CAPITOLO 2: Il mondo di mezzo

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CAPITOLO 2 Il mondo di mezzoDalla finestra al settimo piano di un palazzo ottocentesco in Via San Paolo, Filippo Barone vedeva le guglie del duomo conficcarsi dentro un cielo grigio e carico di pioggia. Sul desk dallo stile minimale era aperta una cartella rossa di plastica lucida. Conteneva documenti sulla consulenza per un finanziamento europeo destinato a un importante centro dell’-hinterland. Non erano carte particolarmente rilevanti, il materiale che gli avrebbe permesso di fare il grano lo conservava nella tasca del blazer gessato, tra i file di una chiave USB preparata dal suo factotum Matteo Palumbo. Il contabile era la sola altra risorsa ad avere una stanza privata in quello studio openspace che si occupava di un coacervo indefinibile di attività: dall’assistenza tecnica al guerrilla marketing, passando per le campagne pubblicitarie virali, la comunicazione politica focalizzata sulla diffusione di fake news, il management di profili social, l’editoria marchettara in subaffitto ai pezzi da novanta della città e qualsiasi altro servizio intangibile funzionale alla sacra mission aziendale: incrementare il fatturato. Barone valutò l’adeguatezza dei risultati del quotidiano allenamento callistenico sui pettorali ancora doloranti. A quarantasei anni non poteva tralasciare nulla se voleva essere competitivo. La genetica gli era stata amica. Era alto, dotato di una muscolatura atletica che temprava con una determinazione severa lavorando al potenziamento della forza fisica e all’incremento della velocità. Da bravo ragazzo di quartiere, cresciuto al Giambellino, completava il workout con estenuanti sessioni di corda, sacco e shadowboxing. Aveva un viso armonico, segnato da zigomi pronunciati e occhi profondi di un colore ombroso quanto la sua mancanza di scrupoli. Alla cura dei capelli e alla rasatura provvedeva il giovane staff hipster del barber shop di fiducia che aveva scoperto tra i locali e i negozi alla moda di Via Savona. In una città come Milano la ricchezza era l’unica carta del mazzo che contava. Se poi la fresca si trovava custodita nel portafoglio di un uomo tanto fortunato da essere anche piacevole alla vista, beh, allora era tutta un’altra roba. Uscì dalla stanza e sorrise alle componenti del team femminile impegnato a produrre lavoro clean per conto di alcune delle aziende che avevano sede nell’ampio openspace. Si trattava di uno schema di scatole cinesi dove la società principale, chiamata Creia.Mi Consulting Srl, controllava le quote di un multiforme gruppo di imprese intestate a prestanome, come l’onnipresente Palumbo. Quella mattina doveva consegnare documenti confidenziali all’assessore Luciano Fumagalli, sgamato amministratore di un comune dell’area metropolitana, uno dei tanti con i quali lo studio lavorava, in un modo o nell’altro. Il fascicolo digitale, serbato nel dispositivo elettronico, serviva a turbare l’appalto per un progetto insignificante, a prima vista: le prestazioni di facchinaggio necessarie a ripulire un immobile di proprietà dell’ente pubblico, prima di destinarlo a una biblioteca. Era un lavoro da meno di centocinquantamila euro ma nel territorio in questione la voracità della famiglia Alfieri non aveva limite e, d’altra parte, le procedure con importi tanto contenuti erano le più semplici da manovrare. L’Ambaradan funzionava così: tre aziende partecipavano alla gara consegnando dei preventivi, una era controllata dai calabresi, le altre due erano alleate disposte a indicare una cifra abbastanza elevata da decretare la sconfitta della loro offerta tecnica. Quando poi non si trovava modo di mettersi d’accordo, allora s’iniziava a parlare con il linguaggio del fuoco. E, figa, quello lo capivano tutti. Imboccata Via del Senato la 911 blu costeggiò gli edifici liberty di Brera, lasciandosi alle spalle Via Fatebenefratelli. Il traffico perverso della mattina procedeva a singhiozzo ma Barone