Autostrada E35 (Svizzera), 22 novembre
Erano passati tredici lunghissimi minuti dalla sparatoria.
Paolo Ferrone continuava a far rimbalzare gli occhi tra il parabrezza e lo specchietto retrovisore. Per mantenere la lucidità stava cercando di concentrarsi sulla respirazione. Prendeva lunghe boccate per riempire l’addome d’aria e buttava fuori sempre dalla bocca. Sette secondi per inspirare, altri sette per espirare. Così gli avevano insegnato anni prima al corso di approccio al nuoto tattico. Respirazione addominale, per calmarsi, concentrarsi e schiarire le idee prima dell’azione. Nonostante la disciplina che si stava imponendo era in un bagno di sudore e il cuore stava iniziando solo in quel momento a rallentare il ritmo.
Cercò di analizzare la situazione nella sua globalità. Le condizioni meteo erano buone: cielo nuvoloso senza accenni di pioggia, visibilità orizzontale ottima. Il cruscotto della BMW sottratta ai due sicari che avevano provato a ucciderlo segnava una temperatura esterna di undici gradi, il traffico sull’autostrada era scorrevole. Fece una verifica mentale di cosa aveva a disposizione: una Glock 19 con sedici colpi, trecento franchi svizzeri, il portafoglio con i suoi documenti e più della metà di serbatoio di gasolio. Indossava una giacca invernale in Gore-Tex nera, un maglione in lana e scarponcini leggeri della Salomon. Agganciata alla cintura portava la sua inseparabile pinza multiuso Leatherman Wave, al polso il grosso orologio Luminox. E nel porta-badge da collo custodiva la maledetta chiavetta USB.
Impostò il cruise control dell’automobile per tenersi a cinque chilometri orari sotto il limite di velocità vigente su quel tratto autostradale. Controllò l’aletta parasole alla ricerca di qualche indizio. Non trovò nulla. Quindi, contorcendosi sul sedile, aprì il cassetto portaoggetti lato passeggero. Conteneva solo un paio di fogli dell’assicurazione e il libretto di uso e manutenzione, in tedesco. Con la mano affondò dentro il vano per cercare qualsiasi cosa. Era impossibile che un veicolo usato da due sicari non avesse qualcosa di utile. Certo, poteva essere una scelta premeditata utilizzare un’autovettura “sterile”, tuttavia Ferrone si fece l’appunto mentale di verificare appena possibile il baule. Alla fine, le sue dita trovarono una biro in plastica. La guardò e se la infilò nella tasca della giacca.
Verificò il navigatore satellitare sul grosso display touch. Si era liberato subito del suo smartphone per evitare di essere tracciato, ma dopo una breve riflessione aveva compreso che una BMW dotata di GPS era la cosa più tracciabile che potesse esistere.
Aveva bisogno di pianificare la sua fuga con l’attraversamento del confine svizzero. Gli servivano dati, tempi, cartine e indicazioni di eventuali risorse. Il sistema integrato di navigazione dell’automobile era un buon compromesso, in quanto poteva essere utilizzato proprio per questo tipo di organizzazione. Finché fosse rimasto in movimento sull’automobile sarebbe stato un bersaglio più difficile da colpire. Appena si fosse fermato, però, avrebbe dovuto avviare un piano realistico e fattibile.
L’addestramento e le varie esercitazioni SERE1 eseguite negli anni con il “Col Moschin” in Italia avevano dato a Ferrone una serie di schemi e procedure da seguire. Per quanto potesse sembrare bizzarro, certe cose erano molto più codificate di quanto si potesse immaginare.
La sua attuale situazione rientrava nella categoria di spostamento in un ambiente semipermissivo. Non doveva superare il confine di due paesi in guerra fra loro, ma aveva elementi ostili che gli stavano dando la caccia. I movimenti in ambienti semipermissivi erano caratterizzati da pianificazione accurata e avevano il vantaggio del fatto che il tempo non era un fattore di minaccia. Tradotto: poteva impiegare tutto il tempo necessario per attraversare il confine, l’importante era non farsi notare dalla popolazione locale e, naturalmente, evitare di farsi catturare dai suoi inseguitori.
L’istruttore che anni prima aveva tenuto il corso delle tecniche di evasione e fuga era stato molto chiaro nei confronti degli allievi. Ferrone ripensò le sue parole.
Quando si tratta di attraversare un confine di una nazione civilizzata bisogna porsi una domanda: lo faccio in modo legale o illegale? Decisa la risposta, c’è una serie di comportamenti pre-codificati da adattare alla situazione specifica.
Se siete costretti a superare il confine in modo illegale, cercate di ragionare in maniera tridimensionale. Posso passare sopra, sotto o di fianco? Evitate tutte le soluzioni che adottano nella zona gli immigrati clandestini: sono trucchi che qualsiasi Polizia di frontiera conosce alla perfezione. Verreste intercettati subito. Pensate a un piano il più possibile semplice, ma domandatevi sempre se non è già stato utilizzato dai clandestini. E ricordatevi che funziona così per tutte le nazioni del mondo, perché tutte hanno i confini che vengono bucati da traffici di clandestini.
Ferrone ricordò che durante il corso, con i suoi colleghi allievi Incursori, gli istruttori creavano diversi scenari con cui testarli. Si trattava di veri e propri giochi di ruolo. Le assegnazioni potevano essere di vari tipi. Ad esempio, partendo da Livorno, gli allievi avevano sedici ore di tempo per incontrare delle persone specifiche da qualche parte nel Salento. Una volta arrivati dovevano ritirare un oggetto e riportarlo a Livorno senza che le “pattuglie di agenti ostili” simulate dagli istruttori li intercettassero. Mezzi di trasporto e metodi d’incontro con le persone dell’appuntamento erano responsabilità di pianificazione degli allievi. All’inizio era normale vedere queste attività come poco più di un “gioco degli agenti segreti”. Solo quando entravano nella mentalità corretta di queste esercitazioni, gli allievi comprendevano che per portare a termine queste assegnazioni servivano delle capacità non banali. Le stesse che poi avrebbero potuto utilizzare sul campo nella loro carriera. A fine corso gli istruttori illustravano nel dettaglio alcune attività di Intelligence svolte nei Balcani, in civile, da operatori del “Col Moschin”. Missioni a dir poco audaci, ma che avevano contribuito a sviluppare quelle capacità e procedure che ora stava impiegando Ferrone per pianificare la sua fuga dalla Svizzera.
Durante tutto il tempo che si trovò alla guida, Ferrone interrogò il navigatore sulle strade alternative per passare il confine, la posizione di centri commerciali e di parcheggi. Allo stesso tempo cercava di capire se ci fosse un potenziale team di inseguitori alle calcagna. Non riuscì a individuarlo, perché la maggior parte degli altri veicoli sull’autostrada lo superavano senza rimanere nella sua scia per più di una manciata di secondi.
Forse ci sono più squadre di sorveglianza che si danno il cambio per non dare nell’occhio?
Ferrone cercò di scrollarsi di dosso la paranoia, rammentando però che fino a quel momento era rimasto vivo proprio grazie a una generosa dose di essa.
Cercate nell’ambiente la presenza dell’anomalo e l’assenza di esso dove dovrebbe esserci.
Le parole del suo istruttore di SERE tornarono nelle sue orecchie. I veicoli intorno a lui procedevano tranquilli, alle spalle nessun veicolo che lo tallonava tenendosi a distanza. Niente velivoli visibili nel cielo. Ferrone aveva elaborato il suo piano in base agli algoritmi SERE utilizzando la mappa del navigatore. Aveva impostato la sua destinazione che avrebbe raggiunto in meno di tre ore. Sarebbe stato abbastanza vicino al confine italiano, ma allo stesso tempo a una distanza tale da confondere eventuali inseguitori.
Il resto del viaggio proseguì senza particolari eventi. Purtroppo, l’incursore non riuscì a godersi i panorami elvetici che la superstrada attraversava. Il navigatore lo guidò al parcheggio della stazione ferroviaria di Locarno. Non c’era molta gente in giro e l’area di sosta, non particolarmente grande, era mezza vuota. Mancava un quarto d’ora a mezzogiorno. Parcheggiò all’interno di uno spazio delimitato da righe che davano l’idea di essere state rifatte il giorno prima. Ferrone si guardò attorno. Nulla di anormale. Per qualche motivo rimase sorpreso del fatto che la sua BMW fosse l’unica automobile di grossa cilindrata in tutto il parcheggio, dominato invece da utilitarie italiane e francesi.
«Allora in Svizzera ci vivono anche i comuni mortali…» sussurrò tra sé e sé. Controllò di nuovo l’area. Il suo cuore accelerò leggermente il ritmo. Infilò la pistola nella tasca destra della giacca. Al contrario di quanto si poteva credere, uno dei metodi meno sicuri per portare una pistola senza fondina addosso era quello di infilarla a canna in giù tra maglietta e pantaloni. Era una posizione dolorosa nel caso avesse avuto bisogno di correre. Aprì la portiera e girò intorno all’automobile, interpretando la parte del proprietario alla ricerca di un inestetismo sulla carrozzeria. Solo dopo la finta ispezione aprì il bagagliaio. Al centro di un immacolato cassone di velluto nero riposava uno zainetto grigio in cordura di nylon. Ferrone lo osservò per qualche istante. Era di una nota marca di materiale sportivo e aveva un look vagamente militare. Aprì la cerniera dello scomparto principale e cercò di non mostrare sorpresa sul volto. Per un osservatore esterno doveva passare per il possessore legittimo di quell’oggetto. Infilò una mano dentro e con le dita riconobbe buona parte del contenuto. Lo zainetto conteneva un IFAK2 di tutto rispetto: una sacca di liquido emoespansore con i relativi kit da infusione, vari bendaggi emostatici, due tourniquet tattici, varie cannule oro-faringee, guanti e via dicendo. Valutò che quel trauma kit era stato assemblato da qualcuno che ne capiva ed era comparabile ai migliori standard militari. Di conseguenza, i due sicari che aveva eliminato avevano con loro un equipaggiamento per affrontare le ferite da armi da fuoco. Ferrone fece una smorfia d’approvazione. Svuotò lo zainetto di buona parte del contenuto, trattenendo solo quegli elementi essenziali che potevano diventare utili per un’eventuale emergenza. Ciò che davvero gli serviva era un minimo di volume di trasporto. Indossò lo zainetto e chiuse l’auto col telecomando. Si guardò attorno e sorrise: il navigatore era aggiornato. Il ristorante era dall’altra parte della strada ed era aperto.
Se vi trovate nelle condizioni di attraversare un confine in modo illegale ricordate di avere a disposizione tre cose prima di farlo: buoni abiti, buone scarpe e tanto cibo nello stomaco.
Ferrone ringraziò mentalmente il maresciallo istruttore per i suoi preziosi consigli e s’incamminò verso l’ingresso del locale. Una volta all’interno, si ritrovò nel pieno di un’ambientazione in stile “vecchio West”. L’aspetto ricordava quello di un saloon che si poteva vedere in un film western, con tanto di porte a spinta e un lungo bancone in legno. Appesi alle pareti si potevano apprezzare vari falsi cimeli dell’epoca come fotografie in bianco e nero di pistoleri, o addirittura una serie di rivoltelle. Alcuni tavoli più grandi sorgevano sotto una sorta di capanna indiana e c’era addirittura un’area che riproduceva una prigione. Solo tre tavoli erano occupati da altrettante coppie e una famiglia di quattro persone aveva da poco preso posto nella zona prigione. Nessuno lo degnò di uno sguardo.
Una cameriera minuta e carina gli andò incontro. «Buongiorno, solo lei?» domandò in tedesco.
«Salve, sì, solo io» rispose Ferrone pensando a quanto terribile fosse l’accento tedesco.
«Ah, allora, guardi, può scegliere quel tavolo, quell’altro, o quell’altro…» la ragazza gli indicò tre tavoli con solo due seggiole ciascuno. Ferrone scelse quello più all’interno del locale e che era vicino all’ingresso dei servizi. Ringraziò e raggiunse il tavolo, accomodandosi in modo da tenere le spalle verso il muro e l’ingresso alla sua sinistra. Finse di scrutare con interesse le varie voci del coloratissimo menù di cartoncino, anche se in realtà era più concentrato a osservare cosa succedeva attraverso la vetrina. Da quella posizione aveva la possibilità di sorvegliare anche la BMW nel parcheggio, che era a circa sessanta metri di distanza. Raccolse i pensieri per fare il punto della situazione.
La mattina presto aveva recuperato una chiavetta USB da una cassetta di sicurezza in una banca a Basilea, appartenente all’imprenditore Armando Corrado Granata. Costui era morto qualche settimana prima in Niger durante un’operazione militare di recupero di ostaggi italiani in una miniera d’uranio. Operazione che era stata condotta da Ferrone in persona, in qualità di capitano Incursore appartenente al 9° Reggimento d’Assalto Paracadutisti “Col Moschin”. Poco prima di morire Granata gli aveva confidato i codici per recuperare la memoria USB e chiesto di divulgarne il contenuto, affinché potesse essere vendicato. Ferrone aveva visionato in albergo il contenuto della chiavetta, risultata essere una sorta di confessione di Granata. L’imprenditore aveva raccontato dell’esistenza di un governo non legittimo parallelo in Italia formato da influenti imprenditori e i vertici dei Servizi Segreti. Un apparato parastatale esistente da decenni che controllava il destino della nazione all’ombra dei vari governi fantoccio che si susseguivano. Questa entità, denominata “il Consorzio”, poteva contare su di un illimitato potere a livello economico, politico e operativo: infatti Granata era stato assassinato proprio da un agente del Consorzio infiltrato nella squadra d’assalto. Ora che Ferrone era venuto in possesso di questa testimonianza postuma, dove venivano fatti nomi e cognomi degli appartenenti al Consorzio, era diventato egli stesso un bersaglio da eliminare. Appena uscito da Basilea era stato aggredito da due sicari che aveva eliminato e a cui aveva rubato la BMW per fuggire. Tutto questo nel giro di cinque ore scarse.