un mangtas! Per metà igson e per metà stregone...
‒ “ Questo è per mio padre” ha detto prima di attaccare. Cosa c'entrava mio padre? ‒ interrogò nuovamente Randet senza badare troppo al tergiversare del comandante.
‒ Beh, mio Signore non se ne sa molto. Io avevo da poco iniziato l'addestramento e... insomma, girava voce fosse stato vostro nonno, re Kodet, a fare uccidere il padre di Arkas...
A questa frase lo sguardo del principe si fece subito ammonitorio; cosa che indusse il comandante a rimediare immediatamente.
‒ Di certo come conseguenza del grave scempio, queste unioni sono ovunque ostentate e in più... si trattava solo di voci di camer...
‒ Sia quel che sia, maledizione, deve pagarla! ‒ Lo interruppe il principe indispettito ‒ Quell'assassino usurpatore in questo momento siede sul trono di mio padre indossando il mantello di Yan e facendosi beffe di me e dell'intero regno! comandante dobbiamo radunare i soldati!
Il comandante portò in avanti le mani da dietro la schiena nel tentativo di tranquillizzare il principe. Anche le grinze degli occhi ricomparvero come a testimoniare una ritrovata padronanza della situazione.
‒ Signore, sarà sicuramente fatto come dite! E oltre a ciò verrà considerato che chi non è perito nell'attacco sarà stato di certo fatto prigioniero; ciò porta un ragguardevole vantaggio al nostro avversario. Inoltre non conosciamo il potenziale offensivo e la forza del nemico. Senza contare che Arkas vi starà già cercando temendo questa nostra conversazione...
‒ Che venga! ‒ disse il principe nel tentativo di mostrare coraggio mentre i suoi occhi, al contrario, miravano verso il basso.
‒ Certo, mio Signore... troverà la fine che merita, di sicuro! Ma permettetemi, prima, di inviare delle guardie in avanscoperta; ci accerteremo delle condizioni degli ostaggi e del potenziale di Arkas. Nel frattempo mi occuperò di radunare le guardie della città e se ci verrà riferito che le forze nemiche vanno al di là della nostra portata invierò dei messaggeri in ogni altra città del regno. Da Kotis a Syomer tutti risponderanno alla vostra chiamata. Questo è certo, mio Signore!
‒ Beh, vedo che nonostante il disordine, la prontezza che contraddistingue i combattenti igson resta sempre ragguardevole! Posso conoscere il vostro nome comandante? ‒ disse il principe.
Nonostante il leggero imbarazzo causato da una così accurata pianificazione, Randet trovava certamente di conforto poter fare finalmente affidamento su una persona di così grande esperienza. Adesso, la possibilità di riconquistare il palazzo senza ricorrere all'aiuto degli hatag si faceva più tangibile. Per un attimo crollò, stanco ma con un'aria finalmente più rilassata, e con una vena speranzosa attese la risposta del comandante.
‒ Oh, vi ringrazio sentitamente principe Randet! Da quindici anni sono a capo delle guardie di Loreyn, sarà di sicuro la spiegazione. Il mio nome è Sofren, della famiglia Okur, onorato di potervi servire...
‒ Okur... ‒ ripeté Randet meditabondo.
‒ Siete forse imparentato con il locandiere in fondo alla strada?
‒ Avete conosciuto mio fratello, dunque? ‒ disse il soldato mostrando nuovamente le rughe vicino gli occhi ‒ Ha avuto qualche problema con la giustizia in passato ma in fondo è una brava persona, questo è certo.
‒ Già... ‒ rispose Randet come se sapesse di cosa Sofren stesse parlando ‒ Sono entrato per chiedere indicazioni su come trovarvi. Suo figlio Vosh sta badando al mio cavallo... avete un modo di parlare simile ora che mi ci fate pensare, comandante Sofren.
‒ Dite, mio Signore? Credo che tutti a Loreyn parlino allo stesso modo. O quantomeno, di certo è quanto si dice degli abitanti di questa città altrove nel regno.
‒ Bene... ‒ disse Randet alzandosi dalla sedia in modo da interrompere la conversazione ‒ È deciso. Alloggerò qui stanotte. Quando saremo pronti a partire?
