«Alberto, carissimo, vacci a pigliare un caffè, per cortesia», disse Carmine Procopio. «Ti spiego tutto più tardi», aggiunse, indicando la porta.
Filippo Barone conosceva Carmine e immaginava i problemi che sarebbero nati da quella trattativa. La Locatelli Srl era la prima vera azienda di peso che i Procopio erano riusciti a infettare. Ma era troppo grande per loro: Giù, e nelle Locali pesanti lì al Nord, l’idea generale era quella.
I primi a pensarlo erano gli Alfieri, che su ogni operazione portata a termine pretendevano una cagnotta. Poi c’erano da accontentare le famiglie delle trenta Locali attive in Lombardia, corrispondendo loro un pezzetto della ditta sotto forma di un subappalto, di una fornitura o di una prestazione di servizio. Tutto questo si scontrava con la voracità di un clan di usurai e avvoltoi come i Procopio, gente terribile che prestava soldi dietro un interesse mensile del cinquecento per cento e faceva mangiare fisicamente le cambiali a coloro che ritardavano i pagamenti.
«Che dici, Carmine, ci diamo del tu o continuiamo la recita?», disse Barone.
«Compare Filippo, tu mi farai morire dal ridere un giorno o l’altro», rispose Procopio.
«Dubito che quel giorno sia oggi. Se continuate a gestirla in questo modo l’azienda ci arriva inamidata alla presentazione dei bandi per Città Futura», tagliò corto Barone.
I Procopio si stavano arrischiando a fare gli zanza con le altre buone famiglie. Fingevano di onorare i patti ma in realtà avevano cominciato da tempo a spolpare la Locatelli Srl. Non rispettavano la suddivisione dei lavori prestabilita, subappaltavano oltre metà delle opere a imprese che controllavano e si assicuravano la precedenza nei pagamenti tramite il giovane Nicola, strategicamente sistemato nell’ufficio contabilità.
Ma non era finita lì. Improvvisamente era saltata fuori una nuova società, chiamata Locatelli qualcos’altro, alla quale erano stati trasferiti i contratti dei dipendenti e che stava subentrando nei cantieri in modo mascherato: il preludio per la trasformazione dell’impresa originale in una bad company.
«La Locatelli è roba nostra. Noi l’abbiamo avvicinata e noi decidiamo come va gestita. Il tuo compito è solo quello di cacciare fuori lavoro e di farci mangiare tutti quanti. Vedi un po’ come ti devi aggiustare e portaci quello che ci spetta», disse Procopio.
«Io faccio il consulente, Carmine, e ti sto avvisando: quand el va minga, el va minga. Il vostro gioco non può continuare a lungo. È una semplice questione matematica», rispose Barone.
«Vorrà dire che ci darai una mano a trasformare i numerini e a mettere ogni cosa al suo posto. Non è per questo che paghiamo cristiani come te? Non lo facciamo per rendere possibile l’impossibile?»
«Cosa ne pensa Rocco Alfieri di questa strategia?»
«Rocco Alfieri? E chi lo sente più Rocco Alfieri?’U Fantasma daveru spariu! Avi settimane che non ne sappiamo nulla. Va bene che ha il libretto rosso, ma i cristiani certe cose non le capiscono…» sibilò, riferendosi al registro con le prescrizioni che l’autorità giudiziaria imponeva ai sorvegliati speciali.
«Pure papà ha il libretto rosso ma il dovere di cristiano lo onorò sempre», disse Nicola Procopio.
«Ecco, bravo, hai sentito che dice Cola? Riferiscilo a compare Antonino Alfieri quando lo vedi: dicci che ogni cristiano avi ‘a fari la fatica che ci spetta se vuole mantenere la corona e il rispetto», aggiunse Carmine, con un sorriso velenoso.
«Credo che non ci sia altro da aggiungere», concluse Barone, alzandosi dal divano.
«Ma come, non ve lo pigliate il caffè?»
Lasciarono l’ufficio. Barone capì che al più presto avrebbe dovuto riportare le cattive notizie a Tony ‘u Dottori. La linea di demarcazione che separava il suo ruolo nel mondo legittimo da quello nel mondo sotterraneo si andava assottigliando ogni giorno di più, ma non era preoccupato.
Ciò che non sopportava era l’arroganza di quella gente.
I terroni credevano di colonizzare il mondo conosciuto come avevano fatto le polis della Magna Grecia con il Mediterraneo, lui invece li vedeva come un contagio, un virus inarrestabile che stava devastando un corpo sofferente. Quella era la realtà, ed era inutile negarlo, ma anche sulle malattie bisognava trovare il modo di fatturare.
Accomodatosi sul sedile del SUV Barone prese in mano i telefoni che aveva lasciato all’interno del vano portaoggetti. Ne aveva tre. Sul display di quello da brava persona vide l’icona di un messaggio vocale inviato tramite w******p. Le lettere associate a quel numero componevano un nome: Bianca.
La 911 si fermò alla luce rossa di un semaforo in Via Giambellino. Al di là dell’incrocio i platani al centro della carreggiata guardavano negli occhi i palazzi che avevano di fronte. I loro rami spogli tentavano di sfiorare la pelle dei balconi. Un tram dalle linee morbide aprì le porte a una donna centramericana appoggiata a una balaustrata arrugginita. Barone schiacciò l’acceleratore e il retrotreno dell’auto sibilò.
Nel quartiere percepiva aria di casa, ma uno sciame di pensieri rubava il posto ai ricordi dell’infanzia trascorsa in quelle strade. Era cresciuto in un palazzo popolare di Via Odazio. Dalle finestre dell’appartamento assegnato alla madre aveva assistito allo spettacolo di morte offerto dalle famiglie della Società che stendevano sull’asfalto un enorme tappeto fatto di sottilissime spade, lacci emostatici e tossici scheletrici.
