CAPITOLO 1

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CAPITOLO 1 Noli, 22 novembre 2013 Il furgone stava procedendo tranquillamente lungo la strada che costeggiava il mare, resa scivolosa da una pioggia battente. Erano le 23:25 e in giro c’erano poche automobili, considerando che era un venerdì sera. Probabilmente la pioggia incessante e il freddo intenso avevano scoraggiato molta gente a uscire di casa. E questo andava bene. Il mezzo era un Fiat Ducato vecchio di dieci anni, di colore bianco, ma con la carrozzeria ancora in ottimo stato; l’autista l’aveva preso a noleggio quello stesso pomeriggio per portare a termine il suo compito. L’avrebbe riconsegnato l’indomani, se tutto fosse andato bene, ovviamente. Stava andando quasi tutto secondo i piani, ma era molto nervoso. Dopo aver noleggiato il furgone, aveva atteso che facesse sera e si era diretto al porto di Alassio, piccolo paese della Liguria ricordato soprattutto perché è la sede di un famoso concorso di bellezza. Lì c’era un’imbarcazione da pesca che lo stava aspettando. Alcuni uomini avevano scaricato quattro casse di legno e le avevano poi caricate sul furgone: ora toccava a lui consegnarle in un piccolo paese in provincia di Torino, vicino a Carmagnola, dove sarebbe uscito dall’autostrada. Era partito verso le 23 e aveva guidato attentamente, rispettando il codice della strada alla lettera. Arrivando all’entrata dell’autostrada c’era subito stato un cambiamento del suo piano: la A10 era chiusa in più punti per lavori di manutenzione, quindi avrebbe dovuto raggiungere l’accesso di Spotorno passando per i centri abitati. Un intoppo proprio all’inizio della missione non era di buon augurio. Sfilò una sigaretta dal pacchetto che si trovava appoggiato sul sedile a fianco e l’accese senza staccare gli occhi dalla strada, aspirando nervosamente. «Stai calmo. Stai calmo» mormorò a bassa voce per tranquillizzarsi. Il Ducato era arrivato lentamente a Noli. L’autista si fermò a un semaforo rosso, l’ennesimo. Non c’era nessuno in giro e fu tentato a passare comunque. Si trattenne dal farlo: non poteva permettersi di essere fermato dalla polizia. L’agente Sabatino Ricci sbadigliò rumorosamente senza mettersi la mano davanti alla bocca. Sembrava un leone ruggente. Era un omaccione alto un metro e ottantacinque, spalle larghe e pancia prominente. Il collega Mauro Rivolta, all’interno dell’auto di servizio, scosse la testa disapprovando silenziosamente la mancanza di bon ton. Si trovavano a Noli, sulla via Aurelia. Nessuno dei due agenti di polizia avrebbe voluto trovarsi lì in quel momento, ma era venerdì sera e qualcuno doveva pur controllare che qualche ubriaco al volante non facesse dei danni. Indossavano tutti e due una lunga mantellina per non bagnarsi la divisa sotto quella fastidiosa pioggia. Ricci era sul ciglio della strada e quella sera si stava proprio annoiando. Pioveva, faceva freddo e c’era poco movimento in giro. Avrebbe di gran lunga preferito restare a casa con sua moglie e con i suoi due figli. Rivolta, invece, di anni ne aveva venticinque e faceva il poliziotto da due. Quella sera avrebbe dovuto essere presente al compleanno di un amico. Invece, un collega si era dato ammalato e per sostituirlo, ovviamente, era stato scelto lui. Il giovane guardò l’orologio digitale della vettura: era il momento di dare il cambio al suo collega per permettergli di scaldarsi un po’. Scese dall’auto e fu subito investito da un diluvio di acqua. «Sabatino, è ora. Vieni dentro a scaldarti qualche minuto» propose Rivolta. L’agente più anziano, che stava osservando la strada, vide in lontananza i fari di un veicolo. «Sta arrivando qualcuno. Diamogli