CAPITOLO 1: Un messaggio chiaro

2653 Words
CAPITOLO 1 Un messaggio chiaroUn uomo crivellato dai proiettili, disteso su un marciapiede. Dalla bocca spalancata fuoriusciva un sottile lembo di seta viola. Filippo Barone cliccò un’icona sullo schermo del cellulare di fabbricazione israeliana e visualizzò il messaggio criptato che recava allegata l’immagine. La foto gli era stata recapitata attraverso l’applicazione Signal, assieme a uno stringato resoconto dell’accaduto, dal cellulare di un dondina a libro paga che lavorava negli uffici della Questura di via Fatebenefratelli. Alle sette del mattino una telefonata anonima aveva dato l’allarme dopo l’esplosione di una serie di colpi d’arma da fuoco in Via Camaldoli. Un giovane agente, in servizio presso il commissariato di quartiere, aveva catturato l’istantanea di quel corpo senza vita che contrastava ferocemente con il silenzio della strada alberata a pochi passi dalle rive del fiume Lambro, inoltrandola al collega. Un favore tra sbirri, insomma. Gli esecutori dell’agguato avevano scelto un giorno di pioggia battente per minimizzare le tracce sulla scena del delitto. Secondo le prime testimonianze si erano fermati con un furgone giallo da corriere postale davanti al portone della vittima che si apprestava a lasciare la sua villetta a bordo di una BMW M6 coupé. Sceso dal veicolo, l’uomo si era avvicinato agli assassini per sottoscrivere la consegna di un pacco. Era stato freddato con un colpo di revolver al cuore e due alla testa. Un’esecuzione in piena regola. Il killer aveva quindi infilato nel cavo orale del cadavere il tremendo segnale: una striscia di tessuto setoso larga due centimetri e lunga una decina. Filippo Barone conosceva l’uomo che giaceva sotto la pioggia in Via Camaldoli e comprendeva il codice connaturato alla teatralità di quell’epilogo definitivo. Il dannato si chiamava Giovanni Frigerio, aveva cinquantadue anni e fino a quella mattina era stato titolare di un gruppo di imprese edili attivo nella realizzazione di opere pubbliche e private in mezza Milano. I suoi problemi erano nati quando, sordo ai consigli degli amici, si era voluto affacciare all’altra metà della città, determinato ad aggiudicarsi gli appalti milionari destinati allo sviluppo dei progetti di riqualificazione urbana nell’area meridionale della metropoli. Il messaggio – quella lunga lingua di seta vellutata, introdotta in bocca con violenza – serviva a rendere chiaro quale fosse il rischio che si correva a spifferare alla madama cosa accadeva nei cantieri degli inabili a campare che rifiutavano di sottostare alla regola. Filippo Barone vedeva il fatto per quello che era: un errore madornale. Una follia. Uno sbaglio fuori tempo massimo, controproducente e foriero di imprevedibili complicazioni. Un vincenzo sottoterra per una medievale dimostrazione di forza significava esclusivamente problemi: giornalate che strillavano titoli allarmati, uomini in divisa con le antenne alzate H24 e un fottio di sbattimenti inutili che avrebbero richiesto uno spreco di tempo incalcolabile. E tutti quei casini sarebbero ricaduti sulla sua agenda. Dalla finestra dell’attico affacciato sulla Darsena vide un tram che superava le colonne bianche di Porta Ticinese e s’insinuava nel cuore della città. Infilò la giacca doppiopetto grigia, abbinò alla camicia bianca una cravatta borgogna e strinse un robusto nodo Scappino, non come quei giargiana la cui massima espressione stilistica consisteva in anoressici cravattini acquistati al supermercato o, ancora peggio, come i tanti barboni di Quarto Oggiaro o della Barona che per darsi un tono si presentavano muniti di papillon a un colloquio di lavoro dove sarebbero stati congedati con un inesorabile: le faremo sapere. Dal tavolo in palissandro al centro del living prese in mano un secondo cellulare e impartì una serie di direttive tramite w******p. Varcò la porta dell’appartamento, dirigendosi verso il suo ufficio situato in Zona 1. La missione quotidiana era quella di sempre: agire da ponte tra gli interessi di due mondi apparentemente lontani e aggiungere zeri ai conti correnti intestati a società fiduciarie, con sede a Londra, che proteggevano il suo grano nelle banche delle Isole Cayman. Abbandonò la 