‒ Dopodomani, poco dopo l'alba di sicuro, mio principe però... la prudenza è ovviamente una vostra virtù ma non credete sia meglio pernottare altrove? Arkas capirà ben presto che non vi trovate nella capitale e, se fossi in lui, inizierei proprio da questo forte le ricerche. Non credo sia tanto folle da attaccare ma, anche in quello sciagurato caso, sarei molto più tranquillo di sapervi altrove, questo è certo ‒ rispose Sofren tutto d'un fiato.
Le grinze sulle sue tempie e sopra le gote erano ora più accentuate che mai, tanto da rendere gli occhi due piccole fessure verde acqua. Il principe, per conto suo, continuava a mostrarsi imbarazzato; non sapeva decidere se fare valere la propria posizione o fidarsi dell'esperienza del comandante. Non erano argomenti delle lezioni di Yabut questi. A cosa serve a un re saper combattere se non è in grado, prima, di prendere delle decisioni?
Lo guardò stavolta con condiscendenza ed aprì la porta.
‒ Ebbene, sarà come dite Sofren degli Okur. Sarò ospite presso vostro fratello fino a quando non mi verrete a chiamare; ho di che pagare e così conciato non credo che desterò sospetti. Ovviamente confido nella vostra omertà e in quella dei vostri sottoposti!
‒ Sicuramente ben riposta mio Signore! ‒ ribatté sollevato l'attempato soldato ‒ Inoltre, da questo forte la strada per la locanda è ben visibile, dirò alle sentinelle di porre particolare attenzione alla vostra direzione.
Terminate le scale esterne, Sofren si congedò con riverenza. Così fecero anche le due guardie al di fuori delle mura. Stavolta, però, queste sembravano molto più vigili che in precedenza, come se conoscessero già la propria missione.
Durante il breve tragitto verso la locanda i pensieri di Randet tornarono al padre; la sua fine prematura non si era ancora sedimentata in lui e in più si aggiungevano la tensione per le azioni dei giorni successivi, la speranza che ci fossero dei superstiti e il desiderio di poterli salvare. La rabbia e il dolore si intrecciavano a tal punto da reprimere perfino fame e sete.
La strada era deserta e abbastanza buia ma la piccola staccionata davanti alla locanda si poteva già intravedere.
Quei ricordi erano così pungenti, come piccole schegge di legno nelle tempie, da impadronirsi ancora del principe. Ora c'era Avrya che lo cacciava dalla stanza per poterla spolverare, ora Dyanum che lo prendeva in giro o Yabut che predicava i suoi insegnamenti.
‒ Studia l'ambiente! Rimani concentrato! Non farti prendere dalla collera! ‒ soleva ripetergli il maestro. Tutti consigli che non sarebbero valsi a nulla se a Sofren non fosse riuscito di dissuadere il principe dall'idea di attaccare il prima possibile.
Il timore di stare deludendo tutte le persone che più avevano contato nella sua vita avanzò rapidamente superando, per un istante, addirittura il rancore verso Arkas.
‒ Ma quali prove… Quale proclamazione... ‒ mormorò prima di varcare l'uscio d'entrata ‒ Ve l'avevo detto, Yabut, non sono ancora pronto per governare.
L'interno era quasi del tutto buio; solo un paio di candele sui ripiani delle bevande illuminavano la sala. Rosh era ancora lì, stavolta intento a strofinare il bancone con uno straccio. Il figlio accompagnava l'ultimo cliente, evidentemente ubriaco, alla porta sorreggendolo per la vita mentre una scarna ma giovane signora agitava energicamente la scopa dove le sedie erano già capovolte sui tavoli.
‒ Oh! Bentornato signore! Stavamo per chiudere. Avete trovato quel che cercavate? ‒ disse Rosh continuando la sua opera.
‒ Sì, vi ringrazio per le informazioni ‒ rispose Randet avvicinandosi al locandiere e, accertandosi che l'ultimo cliente fosse stato accompagnato fuori dal locale, proseguì: ‒ Ho parlato con vostro fratello, il comandante Sofren. Mi ha consigliato di chiedere a voi una stanza per questa notte.
‒ Ma certo! Ne abbiamo diverse in questo periodo. Quali sono le vostre esigenze?
Il principe cercò sotto il saio il borsello di pelle contenente i preziosi, lo slacciò e, facendo attenzione a non scoprire le custodie degli anelli, estrasse il più piccolo tra i pezzi d'oro al suo interno.