una controllata, che mi sto annoiando a morte» rispose al collega. «Ok va bene.» Tutti e due gli agenti si misero in posizione sul bordo della strada. Sabatino Ricci avanzò di qualche passo e mostrò la paletta d’ordinanza al veicolo in avvicinamento. L’autista del furgone procedeva a meno di cinquanta km/h perché nell’ultimo minuto la pioggia si era fatta più fitta peggiorando la visibilità. Si guardò rapidamente intorno: a sinistra c’erano degli edifici con poche finestre illuminate, a destra c’era il mare, scuro e minaccioso. Procedette ancora un centinaio di metri, quando il suo cuore improvvisamente cominciò a battere al ritmo di un martello pneumatico, alla vista di una pattuglia della Polizia Stradale. Un poliziotto gli stava mostrando la paletta per intimargli di fermare il veicolo. Questo era un gran problema per Osman, l’autista del veicolo, perché lui era membro del Joa, acronimo di Justice of Allah. Il Joa era un’organizzazione terroristica che operava da una decina di anni. Era stata fondata da Omar Abdallah Hassan, un ex membro dei servizi segreti del regime di Saddam Hussein, dopo che il rais era stato deposto dalle forze della coalizione. Hassan aveva accesso a una quantità indefinita di denaro che il regime aveva accumulato in conti segretissimi all’estero. Si era circondato di ex membri delle forze speciali irachene ed ex membri dei servizi segreti, creando il primo nucleo del Joa. Il gruppo aveva mantenuto un profilo basso per diversi anni, occupandosi di rinforzare l’organizzazione. Hassan aveva investito molto denaro in attività lecite allo scopo di avere una continua fonte di finanziamento ma, allo stesso tempo, si occupava anche di attività illecite come il traffico di droga e il rapimento di occidentali. Gli uomini di Hassan nel corso degli anni avevano ampliato anche l’organico, addestrando nuove reclute. Le prime attività del Joa erano stati alcuni attentati contro militari inglesi e americani in Iraq e Afghanistan. Ogni attentato veniva rivendicato sul web con comunicati in inglese, firmati sempre «Justice of Allah». Da allora, i media occidentali avevano cominciato a riferirsi al gruppo come Joa e l’acronimo era rimasto. Nel 2010 avevano cominciato anche a operare in Israele e nel 2012 c’era stato il cambio di marcia per l’organizzazione. Hassan aveva deciso che era arrivato il momento di colpire non solo i militari, ma anche i civili. C’era stato un attentato in un lussuoso hotel di Londra dove erano morte trentacinque persone e più di un centinaio erano rimaste ferite. Il Joa aveva presentato il suo biglietto da visita a tutto il mondo. L’organizzazione contava migliaia di membri sparsi in tutto il pianeta. Nel corso dell’anno si erano susseguiti altri attentati che consacravano il Joa come il gruppo terroristico più pericoloso del mondo. Aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti, a Israele e a tutti i loro alleati. Osman viveva in Italia da una decina di anni e lavorava come muratore. Dopo essere stato reclutato dal Joa, era stato addestrato all’uso di armi da fuoco ed esplosivi in un luogo segreto in Libano. Faceva parte di una cellula dormiente comandata da un certo Jamal. Conduceva una vita ordinaria, in attesa che la cellula venisse attivata. Tutti i membri della cellula svolgevano un lavoro come normali cittadini ma in qualsiasi momento il gruppo sarebbe stato in grado di compiere attentati terroristici. Quella era la sua prima missione operativa da quando era stato reclutato e il suo compito per quella sera consisteva nel trasportare un carico di armi in un luogo sicuro in Piemonte. La mente di Osman cominciò a vagliare le varie opzioni