GIORNATA I, INTRODUZIONE-1

2032 Words
GIORNATA I, INTRODUZIONE Quante volte, graziosissime donne, consapevole di quanto per natura siate sensibili alla sofferenza, ho pensato che tante di voi troveranno impegnativo e tormentato l’inizio di questa mia opera, dato che porta nel suo incipit il ricordo della spaventosa esperienza della morte e della peste, ben nota a tutti coloro che l’hanno vissuta o che la conoscono indirettamente. Ma io non voglio che questo vi spaventi e abbiate paura di proseguire la lettura temendo di procedere fra lacrime e smarrimento. Questa durissima partenza deve essere per voi come quella di chi cammina in montagna su per un sentiero aspro e ripido, per raggiungere in cima uno splendido e dolce pianoro di cui tanto più si gusta la bellezza quanto più faticoso e duro è stato il percorso. E così, come al culmine della felicità succede il dolore, così terminano le sofferenze al sopraggiungere della gioia. A questo breve momento di tristezza (dico breve perché se ne parla in poche pagine) seguiranno subito la dolcezza e il divertimento che in precedenza vi ho promesso e che forse non vi sareste aspettato dopo un simile inizio, se non ve l’avessi preannunciato. In verità, se io avessi potuto trovare un’altra via, diversa da questa così tormentata, per condurvi là dove desidero, l’avrei fatto volentieri. Ma, qualunque sia stata la causa per la quale è avvenuto tutto ciò di cui si leggerà più avanti, confesso che non avrei potuto non ricordare quello che mi sento costretto a descrivere ora. Dico dunque che erano trascorsi milletrecentoquarantotto anni dall’incarnazione del Figlio di Dio quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale o per influsso degli astri o mandata dall’ira di Dio a punire le nostre malefatte, era iniziata molti anni prima in Oriente causando un numero enorme di morti, poi, senza fermarsi mai, era giunta spaventosamente in Occidente. A fermarla non valse nessun provvedimento sensato, come l’aver ripulito a dovere la città da molta sporcizia, per ordine di ufficiali appositamente incaricati, l’aver vietato l’ingresso ai malati e dato molte altre direttive per preservare l’igiene e la salute. E non servirono a nulla le umili suppliche a Dio in molte e diverse processioni. Quasi al principio della primavera dell’anno milletrecentoquarantotto la pestilenza cominciò a manifestarsi dolorosamente mostrando la sua forza in modo sbalorditivo. E non allo stesso modo avvenuto in Oriente, dove chiunque perdesse sangue dal naso era evidente che sarebbe morto: qui si manifestava all’inizio sia nei maschi che nelle femmine con gonfiori all’inguine o sotto le ascelle, alcuni grandi come mele, altri con l’aspetto di uova, più o meno grandi, detti popolarmente gavoccioli. In breve tempo da quei gonfiori mortiferi si passò ad altri segni in ogni parte del corpo: in luogo di questi apparvero macchie nere o livide su braccia, cosce o qualsiasi altra parte, a chi grandi e rade, a chi piccole e molto diffuse. E come il gavocciolo era all’inizio un sintomo certissimo che annunciava la morte, così lo furono le macchie. Non c’era nulla che si rivelasse utile alle cure, né i consigli dei medici né alcuna medicina, anzi. Questo sia perché la malattia non temeva nulla, sia perché gli infermieri (i quali, oltre ai medici, erano improvvisamente diventati numerosissimi, sia uomini che donne che non avevano mai studiato medicina), essendo ignoranti, non potevano combatterla perché nessuno aveva la più pallida idea delle cause e delle cure necessarie. La medicina medievale si basava sulle conoscenze trasmesse dai testi antichi greci e arabi. La Scuola Medica Salernitana è stata in Europa la massima espressione degli studi medici e, forse, una delle più antiche del mondo, frequentata anche, caso straordinario, da alcune donne. Decadde alla fine del milleduecento, mentre nascevano nuove importanti realtà: le università di Bologna, Padova, Parigi, Montpellier. Di fatto guarirono in pochi e soprattutto la quasi totalità di coloro che manifestavano i sintomi che ho elencato moriva all’incirca entro il terzo giorno, in genere senza febbre né altri particolari sintomi. Questa pestilenza fu inoltre terribile perché