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Arena Uno: Mercanti Di Schiavi (Libro #1 Della Trilogia Della Sopravvivenza)

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"Lo ammetto, prima di ARENA UNO, non avevo mai letto niente di post-apocalittico. Non ho mai pensato che potesse piacermi questo genere… E invece è stata una piacevole sorpresa scoprire quanto prende questo libro. ARENA UNO è uno di quei libri che si leggono fino a tarda notte, quando gli occhi cominciano a incrociarsi perché non riesci a metterlo giù… Non è un segreto che adoro le eroine forti dei libri che leggo... Brooke è tenace, forte, instancabile, e anche quando nel libro c'è del romanticismo, Brooke non si fa mai mettere sotto... Raccomando vivamente ARENA UNO. “

--Dallas Examiner

Il bestseller con oltre 100 recensioni a cinque stelle su sss!

New York. 2120. L'America è stata decimata, distrutta dalla seconda Guerra Civile. In questo mondo post-apocalittico, i superstiti sono pochi e radi. E molti di quelli che sono sopravvissuti sono membri di bande violente, predoni che vivono nelle grandi città. Pattugliano la campagna alla ricerca di schiavi, di nuove vittime da portare in città per il loro sport mortale preferito: Arena Uno. Lo stadio della morte, dove i concorrenti sono costretti a combattere fino a uccidersi, nelle maniere più barbare. C'è solo una regola nell'arena: nessuno sopravvive. Mai.

Immersa nella natura, sulle Catskill Mountains, la 17enne Brooke Moore cerca di sopravvivere, rimanendo nascosta insieme alla sorellina Bree. Stanno attente a evitare le bande di mercanti di schiavi che pattugliano la campagna. Ma un giorno, Brooke non sta attenta quanto dovrebbe, e Bree viene catturata. I mercanti di schiavi la portano via, la conducono in città, verso morte certa.

Brooke, figlia di un marine, è stata cresciuta per essere forte, per non arrendersi mai in battaglia. Quando sua sorella viene presa, Brooke si mobilita, usa tutto ciò che ha a disposizione per inseguire i mercanti di schiavi e salvare sua sorella. Sulla strada s'imbatte in Ben, 17 anni, un altro sopravvissuto come lei, al quale hanno rapito il fratello. Insieme, uniscono le forze per la missione di salvataggio.

Quello che segue è un thriller post-apocalittico e pieno d'azione, con loro due all'inseguimento dei mercanti di schiavi nella corsa più pericolosa della loro vita, fin dentro il cuore di New York. Se vorranno sopravvivere, dovranno fare alcune delle scelte e dei sacrifici più duri della loro vita, incontrando ostacoli che nessuno di loro due si aspetterebbe — compresi i sentimenti che provano l'uno per l'altro. Salveranno i loro fratelli? Riusciranno a riportarli a casa? E dovranno combattere nell'arena anche loro?

"Mi ha preso fin dall’inizio e non ho più potuto smettere… Questa storia è un’avventura sorprendente, incalzante e piena d’azione fin dalle prime pagine. Non esistono momenti morti."

--Paranormal Romance Guild {su Tramutata}

"Un grande intreccio, è proprio il genere di libro che farete fatica a mettere giù per dormire. Il finale è ad alta tensione, talmente spettacolare che vorrete comprare all'istante il libro successivo, anche per vedere cosa succede".

--The Dallas Examiner {su Amata}

"Pieno zeppo di azione, romanticismo, avventura e suspense. Questo libro è una splendida aggiunta a questa serie e finirai col volere leggere ancora Morgan Rice."

--vampirebooksite.com {su Amata}

ARENA UNO è il libro #1 della Trilogia della Sopravvivenza, e ha 77,823 parole. Anche il libro #2 della serie, ARENA DUE, è ora disponibile.