disponibili. Avrebbe potuto fare inversione e tornare indietro, ma avrebbe sicuramente insospettito gli agenti che avrebbero potuto inseguirlo. Non fermarsi era impossibile perché ci sarebbe stato un inseguimento e il piano sarebbe andato in fumo. Decise che la soluzione migliore fosse di fermarsi e restare tranquillo. Avrebbero controllato i suoi documenti e l’avrebbero lasciato andare. Sarebbe andato tutto bene se avesse evitato di farsi prendere dal panico. Azionò la freccia a destra e cominciò a rallentare. I due agenti osservarono il veicolo che accostava. La pioggia continuava a scendere fitta. In cielo comparve un lampo seguito qualche secondo dopo da un tuono. «Non vedo l’ora che finisca questo schifo di serata» disse Ricci. «A chi lo dici! A quest’ora i miei amici si staranno divertendo un sacco» rispose il collega. «Dai, che dopo questo ci infiliamo tutti e due in macchina a scaldarci.» «Sì, sono d’accordo. Si gela, stasera.» Il furgone superò lentamente gli agenti e andò a fermarsi sul ciglio della strada, pochi metri dopo l’auto di pattuglia. Osman spense il motore. Vide attraverso lo specchietto laterale che uno dei due agenti si stava avvicinando. Schiacciò la sigaretta nel posacenere e con un movimento rapido raccolse la pistola che teneva nella tasca portaoggetti della portiera sinistra. Era un revolver calibro 45 con tamburo da sei colpi. Un proiettile di quel genere sparato a bruciapelo può uccidere un uomo all’istante. Il terrorista armò il cane della pistola e la nascose in una capiente tasca del giaccone. Fatto questo, abbassò il finestrino. «Buonasera agente» disse cercando di rimanere il più rilassato possibile. «Buonasera. Può favorirmi patente e libretto di circolazione?» rispose Ricci. Nel frattempo il giovane collega era rimasto vicino all’auto di pattuglia. «Sì certo! Il furgone è a noleggio. Le mostro anche la ricevuta di pagamento.» Osman sfoderò un ampio sorriso ma la mimica del suo corpo suggeriva a Ricci che c’era qualcosa che non andava. Sulla fronte di quel tizio erano comparse gocce di sudore, nonostante la serata fosse decisamente fredda. Il poliziotto prese in mano i documenti che aveva richiesto e osservò la patente. Senza dire una parola si voltò e li portò al suo collega per effettuare dei controlli sull’identità del guidatore, che nel frattempo stava tamburellando nervosamente con le dita sul volante del furgone. Ricci tornò al mezzo. «Che cosa trasporta nel retro?» «Eh... Sto facendo un trasloco per un amico. Gli sto portando alcune cose nella nuova casa.» «A quest’ora?» «Sì, perché in settimana lavoro.» «E dove abita questo amico?» «In un paese in Piemonte.» «Quale?» «Ehm... Cuneo. Sì, Cuneo.» L’agente Ricci era sempre più sospettoso riguardo a quell’individuo. Sembrava molto agitato, anche se era evidente che cercava di sembrare normale. Il suo istinto gli diceva che aveva qualcosa da nascondere. Decise di approfondire la questione. Forse quella serata, così noiosa fino a quel momento, stava per diventare più movimentata. Magari stava per scoprire un carico di droga. «Mi farebbe la cortesia di aprire il retro del furgone?» Ad Osman quasi venne un infarto. «Perché vuole vedere il retro?» domandò dando evidenti segni di nervosismo. «Semplice controllo di routine. C’è qualche problema?» «No no. Nessun problema. Scendo e le apro subito.» L’autista del furgone scese dal mezzo e si incamminò verso il retro. Stava sudando a litri ma la pioggia che scendeva faceva scivolare via tutto. Arrivò al portellone seguito da Ricci, mentre Rivolta osservava la scena con in mano i documenti del guidatore. «Saba, tutto a posto?» «Sì, faccio solo un controllo qui dietro» rispose