dai malati passava ai sani per contatto non diversamente da come fa il fuoco vicino alle cose secche o unte. E col trascorrere dei giorni il contagio peggiorò ulteriormente: non solo il contatto diretto coi malati portava la morte, ma anche toccare i loro abiti o gli oggetti usati si rivelò mortale. È impressionante ascoltare quello che ora vi devo dire: se non l’avessi visto con i miei occhi e non avessi molti testimoni, non oserei né crederlo né scriverlo, neppure se l’avessi udito da una persona assolutamente degna di fede. Ora, fu così forte la capacità di contagio della pestilenza non solo da uomo a uomo ma anche da uomo ad animale, da causarne la morte in tempo brevissimo, come si è potuto osservare numerose volte. È capitato a me personalmente, come ho detto, di vivere questa esperienza: erano stati gettati sulla strada gli stracci di un pover’uomo morto di peste e due maiali che giravano si avvicinarono e cominciarono, come fanno di solito, a scuotere quei panni prima col grifo poi con i denti, facendoli sbattere sulle guance. Pochissimo tempo dopo, come se avessero ingerito veleno, caddero a terra entrambi, morti, sugli stracci. Questi episodi e molti altri simili o più impressionanti generarono terrore in chi sopravviveva e reazioni diverse, quasi tutte rivolte ad uno stesso fine crudele, ossia stare ben lontani dagli ammalati e dalle loro cose. Così facendo ognuno era convinto di salvaguardare la propria salute. Alcuni pensavano che per resistere aiutasse molto un regime di vita controllato, tutto rivolto alla cura di sé, evitando ogni cosa superflua. Si formavano gruppi di amici che se ne stavano chiusi nelle loro case, nelle quali non era ammesso nessun ammalato, organizzati per vivere il meglio possibile, provvisti di cibi delicatissimi ed ottimi vini, evitando ogni vizio, ogni cattiva notizia di morte o di malattia proveniente da fuori, e confortandosi con la musica o con quant’altro potessero procurarsi di piacevole. Altri al contrario erano convinti che la miglior medicina fosse bere molto, godere, cantare, andare a zonzo a divertirsi soddisfacendo ogni appetito e ridere e beffarsi di tutto il male che stava invadendo il mondo intorno a loro. Tutto quello che passava loro per la mente lo realizzavano come potevano, in giro per taverne giorno e notte, ubriacandosi a dismisura, entrando anche a casa degli altri, se ritenevano che dall’interno giungesse un richiamo attraente per loro. E tutto questo potevano farlo senza problemi, perché molti lasciavano abbandonate e senza protezione le loro proprietà, come se fossero certi di non sopravvivere. La maggior parte delle case era diventata di tutti, anche degli stranieri, che ne facevano uso, se capitava, come se ne fossero i proprietari; e nonostante questo comportamento bestiale i malati non reagivano. In una situazione di tanto orribile degrado della nostra città era scomparsa quasi del tutto la sacra autorità delle leggi umane e divine, poiché i loro ministri ed esecutori erano tutti morti o malati o ridotti senza dipendenti al punto da non poter tener fede al loro compito. Perciò chiunque poteva fare, impunito, tutto quello che voleva. C’erano poi molte altre persone che assumevamo comportamenti a metà fra le due posizioni estreme che ho descritto prima, e non si dedicavano esclusivamente al cibo come le prime né si buttavano sul bere ed altre dissolutezze come le seconde. Assecondando con discrezione i propri desideri, uscivano anche per strada e tenevano in mano chi fiori, chi erbe aromatiche e chi spezie varie, annusandole spesso, convinte che tali profumi fossero un ottimo rimedio per rivitalizzare il cervello stordito da un ambiente puzzolente ovunque, saturo del fetore dei cadaveri, degli ammalati e delle medicine. Altri ancora, di sentimenti più crudi, affermavano che contro le pestilenze nessuna medicina è migliore né più efficace del fuggirle. Mossi da questa convinzione, non curandosi di null’altro se non di se stessi, molti uomini e donne abbandonarono la propria città, le case, i loro luoghi, parenti e cose, per rifugiarsi nelle proprie terre in campagna o in quelle d’altri, come se fossero convinti che l’ira di Dio, venuta a punire con la peste le