odiava mescolarsi all’umanità indistinta e multietnica che affollava i mezzi pubblici. Sovrastata dalla torre vermiglia del Castello Sforzesco vide una moltitudine di soggetti accalcata dentro gli stand bianchi di una manifestazione artistica che prometteva un’esperienza multisensoriale sull’abitare contemporaneo e sulla relazione tra l’uomo e l’ambiente. Una coppia di americani, WASP e sovrappeso, scattava un selfie sullo sfondo del parco. Sotto l’ago d’acciaio e vetroresina al centro di Piazzale Cadorna correnti opposte di pendolari svuotavano e riempivano la strada, mescolandosi a cingalesi con mazzi di rose in mano e studentesse universitarie dirette alla Cattolica. Barone si prodigò in uno slalom tra mezzi pubblici, auto sportive e ciclisti con la cravatta sotto l’impermeabile, la caviglia esposta alle intemperie e il laptop dentro una custodia colorata. Scansò cantieri stradali dove, con tutta probabilità, lavoravano imprese collegate agli amici degli amici e terminò la circumnavigazione della Zona 1 parcheggiando di fronte a un caffè nelle vicinanze delle Colonne di San Lorenzo. Il Fumagalli, fedele all’origine del suo cognome, era un malnàtt dinamico e pieno d’inventiva. Si trovava dentro il bar da almeno un’ora, per evitare che nelle presumibili annotazioni di servizio OCP della madama comparissero elementi sufficienti a regalargli un soggiorno omaggio nell’albergo al numero 2 di Piazza Filangieri. Per la stessa ragione, prima di uscire dal suo ufficio, aveva abbandonato il telefono cellulare sulla scrivania. Barone attraversò un’ampia porta di vetro incastonata in una facciata ricoperta da lastre di marmo grigio. La sala era quasi vuota. Una donna con una pelliccia rosa e un angelo tatuato sotto il mento batteva le unghie smaltate sulla tastiera di un portatile bianco. Lampadari rettangolari di ferro battuto illuminavano un lungo bancone dallo stile postindustriale. Dietro, un manager dalla barba curata discuteva con un cameriere di origini orientali. L’assessore, in abito grigio abbinato a una cravatta blu a righe, sedeva su un divanetto verde pastello. Sorseggiava il consueto centrifugato di kiwi nella speranza lo aiutasse a bruciare la spropositata quantità di adipe che anni di cene di partito avevano lasciato depositare sui suoi fianchi flaccidi. Il cameriere orientale si avvicinò. Barone chiese caffè e conto, insieme. «Alùra, c*m te stet?», domandò Fumagalli, allungando la mano. «Eh, tirèmm innànz», rispose Barone passandogli la chiave USB con una stretta. «Questa partita è chiusa. Non immagini quanti inutili sbattimenti mi sia costata, ma i calabri hanno la testa dura come il granito. E tu lo sai bene», continuò. «Vediamo di allinearci per la prossima. Figa, quella è una roba seria.» «Fammi capire un po’: chi deve entrare nell’affare? Gli Alfieri o i Procopio? Minga è istess.» «A questo giro tutti e due. Dai retta a me, è da parecchio che i Procopio si stanno allargando. Quelli non lo rispettano Antonino Alfieri, dicono che non è mai stato in galera e non è uomo abbastanza. Il Rocco ormai è vecchio e con quell’altro balengo del Domenico a Opera, i cugini poveri hanno finalmente l’occasione giusta per scavallare il giro ai nobili della famiglia.» «Basta che non facciano qualche altro casino dei loro. Te vist che roba in Via Camaldoli? Han fatto fuori quel povero ambrogio del Frigerio per quattro spiccioli. Roba da matti.» Aveva visto sì, Barone, il casino di Via Camaldoli. L’aveva saputo in anteprima assoluta, in dettaglio e con tanto di immagini del caro defunto che imbrattava il marciapiede. Ma non era quello il vero problema dell’assessore: nemmeno la quotidiana pratica di menzogna e dissimulazione riusciva a nascondere la preoccupazione per il ruolo che era obbligato a ricoprire nel business all’orizzonte. Il Fumagalli era stato eletto, lui e la giunta del suo comune, grazie ai voti marchiati Aspromonte. Ne aveva acquistati duemila dagli Alfieri, che avevano fatto lavorare a suo servizio