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U N O-1
U N O Oggi è una giornata meno clemente del solito. Il vento sferza incessante e spazza i cumuli di neve dal grosso pino, facendomeli finire dritti in faccia mentre sto salendo per il versante della montagna. I miei piedi, stipati in stivali da escursione una misura troppo piccoli, scompaiono sotto sei pollici di neve. Scivolo di continuo, lottando per trovare l’equilibrio. Il vento arriva a raffiche così fredde da togliermi il respiro. Mi sembra di stare camminando in un globo di neve vivente. Bree va dicendo che è dicembre. Le piace contare i giorni che mancano a Natale, strappare ogni giorno via i numeri su un vecchio calendario che ha trovato. Lo fa con tanto entusiasmo che non riesco a dirle che non siamo per niente vicini a dicembre. Non posso dirle che il suo calendario è vecchio di tre anni, e che non ne prenderemo uno nuovo, perché hanno smesso di farli il giorno in cui è finito il mondo. Non voglio proibirle di fantasticare. È per questo che ci sono le sorelle maggiori. Bree si aggrappa sempre alle sue convinzioni, e ha sempre creduto che neve significhi dicembre, e anche se gliel’avessi detto, dubito che avrebbe cambiato idea. A dieci anni funziona così. Ciò che Bree si rifiuta di vedere è che qui l’inverno arriva prima. Ci troviamo in alto sulle Catskill, e qui c’è un diversa percezione del tempo, un diverso susseguirsi delle stagioni. Qui, tre ore a nord di quella che una volta era la città di New York, le foglie iniziano a cadere a fine agosto, sparpagliandosi sulle catene montuose che si estendono a perdita d’occhio. Il nostro calendario è stato quello corrente un tempo. Quando arrivammo, all’inizio, tre anni fa, ricordo che vidi la prima neve e andai a controllarla incredula. Non riuscivo a capire come mai il foglio dicesse ottobre. Pensavo che una neve tanto precoce fosse un caso eccezionale. Ma presto imparai che non lo era. Queste montagne sono abbastanza alte, e abbastanza fredde perché l’inverno cannibalizzi l’autunno. Se Bree sfogliasse il calendario all’indietro, lo vedrebbe, l’anno vecchio, in grosse chiare lettere: 2117. Ovviamente, tre anni fa. Mi dico che è troppo presa dalla sua frenesia per controllare con più attenzione. Questo è quello che spero. Ma ultimamente, una parte di me sta iniziando a sospettare che lei in realtà sappia, che abbia scelto di proposito di perdersi nelle sue fantasie. Non la biasimo. Certo, è da anni che non abbiamo un calendario vero. O telefono cellulare, o computer, o TV, o radio, o internet, o tecnologia di qualsiasi tipo—senza parlare dell’elettricità, o dell’acqua corrente. Eppure in qualche modo, siamo riuscite a farcela, noi due sole, per tre anni così. Le estati sono state tollerabili, con sempre meno giorni di fame. Almeno possiamo pescare, e i torrenti di montagna sembrano sempre trasportare salmone. Ci sono anche delle bacche, e perfino qualche frutteto selvatico di mele e pere che dopo tutto questo tempo produce ancora. Ogni tanto, riusciamo anche a prendere un coniglio. Ma gli inverni sono intollerabili. È tutto gelato, o morto, e ogni anno sono sicura di non farcela. E questo è stato l’inverno peggiore di tutti. Continuo a ripetermi che le cose gireranno; ma sono passati giorni ormai dall’ultimo pasto decente, e l’inverno è appena iniziato. Siamo entrambe deboli per la fame e adesso Bree è anche malata. Non promette bene. Mentre arranco sul versante della montagna, ripercorrendo gli stessi sfortunati passi di ieri, alla ricerca del nostro prossimo pasto, inizio a sentire la fortuna abbandonarci. A spingermi avanti è soltanto il pensiero di Bree, a casa, distesa che aspetta. Smetto di compatirmi e mi stampo il suo volto in mente. So che non posso trovare medicine, ma spero si tratti di una febbre passeggera, e che un buon pasto e un po’ di calore siano tutto ciò di cui abbia bisogno. Ciò che le serve davvero è un fuoco. Ma ormai non accendo fuochi nel nostro caminetto; non posso rischiare che il fumo e l’odore mettano un mercante di schiavi al corrente della nostra posizione. Ma stasera la sorprenderò, e solo per un pochino, correrò il rischio. Bree ha una passione per i fuochi, e questo le solleverà l’umore. Se riesco a trovare un pasto