iniquità degli uomini, non si dirigesse contro gli uomini ovunque fossero, ma solo contro quelli chiusi fra le mura della loro città. Come se Dio, al colmo dell’ira, volesse far capire che lì, dentro quelle mura, non sarebbe rimasto nessuno e che per tutti era arrivata l’ultima ora. Non tutti morivano fra chi la pensava a questo modo, ma non per questo tutti sopravvivevano: anzi, molti di loro si ammalavano in luoghi diversi e lontani, ma avendo essi stessi, da sani, dato esempio agli altri con il loro comportamento, agonizzavano ovunque abbandonati. E non parliamo poi del fatto che fra i cittadini chiunque evitava il contatto gli altri e non aveva nessuna cura dei vicini o dei parenti, cui non faceva visita neppure da lontano. Questa catastrofe era penetrata nel cuore di uomini e donne accompagnata da una tale paura che un fratello abbandonava l’altro, e lo zio il nipote, e la sorella il fratello; e, cosa indicibile e quasi impossibile da credere, padri e madri abbandonavano i figli come se non fossero i loro ed evitavano di assisterli. Per questo ad una quantità indescrivibile di ammalati, maschi e femmine, non rimaneva altro aiuto che la carità di amici (molto pochi) o l’avidità di servitori attratti da paghe alte o addirittura esagerate. Così molti si diedero a questo lavoro, spesso così grossolani e in maggior parte non abituati a questo ruolo, da non saper fare altro che porgere agli ammalati qualcosa su loro richiesta o stare a guardarli mentre morivano. Svolgendo questo servizio molto spesso perdevano, oltre al guadagno, se stessi. Da questa condizione di abbandono degli infermi da parte dei vicini, dei parenti , degli amici e dalla scarsità di assistenza a pagamento, derivò un’abitudine mai udita prima: nessuna donna, bella o giovane o nobile che fosse, se si ammalava, trovava scandaloso l’essere servita da un uomo, sia che fosse giovane o altro, e gli mostrava, se soltanto la malattia lo richiedeva, ogni parte del corpo senza vergogna come avrebbe fatto con un’altra donna; questa abitudine, in quelle che guarirono fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. Molti poi morirono anche se avrebbero potuto salvarsi, se solo fossero stati aiutati; per cui, sia per i problemi dovuti ad una assistenza insufficiente ai bisogni degli ammalati, sia per la forza della pestilenza, era tale la moltitudine dei morti, giorno e notte, che era inimmaginabile non solo da vedere ma anche da udire. Avvenne così, quasi per necessità, che chi sopravviveva si comportasse in modo contrario alle abitudini civili. Era uso, allora come oggi, che le donne parenti del morto e quelle appartenenti alla cerchia famigliare e degli amici, si radunassero nella casa del morto per il compianto funebre. Nello stesso tempo davanti alla casa si radunavano gli uomini, amici e parenti, e venivano i religiosi, diversi per grado secondo la posizione sociale del morto; la bara era poi portata a spalle dai suoi pari, accompagnata da ceri e canti, fino alla chiesa scelta per la sepoltura. Tutti questi riti con l’infuriare della pestilenza cessarono del tutto o quasi, ed in loro luogo sopravvennero altri funerali. Non solo la gente spirava senza avere molte donne intorno a piangere ma spesso si moriva anche abbandonati in solitudine: e pochissimi erano i casi in cui capitava di avere intorno al morto i pianti e le amare lacrime dei congiunti, anzi, al loro posto si diffuse l’uso di ridere e scherzare e fare festa in compagnia; questa usanza le donne, messa da parte la pietà femminile, la impararono presto benissimo. Rari poi, fra la gente illustre, erano i morti accompagnati alla chiesa da più di dieci o dodici conoscenti; non portavano la bara importanti e stimati concittadini ma una maniera di beccamorti sopravvenuti di minuta gente (che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva). Questo corteo frettoloso non andava alla chiesa scelta ma a quella più vicina, preceduto da quattro o sei chierici con qualche cero o a volte senza nulla; questi, con l’aiuto dei becchini, senza affaticarsi in qualche funzione troppo lunga o solenne, seppellivano il morto nel primo posto libero che trovavano.
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