911 blu metallizzata in uno stallo del parcheggio sotterraneo di Piazza Meda e raggiunse un’elegante pasticceria di stretto rito ambrosiano sotto i portici di Corso Matteotti. La pioggia aveva smesso di cadere ma una combinazione di scighera e smog nascondeva il viso scarlatto della Basilica di San Babila. Seduto davanti a un tavolino, coperto da una tovaglia rosa antico, lo attendeva Matteo Palumbo, contabile e uomo di fiducia, per quanto fosse possibile quel sentimento nella mente di Filippo Barone. Intento in un’attività intermedia tra il leggere la “Gazzetta dello Sport” e il compulsare nervosamente sulla tastiera di un telefono cellulare, indossava il consueto outfit indecoroso: un dozzinale abito nero, a tre bottoni, troppo slim per le sue forme cadenti e mal distribuite in poco più di centosettanta centimetri d’altezza. Da una sedia di legno penzolava un impermeabile consunto in pieno stile sepoltò. Poco più che trentenne, il ragazzo nascondeva la calvizie attraverso un’infelice acconciatura realizzata con uno sproporzionato dispendio di minuti davanti allo specchio, tempo che avrebbe potuto utilizzare più coerentemente per occuparsi delle faccende di cui Barone intendeva parlargli. La notizia dell’incontro mattutino tra Caterina la secca e l’imprenditore di Ponte Lambro non doveva ancora essergli nota e per il momento non era il caso di illustrargli i dettagli della faccenda. Si sedette e ordinarono due caffè a un elegante ma attempato cameriere stretto in un completo marrone. «A che punto è la documentazione?», domandò Barone, aprendo una valigetta di cuoio. «È tutto pronto. Abbiamo preparato capitolati d’appalto su misura per le aziende controllate dagli Alfieri. Nel pomeriggio consegnerò personalmente la pen drive all’assessore ai lavori pubblici. La prossima settimana pubblicheranno la documentazione in una sezione introvabile del sito del Comune e faranno in modo che la notizia venga nascosta nelle ultime pagine di qualche quotidiano locale. Se ci muoviamo come sappiamo, la gara è blindata.» «A quanto ammonta l’Ambaradan?» «Quattro milioni tra opere, forniture e consulenze.» «Figa, perfetto.» Matteo Palumbo rovesciò una bustina di zucchero dentro la tazzina di caffè e la svuotò in un sorso. Dopo qualche secondo di silenzio sollevò lo sguardo e disse: «Capo, ti posso fare una domanda delicata?» «Lo stai già facendo», rispose Barone, sfilando una banconota dal portafoglio e poggiandola su un piattino di ceramica abbinato al colore della tovaglia. «Ma che casino hanno combinato i calabri in Via Camaldoli?» Barone considerò per un attimo chi potesse aver passato la dritta al contabile ma soppresse sul nascere quella pessima abitudine a sottovalutarlo. Non era la prima volta che lo sorprendeva così dal nulla. A essere onesti, quando il gioco si era fatto serio, aveva sempre dimostrato di avere le skills necessarie per trasformare le chiacchiere in banconote da cinquecento. «La cosa ti stupisce? Quelli lì puoi pure agghindarli con il miglior abito di Armani ma la scritta “selvaggi” stampata in fronte mica gliela levi.» Filippo Barone avrebbe voluto definirli più correttamente terroni in cravatta, ma c’era il rischio di offendere anche il Palumbo, che nonostante parlasse con l’accento di uno nato e cresciuto a Lorenteggio aveva profonde e robuste radici foggiane. Dal momento che il discorso era stato introdotto, passò invece a organizzare le contromisure per disinnescare le conseguenze di quell’atto senza senso. «Adesso ci tocca risolvere il problema.» «Cosa intendi dire?» «Disinformatia. Appena arriviamo in ufficio assicurati che le testate online che controlliamo diffondano una voce: Giovanni Frigerio non era esattamente un santarellino, era uno a cui piacevano le donne, uno pieno di amanti che faceva regali principeschi e magari può aver infastidito qualcuno o qualcuna. Poi vai di persona dagli amici gialli in Via Paolo Sarpi e spiega loro che devono attivare centinaia di bot sui social network, in particolar modo su Twitter, per rilanciare i link delle notizie pubblicate dai nostri web magazine. Frigerio deve risultare per tutti un morto di corna, che qualcuno vorrebbe far passare per morto di mafia, quando invece lo sappiamo tutti: a Milano la