per accompagnarlo—anche qualcosa di piccolo come un coniglio—la sua guarigione sarà completa. Non solo sotto l’aspetto fisico. Ho notato che ha iniziato a perdere speranza negli ultimi giorni—glielo leggo negli occhi—e ho bisogno di lei per rimanere forte. Mi rifiuto di rimanere ferma a guardarla spegnersi, come ha fatto mamma. Una nuova raffica di vento mi schiaffeggia il viso, e questa è così lunga e violenta che devo calare la testa e aspettare finché non passa. Il vento mi romba nelle orecchie, e farei qualsiasi cosa per un cappotto invernale. Indosso solo una logora felpa con cappuccio, trovata anni fa sul ciglio della strada. Penso che fosse di un ragazzo, ma va bene, visto che le maniche sono abbastanza lunghe da coprirmi le mani e posso quasi usarle come guanti. Col mio metro e settanta non sono esattamente bassa; a chiunque fosse appartenuta, doveva essere alto. A volte mi chiedo se si preoccuperebbe del fatto che indosso roba sua. Ma poi penso che probabilmente è morto. Come chiunque altro. I miei pantaloni non sono molto meglio: indosso ancora lo stesso paio di jeans — è un po’ imbarazzante farci caso — che avevo addosso quando siamo scappati dalla città tutti quegli anni fa. Se c’è una cosa di cui mi pento, è essere partite così in fretta. Forse pensavo di trovare dei vestiti quassù, o che ci fosse ancora un negozio d’abbigliamento aperto da qualche parte, o perfino un Esercito della Salvezza. Com’era stupido da parte mia: ovviamente tutti i negozi di abbigliamento erano stati razziati da tempo. Era come se, nel giro di una notte, il mondo fosse passato dall’essere un luogo di abbondanza all’essere un luogo di penuria. Ero riuscita a trovare qualche abito sparso nei cassetti a casa di mio papà. E quelli li ho dati a Bree. Ero contenta che almeno alcuni dei suoi vestiti, come i pantaloni termici e le calze, potessero tenerla calda. Il vento finalmente cessa, alzo la testa e mi affretto a salire prima che si si alzi ancora, cercando di raddoppiare la velocità, fino a quando non raggiungo l’altipiano. Arrivo in cima, respiro a fatica, ho le gambe che vanno a fuoco, e mi guardo attorno lentamente. Gli alberi sono più radi quassù e in lontananza c’è un piccolo lago di montagna. È gelato, come tutti gli altri, e il sole ci sbatte sopra con un’intensità tale da farmi strizzare gli occhi. Guardo subito la canna da pesca che avevo lasciato il giorno prima, fissata tra due rocce. Spunta fuori dal lago: un lungo pezzo di cordicella dondola dalla canna fino dentro un piccolo foro nel ghiaccio. Se il bastone è piegato, significa che Bree e io ceneremo stasera. Se no, saprò che non ha funzionato — di nuovo. Passo di corsa in mezzo a un gruppo di alberi fra la neve e guadagno una buona visuale. È dritta. Ovvio. Il cuore mi si gela. Sono indecisa se camminare sul ghiaccio, usando l’accetta per creare un altro buco. Ma so già che non farebbe differenza. Il problema non è la sua posizione: il problema è questo lago. Il suolo è troppo gelato per provare a disseppellire vermi, e non saprei neanche dove cercarli. Non sono un cacciatore naturale, o uno di quelli che mette trappole. Se avessi saputo che sarei finita qui, avrei dedicato la mia intera infanzia alla Outward Bound, alle tecniche di sopravvivenza. Ma ora mi riscopro inutile in quasi tutto. Non so come piazzare trappole, e le mie lenze quasi mai catturano qualcosa. Essere figlia di mio padre, figlia di marine, l’unica cosa che mi riesce bene —saper combattere — quassù è inutile. Sono indifesa contro gli animali, ma almeno me la cavo contro quelli con due gambe. Fin da quando ero giovane, che mi piacesse o meno, papà insisteva sul fatto che ero sua figlia — figlia di marine, e ne era fiero. Ha anche voluto che fossi il figlio che non ha mai avuto. Mi ha iscritto a pugilato, lotta, arti marziali miste… lezioni infinite su come usare un coltello, come sparare con una pistola, come trovare i punti di pressione, come giocare sporco. Più di tutto, ha preteso che fossi forte, che non mostrassi mai paura, e che non piangessi mai. Paradossalmente, non ho mai avuto l’opportunità di usare una singola cosa di quelle che mi ha insegnato, e tutto questo non poteva essere più inutile quassù; non si vedono altre persone. Quello che davvero mi servirebbe sapere è come trovare cibo — non come prendere a calci qualcuno. E se mai dovessi imbattermi in un’altra persona, non proverò a lanciarmici addosso, ma chiederò aiuto. Ci penso bene e mi ricordo che c’è un altro lago quassù, uno piccolo; l’ho visto una volta, un’estate in cui mi sentivo avventurosa e facevo escursioni lontane su in montagna. È mezzo chilometro scosceso, ed è da allora che non tento di salire lì . Guardo in alto e sospiro. Il sole sta già calando, un cupo tramonto invernale si stende in una sfumatura rossastra. E mi sento già debole, stanca, e congelata. Mi serviranno quasi tutte le energie che ho solo per ridiscendere la montagna. L’ultima cosa che voglio è salire ancora più in alto. Ma una vocina dentro di me mi spinge a continuare a scalare. Più tempo passo sola questi giorni, e più forte nella mia testa diventa la voce di papà. È insopportabile e vorrei tenerla fuori, ma per qualche motivo, non ci riesco. Smettila di lamentarti e continua a spingere, Moore! A papà è sempre piaciuto chiamarmi per cognome. Moore. Mi dava fastidio, ma non gli interessava. Se torno adesso, Bree non avrà niente da mangiare stasera. Quel lago lassù è quanto di meglio mi viene in mente, la nostra sola altra fonte di cibo. Voglio anche che Bree abbia un fuoco, e tutto il legno quaggiù è fradicio. Lassù, dove il vento è più forte, potrei trovare legno abbastanza asciutto per accendere un fuoco. Do un altro sguardo in alto verso la montagna, e decido di proseguire. Testa bassa e inizio l’escursione, portandomi appresso la canna. Ogni passo è doloroso, come un milione di aghi affilati che mi pulsano nelle cosce, senza contare l’aria ghiacciata che mi perfora i polmoni. Il vento si fa più violento e la neve arriva a frustate, come carta vetrata sulla faccia. In alto un uccello di mette a gracchiare, quasi volesse deridermi. Proprio quando sento di non riuscire più a fare più un solo passo, raggiungo l’altopiano successivo. Si trova molto in alto, ed è diverso da tutti gli altri: è pieno zeppo di alberi di pino, che rendono difficile vedere al di là di due tre metri. Il cielo rimane tagliato fuori da questa enorme cupola, e la neve è ricoperta di aghi verdi. Gli enormi tronchi riescono a bloccare anche il vento. Mi sembra di essere entrata in un piccolo regno privato, nascosto dal resto del mondo. Mi fermo, mi giro, e mi godo il panorama: la vista è stupefacente. Avevo sempre pensato che c’era una vista grandiosa da casa di papà, a metà strada sulla montagna, ma da qui, sulla cima, è spettacolare. I picchi di montagna si elevano in ogni direzione, e in lontananza riesco anche a vedere il fiume Hudson che brilla. Vedo anche le vie tortuose che si fanno strada attraverso la montagna, straordinariamente intatte. Probabilmente perché pochissime persone salgono di qua. Non ho infatti mai visto un’auto né nessun altro veicolo. Nonostante la neve, le strade si vedono bene. Sono strade spigolose e scoscese, battute dal sole e perfette per drenare; il grosso di quella neve si è sorprendentemente sciolto. Di colpo, un cattivo pensiero mi assale. Preferisco le strade quando sono ghiacciate e ricoperte di neve, impraticabili per i veicoli, poiché di questi tempi le sole persone che hanno automobili e carburante sono i mercanti di schiavi — gli spietati cacciatori di taglie che lavorano per sfamare l’Arena Uno. Pattugliano ovunque, cercano i sopravvissuti, per rapirle e portarli all’arena come schiavi. Mi hanno detto che là li fanno combattere fino alla morte, per divertimento. Bree e io siamo state fortunate. Negli anni passati quassù non abbiamo visto alcun mercante di schiavi — ma credo sia soltanto perché viviamo tanto in alto, in una zona tanto distante. Una sola volta ho sentito il rumore acuto del motore di un mercante di schiavi, a grande distanza, dall’altro lato del fiume. So che sono laggiù, da qualche parte che pattugliano. E non corro alcun rischio — mi assicuro di tenere un basso profilo, senza quasi mai bruciare legno a meno che non ne abbiamo bisogno, e tenendo tutto il tempo d’occhio Bree. La maggior parte delle volte la porto a cacciare con me — l’avrei fatto anche oggi se non fosse così malata.

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