il poliziotto. Osman aprì il portellone. Dentro c’erano le quattro casse posizionate una di fianco all’altra. Ricci fece due passi verso quella più vicina al portello e fece per sollevare il coperchio. Il terrorista, che era dietro di lui, ebbe solo un secondo per decidere cosa fare. Estrasse la pistola dalla giacca, la puntò contro la testa dell’agente e fece fuoco. Il proiettile attraversò il cranio del poliziotto spappolandolo. L’assassino si girò di scatto e fece fuoco tre volte verso l’altro agente, che ebbe però la prontezza di ripararsi dietro l’auto di servizio. Osman corse verso la cabina del furgone e vi entrò mentre Rivolta sotto shock cercò di impugnare la pistola d’ordinanza, una Beretta 92 Fs. Sembrava di essere in uno di quei sogni dove va tutto al rallentatore. Aprì la fondina, prese la pistola nella mano destra e arretrò il carrello, caricando il colpo in canna. Quando finalmente prese la mira, il furgone era già in moto e si stava immettendo nella strada. Sparò due colpi che colpirono il portellone mentre il mezzo si allontanava. Si avvicinò al collega che giaceva sull’asfalto bagnato in una pozza di sangue, tastò con due dita il collo, alla ricerca del battito cardiaco. Niente. Ricci era morto sul colpo, la sua faccia era irriconoscibile a causa del foro di uscita del proiettile. Il giovane agente di polizia si riscosse, deciso a inseguire l’assassino del suo collega. Corse alla macchina, la mise in moto e partì sgommando sull’asfalto reso scivoloso dalla pioggia, mentre armeggiava con la trasmittente di bordo per mettersi in comunicazione con la centrale. «Qui volante quattro. L’agente Ricci è stato ucciso. Sono all’inseguimento di un Fiat Ducato bianco.» L’operatore dall’altro capo della radio sperava di aver capito male. «Calmati, figliolo» disse. « Fa un respiro e ripetimi quello che hai detto.» Il furgone sfrecciava a velocità elevata lungo la strada statale. A ogni curva rischiava di uscire fuori strada, ma Osman doveva allontanarsi il più possibile dall’auto della polizia. Non sapeva se l’altro agente si era messo al suo inseguimento e non aveva intenzione di stare fermo per scoprirlo. Sperava che l’agente fosse troppo sotto shock a causa della morte del collega per iniziare a corrergli dietro. Il suo piano era di dirigersi in autostrada verso Savona. Alla prima uscita sarebbe nuovamente tornato a percorrere le strade statali e avrebbe cercato un posto per nascondere il furgone. Avrebbe potuto tentare di recuperare il carico successivamente. Sperava così di depistare le ricerche che sicuramente erano già iniziate. Sorpassò un’auto invadendo la corsia opposta e arrivò a Spotorno. Sterzò bruscamente a sinistra in direzione dell’autostrada. Era arrivato all’ultima curva prima di trovare il casello autostradale quando sentì una sirena provenire dal basso. Gettò una rapida occhiata e vide l’auto della polizia che guadagnava terreno. «Cazzo, stasera non ne va bene una» disse a voce alta l’assassino. Svoltò a destra e si trovò a cinquanta metri dal casello. Il suo piano ormai era completamente andato in fumo. Tutto era perduto. Non rimaneva che distruggere il carico e uccidere più infedeli possibile per riscattarsi agli occhi di Allah. Accelerò fino al casello e lo passò investendo la barriera che era abbassata. Fece qualche decina di metri e si fermò girando il furgone di centottanta gradi rivolgendo il muso verso il casello. Raccolse uno zainetto dal sedile del passeggero e scese di corsa dal mezzo portandosi sul retro. Aprì il portello e scoperchiò la prima cassa. Ne tirò fuori un lanciarazzi Rpg con tre munizioni e prese un fucile automatico Ak 47 con qualche caricatore che