‒ Beh... cosa potete offrirmi in cambio di questo? Incluse le cure prestate al mio cavallo e aggiungendo un lauto pasto. Sono digiuno da stamane.
Rosh continuava distrattamente a strofinare lo stesso punto del banco da quando Randet aveva mostrato l’oro e continuò così fino al momento in cui il principe lo appoggiò sul bancone. Anche la scopa aveva smesso di agitarsi e la signora tra i tavoli allungava il collo per la curiosità mentre il figlio del locandiere, con le mani ancora sui chiavistelli della porta, fissava immobile il padre maneggiare il metallo prezioso.
Di scatto il locandiere sollevò il volto e cominciò a parlare nervosamente; adesso al figlio ‒ Vosh! Non stare lì impalato! Accompagna il signore nell'alloggio grande del piano di sopra! ‒ adesso alla donna ‒ Cara, potresti preparare una buona cena per il nostro ospite? ‒ e ancora, mostrando gli occhi a fessura tipici degli Okur, a Randet ‒ Certo, quanto di meglio abbiamo da offrire. Per quanto umile sia questa famiglia faremo il possibile perché la permanenza sia di vostro gradimento. Sicuro!
Dopo aver usufruito di tante riverenze, Randet venne condotto al piano superiore. In cima, il corridoio si diramava in altri tre più piccoli, ognuno dei quali era largo giusto lo spazio per poter aprire le due porte posizionate a specchio. All'altezza delle spalle erano attaccati al muro due piccoli porta candele storti mentre a terra diversi tappeti con la stessa trama floreale coprivano quasi completamente lo spazio percorribile.
Dei tre, l'unico corridoio con una sola camera era a destra e, evidentemente, si trattava della “camera grande” di cui aveva parlato il locandiere. Vosh si apprestò ad accendere i candelabri sia all'interno che all'esterno e, con un impercettibile inchino, pregò il principe di accomodarsi.
‒ La cena sarà servita fra poco.
Non appena il garzone ebbe lasciato la stanza, Randet si lasciò cadere con gran sollievo sul letto matrimoniale.
Nonostante il giaciglio fosse molto più basso rispetto alle abitudini del principe, il materasso era spesso e morbido e corredato di cinque guanciali.
La stanza, invece, era un po' come il resto della taverna: i tappeti del corridoio si ripetevano sia nel grigiore che nella trama floreale anche all'interno, coprendo tutto il quadrato della camera. Le coperte sembravano riprendere in qualche modo il giallore delle pareti e a fianco e di fronte al letto erano stati posti un comodino ed un armadio di legno, anch'essi vecchi ma finemente intarsiati. Della stessa fattura era anche la robusta cassapanca ai suoi piedi.
Tutto l'insieme dava l'impressione di una passata eleganza di cui però era rimasta solo molta polvere e un odore stantio.
Randet, convinto che almeno quest'ultimo potesse essere rimosso lasciando entrare dell'aria nuova, si rialzò a fatica e spalancò la finestra.
La stalla della taverna era proprio sotto di lui; il tetto non si trovava a più di due o tre metri dalla finestra. Subito dietro la stalla un'altra strada percorreva il quartiere, parallela a quella che prima lo aveva portato alla guarnigione.
Aiutata dall'instancabile Vosh, la signora con i lineamenti marcati bussò alla porta e, dopo aver atteso la risposta del principe, entrò con due ingombranti tavolini pieni di vettovaglie. In uno vi erano le posate, una grossa pagnotta, due piatti piani impilati, un bel grappolo d'uva lavata, una caraffa con acqua ed una, più piccola, con del vino; nell'altro tavolino, invece, una ciotola traboccante di brodo di carne con verdure e un tegame con mezza faraona cosparsa di rosmarino e patate.
Venne portata all'interno anche una piccola bacinella di metallo così che il principe potesse sciacquarsi mani e viso alla fine del pasto.
‒ Gradite acqua per un bagno caldo prima della notte? ‒ domandò la signora, pronta ad uscire dalla stanza.
Anche se un bagno caldo in quel momento sarebbe stato proprio un toccasana, il principe rispose che avrebbe preferito farlo l'indomani all'alba in modo da potersi coricare subito dopo cena.