mafia non esiste.» «Tutte ’ste robe ci costeranno parecchi K.» «Tel chi, l’animo del ragioniere. Quanti K?» «Non meno di dieci.» «Diecimila euro? Roba da niente. Il servizietto addebitalo agli Alfieri. Trova un modo per infilare i costi in qualche fattura e vedi di fartela liquidare il prima possibile. Sem minga chi a fà balà la scimmia.» Le braci ardevano dentro il grande caminetto che riscaldava il salone della villa-bunker di don Rocco Alfieri. Adagiato sulla poltrona marrone, l’anziano capobastone osservava le fiamme e masticava le sfere di calia insaporite con olio e paprika che colmavano un recipiente di terracotta. Titolare di anni di Asinara e 41 bis, ‘u Fantasma era il boss più importante della struttura criminale chiamata Lombardia, la camera di controllo che coordinava le famiglie affiliate alla Società, attive pe Supra. Era stato tra i primi uomini d’onore a essere insignito della dote di Crociata, e quel soprannome se l’era guadagnato grazie alla leggendaria capacità di rendersi invisibile ai magistrati e agli sbirri, a dispetto delle delazioni degli infami, dei doppi giochi dei tragediatori e degli inevitabili soggiorni a base di sole scozzese che ogni tanto gli toccava trascorrere nei villaggi vacanze di proprietà della Repubblica Italiana. Don Rocco ‘u Fantasma non era sereno, non lo era da parecchie lune nuove. Nutriva ansie crescenti che taceva anche agli affetti più cari. In alcuni giorni il tormento sembrava dargli tregua, in altri incombeva come una nuvola nera prima di una grandinata. Un cristiano nella sua posizione non poteva mostrare debolezze. Anche tra i buoni amici battezzati e tagliati sul volto si celavano malacarne dalla lingua sporca, convinti di meritare più potere di quanto il buon senso raccomandasse di riconoscere loro. Erano gli eredi della Garduña, uomini di rispetto da secoli, l’élite dell’associazione di galantuomini che qualcuno chiamava Famiglia Montalbano, qualcun altro Fibbia, altri ancora Onorata Società o Picciotteria, quella che negli ultimi tempi era nota a molti come Santa, ma che tutti conoscevano con il nome di ’Ndrangheta. Se avesse permesso alle croci di emergere, diventando argomento di discussione all’interno di qualche cerchio formato, non ne sarebbe venuto bene alcuno. Per lui e per la cosca che capeggiava. Come in una partita a scacchi, i nemici avvolti dal buio avrebbero mosso i loro pezzi in accordo con le Locali pesanti di Giù per sfilargli lo scettro dalle mani e consegnarlo a qualche asso di bastoni più malleabile. Poi c’era il fatto di quella mattina: dare l’ordine di stutare l’uomo di Via Camaldoli era stato un dovere. Il serpente a sonagli voleva tagliare fuori le altre famiglie dalla spartizione e fottersi il riscatto dell’americano sequestrato in Piazza Farnese. Don Rocco ragionava su quella storia e naschiava con rabbia, ma poi sentiva un brivido risalire dallo stomaco e insinuare il dubbio nello spirito, perché no, la storia del nipote del petroliere miliardario, nascosto per mesi dentro una grotta, non c’entrava nulla con l’omicidio. Ci pensava e ripensava e finalmente tutto gli sembrava chiaro: aveva dato luce verde all’ammazzatina per vendicare la morte di Micuzzu, suo figlio primogenito… E invece no, no, e ancora no, mannaja ‘u Santissimu. Domenico non era morto, era ospite della Legge in una cella del carcere di Opera, quello morto era suo fratello Giuseppe, ma quando era stato assassinato Peppe? Nel ’74? O nel ’92? E da quanto tempo quel folle incubo senza memoria stava piegando la determinazione granitica di un uomo che dalle cime ricoperte di fame dell’Aspromonte aveva condotto una legione di sgarristi a conquistare le terre ricchissime sotto il cuore di Milano? Le telecamere installate a presidio della villa segnalarono movimenti sugli schermi ultrapiatti che proiettavano le immagini del perimetro protetto. Il cancello elettrico, affacciato su Via della Costituzione, si aprì e un’automobile superò il primo gruppo di uomini incaricato di sorvegliare l’ingresso. Don Rocco seguì l’azione passare da un monitor all’altro e vide scorrere la seconda barriera inferriata. Il veicolo varcò un successivo punto di vigilanza schierato militarmente, fermandosi davanti a un viottolo lastricato