aveva riempito prima di partire, da usare in caso di emergenza. Infilò i razzi e i caricatori nello zaino, si mise a tracolla l’Rpg e prese in mano il fucile automatico. Si allontanò di corsa per una trentina di metri e si fermò ansimando. Era già completamente bagnato e la pioggia continuava a colargli sul viso ma non se ne preoccupava. Tra poco tutto sarebbe finito e lui avrebbe raggiunto il paradiso. Rivolta stava risalendo la strada a tutta velocità mentre il suo corpo era attraversato da una furia incontrollabile. Avrebbe arrestato quell’uomo, o se necessario, l’avrebbe ucciso. Superò l’ennesimo tornante e sterzò a destra; vedeva il casello autostradale e poco più avanti il furgone bianco fermo, rivolto verso di lui. Frenò bruscamente e procedette piano fino al gabbiotto. La barriera era a terra in mille pezzi. L’assassino poteva avere abbandonato il veicolo ed essere scappato sulle montagne ma l’istinto gli disse di fare attenzione. Si slacciò la cintura e procedette con l’auto a passo d’uomo attraversando il casello. Scrutò in lontananza l’area davanti a sé e lo vide: aveva in mano un lungo tubo di metallo che subito riconobbe perché l’aveva visto in tanti film d’azione. Era un lanciarazzi ed era puntato verso di lui. Accelerò e nello stesso istante vide una fiammata levarsi dall’Rpg. Scartò bruscamente a destra, giusto in tempo per schivare il razzo diretto contro la sua auto. Subito dopo ci fu una forte esplosione dietro di lui: il razzo aveva mancato l’auto di una decina di centimetri e aveva colpito il gabbiotto, disintegrandolo. Fortunatamente era vuoto, perché tutto era automatizzato già da anni. Rivolta fece appena in tempo a riprendersi che Osman stava già caricando un altro colpo nell’Rpg. Lui lo vide e uscì dalla vettura poco prima che venisse raggiunta e disintegrata da un secondo razzo. L’esplosione gli fece fare un balzo di qualche metro. Chi avesse visto quella scena avrebbe pensato di trovarsi in un teatro di guerra. Due colonne di fumo nero si levavano rispettivamente dal gabbiotto e dall’auto in fiamme. Vetri e pezzi di lamiera erano sparsi in un raggio di decine di metri. L’agente Rivolta era steso a pancia in giù in mezzo a un mare di detriti con la schiena sfregiata a causa dell’esplosione e da vari pezzi di vetro conficcati nella carne. Finalmente aveva eliminato quel poliziotto. Poteva vederlo steso sull’asfalto, immobile. La sua era però una vittoria momentanea. Ne sarebbero arrivati ancora, poteva sentire già altre sirene in lontananza, e non avrebbe potuto ucciderli tutti. Decise che era meglio distruggere il furgone con tutte le armi a bordo. Caricò l’Rpg con l’ultimo razzo e prese la mira. Premette il grilletto e il veicolo saltò in aria con una fragorosa esplosione che ridusse il mezzo a un ammasso di ferraglia dal quale si alzò un denso fumo nero. Improvvisamente sentì il rumore di un motore alle sue spalle. Quattro ragazzi su un’auto stavano viaggiando in autostrada per passare una serata in discoteca. Quando avevano notato le esplosioni avevano deciso di prendere l’uscita di Spotorno per vedere cosa era successo. Una volta arrivato nei pressi della carcassa fumante del furgone, il conducente fermò la vettura a poca distanza dall’incendio. «Che diavolo è successo qui?» disse uno dei ragazzi. «Non lo so, è esploso tutto» rispose un altro. «Dobbiamo chiamare subito la polizia» decise il conducente dell’auto ma proprio in quel momento vide un’ombra uscire dal fumo. «Chi cazzo….» Non fece in tempo a finire la frase che una raffica di Ak 47 lo colpì in pieno petto. Il proiettili calibro 7,62 mandarono in frantumi il parabrezza e penetrarono nelle carni del ragazzo. Anche il passeggero a fianco venne colpito. Il terzo ragazzo riuscì ad abbassarsi e provò a fuggire dall’auto uscendo dalla portiera posteriore destra. Il quarto passeggero rimase pietrificato nell’abitacolo. Osman si avvicinò a quest’ultimo e lo uccise con un colpo in testa. Fatto questo, dedicò le sue attenzioni all’unico sopravvissuto che stava scappando, percorrendo a ritroso la rampa di uscita dell’autostrada. L’assassino posizionò il calcio del fucile sulla spalla e prese con calma la mira. Mauro Rivolta si svegliò a causa di una raffica di fucile. Per un attimo dovette mettere a fuoco dove si trovava. Era steso sull’asfalto a pancia in giù su un tappeto di vetri infranti e pezzi di lamiera. Vedeva molto sangue a terra, il suo. Si toccò il collo, gli faceva parecchio male. Aveva una brutta ferita causata da un pezzo di lamiera. Provò a mettersi a sedere e si guardò intorno. Fiamme e denso fumo nero si levavano dal gabbiotto del casello, dalla sua auto di servizio e dal furgone bianco. Guardò in lontananza e vide l’assassino del suo collega che sparava con un fucile in direzione dell’autostrada. Aguzzando la vista vide qualcosa cadere a terra poco più avanti: con sgomento, si accorse che si trattava di una persona. Vide anche un’auto ferma con uno sportello aperto. Quel pazzo aveva sicuramente ucciso qualcuno! L’agente Rivolta si rialzò a fatica. Aveva profondi tagli su tutto il corpo e sanguinava copiosamente. Si diresse verso l’assassino usando come copertura il fumo delle esplosioni, mentre estraeva la pistola d’ordinanza con l’obiettivo di uccidere quella bestia. Continuò ad avvicinarsi cercando di rimanere basso, mentre Osman si era fermato per inserire un nuovo caricatore nel fucile e si era appoggiato sul cofano della vettura dei ragazzi, in attesa. Le sirene si avvicinavano sempre di più, segno che i rinforzi erano in arrivo. Ancora qualche minuto e sarebbe salito in paradiso. «Allah è grande» urlò a squarciagola. Rivolta si avvicinò camminando con difficoltà. Sentiva le sirene ma decise che non poteva aspettare i rinforzi perché avrebbero potuto esserci altri morti e lui non voleva che accadesse. Continuò ad avanzare, passo dopo passo, cercando di pulire il sangue che dalla fronte colava continuamente sugli occhi. Si sentiva molto debole. La vista cominciava ad annebbiarsi ma stimò di essere a venti metri circa dal bersaglio, una distanza più che sufficiente. Sollevò la pistola e la puntò verso l’obiettivo. Osman vide con la coda dell’occhio una sagoma che usciva dal fumo, ma troppo tardi. L’agente svuotò su di lui tutto il caricatore della sua pistola. L’assassino si accasciò lentamente sul cofano della vettura e scivolò sull’asfalto faccia a terra, senza più vita. Mauro Rivolta cadde in ginocchio e si stese sulla strada a pancia in su. Rimase a guardare il cielo nero mentre sentiva le sirene che erano ormai a pochi metri da lui. Il fumo che stava avvolgendo la zona lo fece tossire, procurandogli acute fitte di dolore. Forse poteva ancora essere salvato, nonostante tutto il sangue perso. Avrebbe voluto rimanere sveglio ma gli occhi gli si fecero sempre più pesanti. Pensò che avrebbe potuto dormire per qualche minuto per recuperare le energie. Due auto della polizia arrivarono sul luogo dello scontro e si fermarono poco prima del casello. Sei uomini scesero dalle auto impugnando le pistole e si avviarono con cautela verso i veicoli in fiamme. La scena che avevano davanti era terrificante. Un agente si avvicinò a Mauro Rivolta e cercò di svegliarlo. Troppo tardi: il coraggioso agente di polizia aveva chiuso gli occhi per l’ultima volta.
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