anche i Procopio, il loro braccio armato, e gli altri clan che orbitavano intorno alla Locale su cui erano sovrani. Il prezzo iniziale era sceso da ottanta euro a voto fino a trenta. In cambio l’assessore aveva promesso di mettersi a disposizione. Il che significava che i calabri avrebbero bagnato il becco, come dicevano loro, in tutti gli appalti dove lui riusciva a infilare le mani. In futuro l’avrebbero appoggiato, in modo ancora più massiccio, per un posto al Pirellone, a Bruxelles o a Roma, così come avrebbero fatto in ognuna di quelle consultazioni con una pedina dello schieramento avverso, qualunque fosse la gamma di colori dell’arcobaleno elettorale. Questo in futuro, però. Per il momento ciò che importava era che Fumagalli facesse entrare le aziende capitanate dagli Alfieri nei lavori per la costruzione di un moderno quartiere chiamato solennemente Città Futura: una decina di isolati disseminati di palazzoni, villette multifamiliari, giardinetti e strutture sportive, con accesso diversificato a seconda della disponibilità di K nel conto corrente bancario dell’acquirente. «Come farete a dare ai terroni la loro fetta di torta senza mandare tutti quanti al numero due?», domandò Barone. «Opereremo sotto soglia. Divideremo l’intervento in quattro progetti da cinque milioni di euro per evitare i casini delle norme comunitarie e le rotture di coglioni delle procedure ANAC. Ci regoleremo con una quota di subappalto fino al quaranta per cento e un’aggiudicazione secondo il criterio del massimo ribasso. Se quelli lì si presentano con le società giuste, antimafiate e clean, abbiamo il pallino in mano.» «Liscio come l’olio, tel chi. In azienda faremo in modo di garantirvi bandi di gara a prova di bomba e capitolati scritti su misura. Se poi ci troviamo tra le palle qualche genio che non ha intenzione di scansarsi, allora deleghiamo agli amici della bassa Italia: quella è gente che sa come essere convincente.» Entrò nell’ascensore e premette il tasto per l’ultimo piano di Palazzo dell’Arengario. Le porte si riaprirono e Filippo Barone avanzò illuminato dall’intreccio tubolare di neon che adornava il soffitto della Sala Fontana. Era ora di pranzo ma Milano era vestita a festa: il Museo del Novecento aveva aperto le porte a un’infinità di ospiti da ogni parte del pianeta. Un drappello di anziani giapponesi, con badge appeso al collo, formava una perfetta fila indiana e attendeva di ammirare il panorama di Piazza del Duomo. Una ragazza francese, stretta in un trench nero, redarguiva il fidanzato per la scarsa qualità delle foto che le stava scattando con un cellulare Samsung. Barone si avvicinò a una delle vetrate. Le persone brulicavano sotto la cattedrale incipriata da una coltre di nebbia che aleggiava su pinnacoli e statue dall’anima gotica. Un maestoso albero di Natale, cosparso da migliaia di luci led color oro, fronteggiava la basilica come a volerle ricordare che il cuore della metropoli possedeva il passato ma la testa guardava verso il futuro: nessuno poteva immaginare la dimensione della catastrofe che in poco tempo avrebbe sconvolto la vita del genere umano. Prima di raggiungere il luogo dell’appuntamento si assicurò di non essere seguito. Entrò in bagno, fece un ultimo giro della sala. Discese una rampa di scale fermandosi ad ammirare statue di Martini e tele di De Chirico. Arrivato al primo piano vide Antonino Alfieri guardare un dipinto. Con un cappotto nero appeso al braccio osservava l’immagine di un esercito di braccianti che avanzava, anch’esso, verso un avvenire carico di illusioni. A Barone la figura snella ed elegante del calabrese appariva come un elemento fuori posto, imprigionato in un mondo a cui apparteneva, senza via di scampo, per un diritto che lo braccava fin dal giorno della nascita. Si avvicinò al quadro. I due rimasero immobili davanti alla tela. «Sapevi che i personaggi di quest’opera sono gli amici e i familiari di Pellizza da Volpedo?» domandò Tony ‘u Dottori. «Certo, quello al centro è il farmacista del paese. Il Pellizza ci perdeva le giornate a farsi grandi seghe mentali sul socialismo e sul futuro della classe operaia. La donna a destra, invece, è sua moglie. La poveretta è morta male all’inizio del Novecento dopo aver partorito il loro terzo figlio.» «Da oggi in poi, qualsiasi ordine che riguardi gli affari di famiglia deve superare la mia approvazione», disse ‘u Dottori. «Non importa come ti arriva la ‘mbasciata, chi te la comunica o da chi ti dicono che provenga. Si fa quello che dico io. Niente discussioni, niente minchiate, nient’altro. Capiscisti?» Antonino Alfieri osservò ancora una volta i dettagli del capolavoro. Senza attendere risposta si voltò e abbandonò la sala. *** Un’agente di polizia penitenziaria verificò i dati sul documento d’identità, accarezzandosi le sopracciglia marcate da una linea di matita nera. Antonino Alfieri vergò una firma leggibile tra le righe del fascicolo che registrava i nomi dei familiari ammessi a colloquio. Dietro le sue spalle un anziano che parlava un siciliano stretto, e vestiva una giacca di velluto a coste larghe, attendeva il turno nella fila. Il figlio di don Rocco fu condotto in una stanza laterale da due solidi secondini di sesso maschile. Uno di loro teneva al guinzaglio un pastore tedesco. Gli chiesero di spogliarsi e fecero annusare al cane gli abiti posati sul pavimento: non importava che la visita al camoscio si svolgesse dietro un vetro. All’esterno udì l’anziano siciliano urlare violente imprecazioni. Malediceva le guardie per quella che considerava un’inutile umiliazione. Uno degli uomini in divisa incrociò lo sguardo di Antonino. «Sono le regole, Alfieri», sottolineò, sganciando un mazzo di chiavi dal passante dei pantaloni. Inforcarono un andito illuminato da lampade giallastre. Scesero nei sotterranei del padiglione destinato all’alta sicurezza. Percorsero un labirinto, dominato da alti muri grigi, che si snodava senza un senso logico. Era stato progettato per disorientare il visitatore, impedendogli di memorizzasse la planimetria della struttura. Superarono sbarre e altre sbarre, porte blindate e altre porte blindate, fino a quando, in fondo a un corridoio, riconobbe la stanza dove ogni settimana, dietro una lastra di cristallo spessa cinque centimetri, incontrava il fratello. Varcò l’ingresso e si sedette davanti a un tavolo di legno che riemergeva dall’altro lato della barriera trasparente. Poggiò gli occhi sull’interfono nero appeso alla sua destra. Domenico Alfieri, inteso Micu Bang Bang, apparve dopo qualche minuto. Richiuse la porta che conduceva al padiglione dell’alta sicurezza. Svelò il bianco dei denti e si sedette di fronte al sangue del suo sangue. Micuzzu era allegro e ben curato, come abitudine e come si addiceva alla condotta di un affibbiato del suo peso. Dalla forza dimostrata nell’affrontare la detenzione dipendevano l’onore e il prestigio degli Alfieri in quanto ‘ndrina pesante, dentro la Società e fuori da essa. Portava un dolcevita nero che metteva in risalto il volto rasato, i capelli ondulati, e lo sguardo affilato che pareva attraversare le persone. Si trovava in seminario per un traffico di droga, una vecchia storia. L’avevano condannato assieme a una legione di altri imputati dallo stesso cognome. A lui erano toccati sette anni, ma il magistrato – un uomo che aveva sacrificato ogni gioia della vita all’obiettivo di distruggere gli Alfieri e ciò che essi rappresentavano – non era riuscito a provare l’associazione e a seppellirlo vivo dentro quelle quattro mura. Non si era arreso, il pubblico ministero. Negli ultimi mesi aveva armato una tragedia grazie alle delazioni di un parente stretto di niente che si era buttato a pentito. Micuzzu, finalmente liberante dopo sei anni di collegio, si trovava a dover affrontare un altro processo per una faccenda molto più seria: l’aver riempito di nuove asole la giacca di un ladruncolo albanese che aveva scampanato confidando nel salto di qualità. Lo storto