Tornato solo, Randet si abbuffò fino a sazietà, allontanò i tavolini contro la parete e si stese sul letto con la speranza di lasciarsi alle spalle tensioni, cattivi ricordi e prendere sonno quanto prima. Invano, il pensiero lo portava sempre a suo padre, alla figura premurosa e fiera che lo aveva accompagnato fin da piccolo. L'unico genitore che avesse mai avuto. Pensava anche all'impotenza di quell'istante in cui le persone a lui care avevano avuto bisogno di lui e alle parole del proprio maestro.
Da sotto le coperte, da solo in quella vecchia locanda, poté infine sfogare le lacrime così aspramente trattenute durante il giorno. Un pianto liberatorio che durò diversi minuti, fino al momento in cui la stanchezza prese il sopravvento, lasciandolo finalmente libero di addormentarsi.
Quella notte Vosh fu mandato dal padre a gettare i rifiuti della giornata nella latrina appena fuori dai caseggiati. La notte era mite e la temperatura fresca. Il giovane indossò una giacchetta di cuoio, afferrò i due grossi secchi che il padre gli aveva preparato ed uscì dalla porta sul retro. Dalla stalla, il giovane si accertò delle condizioni del cavallo del facoltoso ospite. Sembrava aver mangiato quasi tutto il fieno che gli era stato preparato e anche l'acqua nell'abbeveratoio era parecchio diminuita.
‒ Hai fatto un lungo viaggio povero animale, sicuro! ‒ disse accarezzandone il muso.
Riprese i secchi, uscì dalla stalla e, superata la staccionata sul retro, si incamminò verso la periferia della città.
Le case del quartiere in cui la locanda si trovava si susseguivano in una monotona fila di giardinetti appassiti e catapecchie addossate l'una all'altra. Un piccolo spazio verde ai lati, del selciato, piccole staccionate davanti o sul retro e, nella maggior parte dei casi, una piccola stalla in cui custodire gli animali durante la notte era il massimo che si potesse ammirare.
Erano tutte edificate in lunghe file; solo poche vie, strette e male illuminate, congiungevano la strada che Vosh stava percorrendo alle sue parallele.
Ai margini del quartiere, le case terminarono semplicemente nel nulla. Pochi passi prima, le luci delle candele, da dietro le finestre, richiamavano quadretti familiari, poco dopo, solo aperta campagna, il frinire dei grilli e la profonda fossa comune per i liquami.
Se non fosse stato per la rinomata vista degli igson, anche Vosh avrebbe avuto difficoltà a individuare la posizione precisa della fossa, tanto era il buio che circondava quella parte di Loreyn.
Il giovane Okur svuotò i secchi nella latrina, si voltò e, lasciatosi alle spalle gli effluvi poco gradevoli che da quel luogo si sprigionavano, riprese il tragitto in senso opposto.
Era a non più di quattrocento metri da casa quando, tra il giardino di un'abitazione e l'altra, incrociò con lo sguardo una piccola carrozza che, trainata da un solo cavallo, percorreva la strada davanti l'ingresso della locanda.
L'andatura del cavallo era alquanto placida, come se il carico all'interno fosse pesante. Inizialmente Vosh pensò si trattasse di un mercante di passaggio dato che il vano posteriore era completamente sigillato da un paramento sia di lato che davanti; forse era diretto a est.
Se il cocchiere indossasse un mantello o un saio non riusciva a capirlo; i suoi occhi non avevano immagazzinato abbastanza luce durante il giorno per poter visualizzare correttamente i contorni degli abiti ma riuscì perlomeno a intuire che portasse una qualche sorta di copricapo.
Non c'era anima viva né sulla strada che il ragazzo stava percorrendo né su quella della carrozza. Non era usuale vedere mercanti spostarsi in quella zona a quelle ore ma, in fondo, neanche così raro.
Tuttavia, un po' per l'aria inquietante che il cocchiere emanava, così incappucciato e piegato sulle ginocchia, e un po' per il desiderio di non avere nessuno che gli girasse attorno durante la sua solita passeggiata notturna, decise di passare rasente alle case finché la carrozza non lo avesse oltrepassato.
La carrozza lo superò. Tuttavia, Vosh continuò a voltarsi non di rado nei minuti successivi; qualcosa non lo convinceva...
Si girò ancora e stavolta ebbe la netta impressione, nella frazione di secondo in cui la scorciò, che il telo della carrozza si fosse gonfiato per un attimo, come se qualcosa dall'interno si fosse mosso.
Fece un altro passo, poi si fermò. La curiosità prese il sopravvento sulla stanchezza, posò i due secchi, ritornò indietro fino alla prima viuzza di collegamento tra la sua strada e quella in cui la carrozza era appena passata e, sgattaiolando dietro l'angolo di un'abitazione, continuò ad osservarne il percorso.
La vista nitida cominciava lentamente ad abbandonarlo; lo sforzo compiuto poco prima per individuare le fattezze del cocchiere aveva dato fondo alle ultime scorte di luce che i suoi occhi avevano accumulato. Adesso, non solo i dettagli non erano più chiaramente visibili ma anche le figure più grandi, se lontane, apparivano sfocate.
Riusciva a intravedere a malapena il forte dei soldati, in fondo alla strada e, probabilmente due figure, immobili a guardia dell'entrata.
Avrebbe preferito avvicinarsi ancora ma la successiva via parallela si trovava esattamente davanti alla guarnigione. Per evitare di insospettire le guardie, Vosh preferì rimanere a distanza. Avrebbe aspettato finché il buio non lo avesse sopraffatto del tutto, dopodiché sarebbe ritornato alla locanda.
La diligenza stava quasi per passare adiacente all'entrata del forte. Non poteva esserne certo ma sembrava andare anche più lentamente di prima.
Le figure davanti alla porta si mossero dalle loro posizioni. Anche il telone che copriva la diligenza era stato divelto, stavolta ne era sicuro.
Un attimo dopo le guardie sembravano svanite, o meglio... erano accasciate! Qualcosa da dentro la carrozza, anzi, qualcuno le aveva colpite.
Vosh rabbrividì e scosse il capo, strizzò gli occhi e si sforzò, per quanto gli fosse possibile, di capire cosa stesse succedendo.
Tre sagome sgusciarono fuori dal vagone e caricarono le guardie colpite al suo interno, non prima, però, di avere frugato tra le loro vesti e di essersi appropriati delle loro armi.
Riuscì a distinguere appena i contorni degli assassini. Erano molto simili a quelli delle guardie; il più alto dei tre, forse, indossava un mantello.
La carrozza riprese il suo percorso mentre i tre individui, guardinghi si apprestavano ad aprire il cancello.
Un ultimo sforzo di pochi secondi gli provocò fitte tali da indurlo a portare le mani davanti al volto ma gli consentì di fugare ogni dubbio. I tre assalitori non si erano semplicemente travestiti da guardie, erano esattamente come loro! Barba, capelli statura e volto. Tutto e... il mantello di quella più alta era lo stesso che era uso indossare suo zio Sofren...
Le sue capacità visive in assenza di luce lo abbandonarono del tutto; ora solo il chiarore velato della luna poteva guidare i suoi passi.
Spaventato e con gli occhi doloranti corse verso casa e, ancora trafelato, svegliò i genitori raccontando loro quanto accaduto.
Il principe venne allertato molto prima del sorgere del sole dallo stesso Vosh che su ordine del padre cominciò a farfugliare frettolosamente: ‒ Mio signore non è più sicuro per voi qui, dovete andarvene immediatamente!
‒ Cosa? ‒ mormorò Randet, svegliato di soprassalto.
‒ Sì mio Signore, alcuni individui si sono sbarazzati delle guardie all'ingresso del fortilizio e hanno preso le loro sembianze. Mio padre ritiene che stiano cercando proprio voi.
Un gruppo di uomini si stava già recando verso la locanda, il rumore della marcia era ora chiaramente udibile già dalla stanza.
Il principe si alzò, e si diresse verso la porta della camera e poi giù per le scale. Quasi in fondo qualcuno bussò violentemente alla porta. Randet si arrestò di colpo mentre osservava fisso Rosh, il quale, davanti all'entrata, ancora in vestaglia e con la moglie aggrappata a un braccio, contraccambiava impietrito.
‒ Chi è a quest'ora? Desolati, siamo chiusi! ‒ urlò il locandiere con voce tremula.
‒ Aprite la porta, fratello... sono il comandante Sofren. Abbiamo motivo di credere che un vostro ospite sia in realtà un pericoloso impostore. Aprite subito, per il vostro bene!
Rosh sospirò preoccupato e si avvicinò a Randet prendendogli la mano ‒ Vi ho riconosciuto mio Signore; veniste a Loreyn, anni fa, con vostro padre. Ero certo foste voi! Il re è un uomo buono e valoroso. Cancellò la mia condanna in quell'occasione e io potei riabbracciare la mia famiglia. Non so chi sia quell'uomo né perché vi stia dando la caccia ma di sicuro non è mio fratello Sofren. Scappate dalla stalla, cercherò di tenerli occupati.
‒ E voi cosa farete? Quella gente è pericolosa, venite via con me! ‒ sussurrò Randet preoccupato.
‒ No mio Signore, c'è solo un altro cavallo oltre il vostro... viaggerete leggeri. Mio figlio partirà con voi.
‒ Cosa? No padre, io non vi lascio qui! ‒ sbottò Vosh per tutta risposta.
Da fuori, intanto, il falso Sofren aveva dato l’ordine di sfondare la porta.
‒ Va' figliolo, affrettati! Che lo spirito di Yan vi protegga! ‒ disse la madre con le lacrime agli occhi.
I colpi diventavano sempre più forti e le parole sempre più minacciose.
‒ Padre! Madre!
All'ennesimo scossone Vosh e Randet si diressero di corsa verso la stalla. Mentre il principe slegava i cavalli, il giovane garzone controllava che la strada fosse priva di guardie.
‒ Affrettatevi mio principe, alcuni soldati stanno facendo il giro dell'isolato.
Dall'interno, il rumore di legno fracassato era il chiaro segnale che le guardie di Loreyn avessero ormai fatto irruzione.
‒ Non abbiamo ospiti al piano superiore, andatevene! ‒ si poteva sentire Rosh gridare ai soldati nel tentativo di sviarli.
Randet e Vosh montarono a cavallo e, nell'istante in cui i soldati aprirono la porta della stalla, partirono al galoppo.
Dopo centinaia di metri si sentivano ancora chiaramente le urla degli inseguitori ‒ Prendete i cavalli! Sono scappati dal retro! ‒ ma i due, col chiarore dell'alba, proseguirono senza mai voltarsi.
Con Vosh in testa, cavalcarono per diverso tempo tra le viuzze strette e silenziose della città fino ad arrivare ad uno spiazzo erboso lontano dal centro abitato.
‒ Credo che li abbiamo seminati mio Signore ‒ disse il giovane locandiere scrutando rabbiosamente la città.
‒ Vosh... sono desolato per i tuoi genitori ma... ci raggiungeranno presto... ‒ rispose Randet sconfortato.
‒ Forse potremmo raggiungere Syomer. Non è che a pochi giorni di viaggio e lì di certo riceverete ospitalità. Vi ascolteranno, sicuro! Spero solo che non facciano del male ai miei genitori...
‒ E se si fossero infiltrati anche lì? Cadremmo in una trappola senza via di scampo... no, non possiamo rischiare. Seguirò le parole del mio maestro, stavolta, Vosh. Salperò di nascosto verso le terre degli anuma e proseguirò verso nord. Troverò chi sarà disposto ad aiutarmi e tornerò con rinforzi.
‒ Mio signore... ‒ riprese Vosh con sguardo sommesso e voce seria ‒ I miei genitori sono in pericolo, lasciate che faccia un tentativo alla guarnigione di Syomer. Nella peggiore delle ipotesi vi avrò fatto guadagnare del tempo.
‒ Ma Vosh, ragiona! E se ti catturassero?
‒ Anche sotto tortura, giuro, non fiaterò!
Randet rifletté alcuni secondi sulle parole del coetaneo, dopodiché, convintosi della loro bontà, strinse le briglie e rispose: ‒ Allora conducimi a Syomer, Vosh, ti racconterò ogni cosa strada facendo.
Così, mentre avanzavano tra le colline, lontano dalle arterie principali, il principe raccontò dell'attacco al castello e di quanto gli avesse riferito Sofren a Loreyn.
Vosh rimase esterrefatto per tutta la durata della narrazione ma, anche se schiacciato da una situazione molto più grande di lui, non cambiò idea.
La testa del principe era invece altrove. Ormai consapevole di dover affrontare un lungo viaggio, vedeva finalmente tutto con maggiore chiarezza. Sicuramente ci sarebbe voluto molto più tempo ma stavolta, ne era certo, non avrebbe deluso nessuno. Non avrebbe deluso Yabut né offeso la memoria di suo padre, a cui i suoi pensieri erano rivolti per primi.
‒ Ho ascoltato le tue parole, maestro... andrò dagli hatag...