La domenica mattina, quando non litigava con la mamma, suo papà Gaetano lo portava in una trattoria al numero 22 di Piazza Tirana e, mentre aspettavano il risott giald, gli indicava i tavoli dove i capi delle Brigate Rosse avevano organizzato i primi incontri clandestini in città. A quel tempo Barone non capiva cosa fosse una banda armata, sapeva però che se il padre non si faceva vivo per andare a mangiare lì, in quel posto, la domenica mattina, allora non l’avrebbe visto per settimane e la notte avrebbe sentito la madre piangere.
Suo papà Gaetano era uno zanza di alto profilo che aveva avuto legami con il giro del bel René. Non voleva accettare che l’arrivo dei terroni avesse cambiato radicalmente le regole della mala milanese. Per quel motivo aveva pagato un caro prezzo. L’aveva pagato personalmente, agli Alfieri, trasferendo al figlio la quota restante del debito.
Era così che i calabri avevano agganciato Filippo. Lui però non aveva intenzione di farsi fottere come il padre. Non mentiva a se stesso cercando scorciatoie: vedeva l’ordine che aveva governato il suo mondo cedere il passo rapidamente.
Tutto girava attorno a don Rocco Alfieri. Il vecchio non era più quello di una volta, ormai l’avevano capito pure i sassi, ma da quando il Frigerio el g’aveva ciapà l’amid sotto gli alberi di Via Camaldoli, qualcosa era cambiato per sempre. Prima quel fattaccio incomprensibile, poi l’Antonino Alfieri che veniva a reclamare il controllo totale sugli affari di famiglia, alla fine il Procopio che irrideva quello che per regola era il suo caposocietà. Un brutto segnale, da non sottovalutare soltanto perché arrivava da un ganassa come Carmine.
Quelle due famiglie, legate da cent’anni di storia, si erano trasferite al Nord a partire dagli anni Sessanta. Don Rocco e don Peppe avevano fatto una scelta inequivocabile preparando le valigie di cartone. Non si trattava di soggiorno obbligato: la loro era pura volontà di conquista. Assieme a una banda di fratelli, cugini e compari, tutti provenienti da San Michele d’Aspromonte, avevano cominciato a campare di sgarro, come a loro piaceva definire le dure, le estorsioni e tutto il resto. Uscivano per banche e gioiellerie, spartendo l’hinterland sud di Milano con i platioti e creando una colonia che rispondeva direttamente alla Locale nella madrepatria, il nodo dell’organizzazione che formava il cerchio nei boschi del paesino d’origine. Era una norma non scritta ma rispettata in ogni luogo dove la Società aveva prosperato: anche per gli affari che si sviluppavano a migliaia di chilometri, nei cinque continenti, l’ultima parola spettava alla Calabria, bisognava passare parere al Crimine.
Da qualche mese, tuttavia, le novità si erano moltiplicate. Non soddisfatto dell’intraprendenza sfacciata e delle zanzate tentate a danno delle altre famiglie, Carmine Procopio aveva parlato pubblicamente in quel modo dell’uomo che aveva portato avanti suo padre Peppe nella gerarchia santista: prima offrendogli un ruolo nei sequestri di persona con cui la Fibbia aveva generato l’accumulazione primitiva che l’aveva legittimata come player nel mercato globale degli stupefacenti, poi riservandogli un posto al tavolo di quel settore delle costruzioni dove gli Alfieri davano le carte. Non era una semplice trascuranza, una lieve infrazione delle leggi sociali, quella era una vera e propria macchia d’onore e dimostrava che il clan egemone non aveva più la forza militare necessaria per rimettere in riga la ’ndrina relegata da sempre al ruolo di braccio armato. Don Rocco era fuorigioco, Antonino non era all’altezza e Micuzzu rischiava di vedere l’orologio fermarsi per sempre.
C’era qualcos’altro sotto la superficie, Barone ne era certo. Quegli sviluppi non sarebbero bastati, da soli, a ribaltare un equilibrio criminale che durava da più di cento anni. Carmine Procopio possedeva una carta coperta che avrebbe mostrato solamente all’ultima mano.
Entrato in Tortona, Barone notò un netto incremento di vertiginosi tacchi dodici e di rigogliose barbe artificialmente non curate. Da un edificio appartenuto alle Acciaierie Ansaldo, riadattato alla modernità con la partecipazione della Locatelli Srl, vide uscire una modella dai tratti balcanici intabarrata dentro un lungo capotto rosso con disegni tartan. Un cartello affisso a una parete esterna indicava gli orari d’apertura di una mostra sull’arte giapponese.
L’Apocalisse era ancora lontana e le persone si muovevano come d’abitudine in branchi, a caccia di una serata aperitivo dove esibire l’outfit acquistato quella mattina e rimediare un numero di telefono per questioni di business o di sesso. Qualcuno ne approfittava per ordinare una boccia e mostrare tutta la potenza del proprio conto in banca, cominciando ogni discorso con un classico “di cosa ti occupi?” e sviscerando le responsabilità e i vantaggi connaturati al nuovo upgrade in carriera. I dritti della compagnia, quelli che chiamavano la cocaina givindi, facevano squillare i cellulari dei cavallini di Piazza Prealpi o del Corvetto per richiedere la consegna in scooter di un prodotto che avrebbe assicurato la svolta alla serata di qualcuno e confermato la triste abitudine quotidiana di qualcun’altro.
Barone buttò l’occhio sul quadrante del Patek Philippe.
Era in perfetto orario, quella volta. Bianca Viganò lo aspettava nell’area lounge di un centro estetico a due passi dall’Armani Silos.
Aveva appena finito di farsi più bella.
Se una roba del genere era possibile.