con pietre di fiumara. Dalla lunga berlina scura scese Antonino Alfieri, il secondogenito. Tony ‘u Dottori attraversò il vialetto alberato fino a una veranda che protendeva lo sguardo verso i filari di un vigneto congelato dal freddo. Salutò due picciotti lisci che piantonavano il portone della villa ed entrò nella casa paterna. Dirigendosi verso il salone intravide la madre avvolta in una casacca nera, decorata da rose tracciate con una tinta rossa. S’incontrarono a metà strada. Quando si avvolsero in un abbraccio lei gli sussurrò una frase inquietante: «Papà non sta bene. È peggiorato.» Gli rivolse un sorriso triste e proseguì verso la cucina. Si chiamava Caterina Malara e apparteneva anche lei. Veniva figlia a cristiani di rispetto e sapeva che era il momento dei discorsi tra uomini. Il capobastone si alzò dalla poltrona per accogliere il figlio. Antonino Alfieri lo osservò negli umili vestiti casalinghi che mai avrebbe indossato fuori da quelle mura: un maglione con una chiusura lampo, sotto cui s’intuiva una camicia a quadri, e dei pantaloni colore del muschio. Si baciarono sulle guance. Il profumo del dopobarba sulla pelle del secondogenito scatenò un sussulto che trapassò il cuore di don Rocco come una scarica elettrica. Improvvisamente ogni tassello tornò al posto giusto: il motivo dietro il servizietto di quella mattina, l’identità del sacrificato, la catena di azioni che aveva consegnato un nuovo nome alla lista cimiteriale. «Perché, papà?», domandò ‘u Dottori, poggiando gli eleganti occhiali da vista su un tavolino, accanto al contenitore di calia. «Perché, quello era sbirro nella testa… ‘ddu infami. Si è presentato in casa nostra senza invito, no ndi cercau ‘u permissu pe mi pigghia l’appalti e quando gli abbiamo ordinato di mettersi a posto è corso dalla Benemerita a raccontare i cazzi di nostra spettanza. Che dovevamo fare? Minaru tri botti e finiu ‘u problema.» «È mala nuova, papà. Da domani la nostra terra sarà piena di uniformi e giornalisti. Ccà Supra certi fatti non si risolvono finendo i giorni alla gente. Noi abbiamo il dovere di rendere conto al Crimine e i sanlucoti non le tollerano più queste esibizioni di ominità.» «Nella Società conta chi spara, figghiu. Questo lo sa la Mamma come lo sappiamo noi.» «Chi spara contro i soldati. Non chi spara contro i civili. Chi commette quell’errore finisce a fare vermi in galera» sentenziò Antonino Alfieri, con l’accento venato di piegature nordiche che lo contraddistingueva. Percorse due passi fiancheggiando una grande finestra. Vide il riflesso del suo profilo scarno allungarsi sul vetro. In lontananza risaltava il verde di una risaia senza confini. Le inquietudini che negli ultimi tempi le conversazioni con il padre gli avevano procurato erano cresciute in proiezione geometrica, volta dopo volta. Il cielo si stava girando a tempesta. «Che ne pensa compare Procopio di questa storia?» domandò. «Compare Procopio? Compare Procopio zitto e mosca, ché questa non è roba per loro. I rapimenti e i soldi dei riscatti li gestiamo noi. Loro accettano, per sì o per forza. Sono io il caposocietà… E poi dovevamo abbattere un albero d’ulivo per aggiustare il fatto di tuo fratello. Adesso siamo pari», rispose don Rocco con lo sguardo privo della fermezza che quelle parole volevano dimostrare. Ad Antonino Alfieri la frase parve venuta da un’altra realtà. La ascoltò provando un misto di terrore e disperazione. Avrebbe voluto chiedere all’uomo da cui aveva imparato tutto a quale follia si stesse riferendo, urlare a Dio che non era il modo, come non era il momento. Invece tacque, senza lasciar trasparire emozioni. Suo padre aveva imboccato una via rovinata, diretta al tramonto e costellata di sofferenza e angoscia. Era una tragedia e bisognava farci i conti, una disgrazia per l’intera famiglia, che apparteneva alla vita e apparteneva anche alla morte. Ma il problema era un altro, in quel momento, ed era ancora più serio: l’uomo davanti ai suoi occhi disponeva di truppe pronte a eseguire qualsiasi ordine senza discussioni. Aveva potere di vita e di morte su un esercito in armi composto da centinaia di affiliati. Un potere che non era più in grado di controllare.
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD