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dopo la fine, prima dell’inizio
Dopo la fine del campionato. Prima dell’inizio del nuovo campionato. Partita dopo partita. Stagione dopo stagione. Ancora e ancora.
“Lo sai che ti aspetto. Sempre.”
Leggo queste ultime parole sul display del cellulare, ma poi ritappo l’applicazione per stappare la bottiglia. Da buon cerimoniere spartisco il Sangiovese fra i sei calici.
«Allo squadrone che tremare il mondo fa!» declamo alla mia piccola coorte, pronta a tutto anche alla morte, richiamando con un motto antico i successi recenti, ma proiettando il bicchiere verso il futuro. La truppa mi imita, andando quindi a cercare con il proprio vetro il tocco leggero del vetro amico. Cin cin.
Fine maggio. Bologna. Centro storico.
Il gestore del locale ci ha riservato come al solito la saletta sul retro, quella più tranquilla, anche se gli schiamazzi dell’affollata sala principale non temono a spingersi fino al nostro covo. Ormai è una tradizione, l’ho imposta io. Ci troviamo qui prima di ogni partita per spazzolarci le idee e rassettare gli ultimi dubbi. Ci ritroviamo qui dopo ogni partita per darci pacche sulle spalle o calci nei coglioni, raccogliere gli applausi oppure i cocci. Lontano dal centro sportivo. Lontano dagli spogliatoi e dalle sedute tattiche. Lontano da tutto e vicinissimi a noi stessi. Con la spina staccata la testa è libera di inventare.
Oggi siamo di nuovo qui, la mia famiglia e io. Celebriamo la fine del campionato. Prima dell’inizio del nuovo campionato. Appena ieri si è giocata l’ultima partita. Fra tre mesi si tornerà a giocare la prima.
«L’anno prossimo, ancora meglio» dico io quando si spegne il tintinnare del brindisi. Il mio assaggio d’abbrivio è il calcio di inizio della sbicchierata.
A proseguire l’azione ci pensano Lele Pasi, Patrick Cobianchi, Gigi Savorani, Loris Ballardin e Paolo Barbieri. Sono loro la mia famiglia. Quella che mi accompagna in ogni battaglia. Quella con cui mi dispero e rallegro, litigo e mi riappacifico. Ogni santo giorno, sul campo di allenamento. Ogni dannato weekend, negli stadi di tutta Italia. Studiando e sudando. Vincendo e insistendo. Perdendo e rimediando.
E io, Vincenzo Sarti, sono il capofamiglia, il capo allenatore. Quello che si confronta con i suoi collaboratori, ascolta i loro suggerimenti, prima di ogni partita, dopo ogni partita. Ma quello che alla fine ha in carico la responsabilità di ogni singola decisione, mettendoci la faccia, la testa e il culo.
La faccia, con la stampa.
La testa, con la società.
Il culo, con i tifosi.
«Meglio di così è impossibile» fa Lele alleggerendo il bicchiere di un sorso e sfocando lo sguardo sulla patina rosacea del calice. «Questa annata non si ripete.»
«Ho bevuto bottiglie migliori» dico io. «Se parlavi del vino.»
«Parlavo della stagione» precisa lui senza bisogno di farlo.
Nella mia famiglia c’è Lele Pasi, allenatore in seconda. Prima di ogni partita, dopo ogni partita, ascolto i suoi suggerimenti. Ma alla fine sono io a decidere, perché è mia tutta la responsabilità.
«Siamo arrivati quinti» gli ricordo. «Meglio dei quinti ci sono i quarti, meglio dei quarti i terzi, meglio dei terzi i secondi…»
«E meglio dei secondi ci sono i primi» completa la scala Patrick aggiungendo l’ultima nota, sgualcendo lo spartito di un sorriso disilluso. «Ma non qui, non a Bologna» continua. «Lo scudetto si vince altrove.»
«Se qualcuno c’è già riuscito, possiamo farlo anche noi» dico io.
«1964, l’ultima volta» fa Patrick. «Campionato a girone unico del paleozoico.»
Nella mia famiglia c’è Patrick Cobianchi, collaboratore tecnico per la fase difensiva. Prima di ogni partita, dopo ogni partita, ascolto i suoi suggerimenti. Ma alla fine sono io a decidere, perché è mia tutta la responsabilità.
«Archeologia, sicuro. Coppe piene di polvere» dico. «Ma la storia si scrive di continuo e questa volta la penna in mano l’abbiamo noi.»
«Questa squadra ha già fatto il massimo» interviene Gigi spalleggiando i fratelli miscredenti. «Senza contare che i ragazzi più forti in estate andranno via. Cadeddu e Delfiore prima di tutti.»
«I migliori non si schiodano da qui» faccio io premendo il palmo sul tavolo come per testarne la solidità. «E poi con due o tre rinforzi di quelli giusti possiamo puntare al titolo.»
«Di titoli ne avrai quanti ne vuoi» dice Gigi. «Sui giornali, a nove colonne, se non la pianti con le tue sparate.»
Nella mia famiglia c’è Gigi Savorani, collaboratore tecnico per la fase offensiva. Prima di ogni partita, dopo ogni partita, ascolto i suoi suggerimenti. Ma alla fine sono io a decidere, perché è mia tutta la responsabilità.
«Se all’inizio di questo campionato vi avessi pronosticato che ci saremmo qualificati per le coppe europee, mi avreste rinchiuso in manicomio» dico io. «Invece ci toccherà rinnovare il passaporto.»
«Io sto con Vincenzo» mi sostiene Loris scordando di imprimere convinzione alle corde vocali, ma innalzando il calice a braccio disteso per scortare di audacia il tono gracile. «Se mi levate il sogno, per cosa campo a fare?»
«Mi sa che quel giorno ero assente, al corso per allenatori di Coverciano» faccio io.
«Che giorno?» chiede Loris, abboccando all’esca avvelenata.
Nella mia famiglia c’è Loris Ballardin, preparatore dei portieri. Prima di ogni partita, dopo ogni partita, ascolto i suoi suggerimenti. Ma alla fine sono io a decidere, perché è mia tutta la responsabilità.
«Il giorno in cui spiegavano il concetto di sogno» rispondo. «Però c’ero a tutte le altre lezioni: quelle sull’applicazione tattica, la preparazione atletica, l’analisi della partita e altre cose noiose di questo tipo.»
«Magari non vincerai lo scudetto, ma nella gara degli stronzi non ti batte nessuno» dice Loris, piccato dal predicozzo.
«Possiamo farci tutte le seghe che vogliamo, ragazzi, ma finché esisteranno quelli là, quelli con la maglia a righe bianche e nere, non ci sarà mai nessuna possibilità per noi» fa irruzione Paolo nel dibattito, bucando con la sua brutale constatazione poco amichevole il pallone aerostatico delle mie ambizioni, e facendolo precipitare in picchiata verso il disastro. «Né per noi, né per nessun altro.»
«Quest’anno non hanno vinto» dico io soffiando una brezza di ottimismo in quella sacca afflosciata, nel tentativo di farle riprendere quota. «È da tre anni che sono a secco.»
«Quando non vincono è perché c’è almeno una squadra due gradini sopra, come livello» spiega Paolo appoggiando le dita sul ripiano più alto di uno scaffale immaginario. «Basta che sia uno solo, il gradino di svantaggio, e quelli là riescono sempre a spuntarla» dice mentre la sua mano scende al piano inferiore di quel mobile d’aria. «Nel modo sporco che conosciamo.»
Nella mia famiglia c’è Paolo Barbieri, preparatore atletico. Prima di ogni partita, dopo ogni partita, ascolto i suoi suggerimenti. Ma alla fine sono io a decidere, perché è mia tutta la responsabilità.
«Vorrà dire che ci impegneremo di più» dico.
«Noi siamo solo il Bologna» riprende Gigi. «Puoi impegnarti quanto vuoi, ma quelli là ci arriveranno comunque davanti. Con le buone o con le cattive.»
Ingoio le mie obiezioni fra due sorsi di rosso. Ingoio un altro rospo bello grosso. Perché gli scettici hanno ragione. Ragione marcia. Allora la smetto di aizzare il mio popolo e lascio agli altri commensali l’onere di riavviare la conversazione.
Per sollevarmi il morale, recupero dal cellulare i tanti messaggi che mi sono piovuti addosso tra ieri sera e stamattina, in una tempesta di complimenti che mi ha infradiciato d’orgoglio. Fra tutte, c’è una goccia più rinfrescante delle altre: “Splendida stagione, Vincè. Ora che sei in vacanza passami a trovare. Lo sai che ti aspetto. Sempre.”
Mi dovrà aspettare ancora un po’, perché adesso sono qui. Con Lele Pasi, Patrick Cobianchi, Gigi Savorani, Loris Ballardin e Paolo Barbieri. La mia famiglia, il mio staff. E io, Vincenzo Sarti, sono il capofamiglia, il capo allenatore. Insieme studiamo e sudiamo. Vinciamo e insistiamo. Perdiamo e rimediamo. Partita dopo partita. Stagione dopo stagione. Insieme difendiamo ciò in cui crediamo. Insieme attacchiamo ciò che detestiamo.
Ciò in cui crediamo è la bellezza di questo gioco.
Ciò in cui crediamo è la gioia che possiamo offrire alla gente.
Ciò che detestiamo è quella maglia a righe bianche e nere.
Ciò che detestiamo è la Fottuta Signora Football Club.