aveva rapinato una gioielleria sul loro territorio senza cercare permesso a chi di dovere. E per certi fatti non esisteva perdono, altrimenti pure lo scecco da parata più stupido finiva per sentirsi forte abbastanza da sollevare la testa. Il problema era che assieme al perdono non esisteva nemmeno salvezza da un’accusa del genere. Micuzzu vedeva vicina la possibilità di trascorrere il resto dei suoi giorni nelle mani della Legge. I fratelli Alfieri si stimavano ma erano diversi tra loro come lo sono un revolver di grosso calibro e un pugnale dalla lama affilata. Domenico Alfieri, inteso Micu Bang Bang, era per regola sociale il prossimo capobastone della cosca, in linea di successione diretta. Era il primogenito e, nella scala gerarchica, aveva ricevuto un fiore importante: come don Rocco aveva la Crociata. Da quando era nato, quarantaquattro anni prima all’ospedale di Reggio Calabria, aveva passato ogni estate in libertà Giù, a San Michele d’Aspromonte, paese d’origine della famiglia Alfieri collocato al centro di un triangolo geografico che aveva come vertici San Luca, Platì e Careri. Parlava con un accento inequivocabile, spesso in dialetto. Si era diplomato a Milano ma era rimasto impermeabile alle influenze culturali della nuova città. Antonino, al contrario, era venuto alla luce pe Supra, aveva studiato economia alla Bicocca e riusciva a esprimersi indistintamente in una varietà linguistica che passava dallo stretto milanese dei Navigli al vernacolo più chiuso della Locride. Il temperamento dissimile ricevuto in dono da Dio rinsaldava la loro unione di sangue e la promessa d’onore al vincolo sociale che accompagnava da oltre un secolo quella famiglia di buoni cristiani. «Come stai, fràtima?» chiese Domenico, parlando attraverso la cornetta e poggiando la mano sul vetro. «Tutto bene,» rispose ‘u Dottori, rivolgendogli uno sguardo che diceva il contrario. Micuzzu sapeva quanto bastava. Si trovava in regime di carcere duro ma la cosca era riuscita ad avvicinare uno dei medici del penitenziario e alcuni secondini. Per ragioni di sicurezza non era possibile trasmettere informazioni dettagliate a questi contrasti. Si poteva, tuttavia, far arrivare la farfalla attraverso un codice noto a Domenico. Con cadenza settimanale uno di quegli uomini portava una mezza parola al detenuto e gli permetteva di tenere in ordine i pezzi del rompicapo criminale che si giocava all’esterno delle mura. In altri istituti la Società era riuscita a introdurre microtelefoni nelle sezioni del 41 bis. Gli Alfieri la consideravano una mossa rischiosa e controproducente, una disperata certificazione di debolezza. Era come ammettere che gli affibbiati rimasti all’esterno non fossero in grado di comandare. «Successero cose tinte qua fuori», disse Antonino Alfieri. «Chi capitau?» «Gli alberi del giardino si stanno ammalando. Non riusciamo a capirne la ragione. Anche la quercia più grande, quella che aveva piantato nonno, pure quella si sta seccando dall’interno… T’u ricordi a nonnu Micu? Pace all’anima sua. Eri il suo preferito perché ti chiami uguale a lui…» «U sai ca m’u ricordu, nonnu Micu», rispose il primogenito, sorridendo. «Ma dimmi della quercia. Cosa volete fare per salvarla?», domandò più con gli occhi che con le parole. «Peggiora di giorno in giorno. Me ne devo occupare personalmente. Stamattina ho avvisato il giardiniere. Ha saputo che non deve metterci mano senza avvisarmi. C’è pericolo, fràtima: qualcuno potrebbe decidere di abbatterla per salvare gli altri alberi.» «Questo non può essere.» «No, non può essere.» «Ci devi pensare tu, fràtima. ‘U Santissimu scelse per me questa malasorte… messo carcerato ingiustamente. Il cielo è nero e carico di grandine, ma noi ne verremo fuori anche questa volta, perché portiamo addosso l’onore della famiglia Alfieri… non te lo dimenticare. Fammi un favore. Vai dall’avvocato, digli ca ci vogghiu u parru. Deve venire qua prima possibile.»
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