2.

3439 Words
2. Avevano cavalcato in silenzio e di buon passo finché i cavalli non avevano iniziato a sbuffare. Il Principe Starrag sembrava affaticato, ma non aveva mai proposto di rallentare l’andatura. Si era limitato a fare strada con sicurezza lungo la stessa pista lucente che April aveva percorso all’andata, costeggiando i campi illuminati dai bracieri e i radi pascoli di erba stinta. Avevano incontrato varie persone, lungo la via, per lo più contadini, ma nessuno li aveva degnati di uno sguardo. April si era chiesta se avessero tanta paura del Principe Starrag da non osare neanche inchinarsi. Dopo un po’ capì che, più semplicemente, non li vedevano o non li riconoscevano. Era quello lo scopo della magia di Starrag, quindi: uscire dal suo stesso regno di soppiatto. Quando era stato evidente che i cavalli non potevano continuare, lui aveva proposto di fermarsi per qualche ora. Era smontato di sella e aveva guidato l’animale tra i tronchi ritorti di un bosco di alberi morti. Quando erano stati abbastanza distanti dalla strada aveva legato il suo cavallo a un ramo e gli aveva tolto sella e finimenti. Poi gli aveva versato a terra un po’ di biada e l’aveva abbeverato. April, piuttosto sulle spine, aveva fatto lo stesso con la sua cavalcatura. Naturalmente non c’era erba che gli animali potessero brucare, così si portavano appresso anche il loro cibo. «Vostra altezza…» osò dire, quando vide che lui stava stendendo sul terreno una spessa coperta di lana, «…non potete dormire per terra come un viandante». Lui le gettò una lunga occhiata. «È meglio non fermarsi in una locanda». Non offrì altre spiegazioni e April non ne chiese. Forse neppure lui si fidava a dormire tra la gente del luogo? O la spiegazione era più complessa, e aveva qualcosa a che fare con l’incantesimo che aveva gettato su entrambi? Starrag iniziò a raccogliere la legna per accendere un fuoco. «No, altezza…» protestò April «lasciate che lo faccia io!» Lui le rivolse un sorriso appena accennato. «Grazie Sono ancora un pochino torpido, dopo l’ultimo letargo». Poi fece un gesto noncurante con la mano, come a dire: dopo. April raccolse una fascina di rami secchi (non difficile, visto che erano tutti secchi) e accese un piccolo fuoco. Non era più freddo di prima, ma ora che erano fermi l’avrebbero sentito. Inoltre avrebbe fatto un po’ di luce. Il principe Starrag mise a bollire un bricco con dell’acqua, poi le rivolse l’ennesimo sguardo imperscrutabile. Il suo viso serio e pallido non poteva fare a meno di inquietarla. Mangiarono in silenzio, April persa nei suoi pensieri, il principe chissà. Alla fine lui le passò una tazza piena dell’infuso odoroso che aveva messo sul fuoco poco prima. «È menta e verbena. Bevila piano, potrebbe contenere un po’ troppa magia per le tue abitudini» la avvertì. April bevve un sorso. Sembrava normale menta e verbena, a parte il colore pallido dell’acqua, ma c’era un qualcosa, come un formicolio sulla lingua simile a quello che aveva provato al pasto precedente, ma più intenso… sentì come una leggera scossa di adrenalina scorrerle per il corpo, per poi esaurirsi. «Stranissima sensazione» commentò. «Ma gradevole». Anche a Lenn avevano maghi, ma bisognava ammettere che i loro risultati di solito non erano molto impressionanti. Hendrich le aveva detto, invece, che il Principe Starrag ogni primavera faceva germogliare magicamente tutti i semi del regno, e che poi altri maghi continuavano a farli crescere malgrado l’assenza di luce. «Un po’ tutto il cibo delle mie terre è intriso di magia. Non c’è altro modo che spingerli per far germogliare i semi. Devo ammettere, però, che alla fine del letargo è gradevole svegliarsi e assaporare i frutti del proprio lavoro». E bevve un sorso. «Questo termine… letargo… che cosa significa?» «Sei venuta qua senza avere idea di cosa ti attendeva, mh? Non so se considerarlo un segno di coraggio o di stupidità». Poi si strinse nelle spalle. «Il letargo è semplicemente come viene chiamato il sonno di una settimana in cui sprofonda ogni anno chi spinge le colture… con la magia, è ovvio. Visto che sono l’erede, sono io ad avere questo compito, e sono io a portare il lutto». April stava per chiedere di che lutto si trattasse, ma bastò un’occhiata alla foresta secca in cui si trovavano per farle mordere la lingua. «Chi nutre le piante è la stessa persona che porta il lutto, è una tradizione. L’ha fatto mio padre prima di me e lo farà il mio successore, chiunque sarà». Poi il principe ripose le tazze e si sdraiò sulla coperta, avvolgendosene metà attorno al corpo. «Scusami, ora, sono stanco. Dormi anche tu, se ci riesci. Non è necessario montare la guardia». Non era stata una nottata piacevole. All’inizio si era dibattuta tra mille pensieri. Il principe Sephir che stava morendo lentamente, il vecchio re Avetis che aveva già perso il suo unico figlio maschio in guerra e il Sangue di Lenn che rischiava di volgere all’estinzione, le congiure di palazzo che l’avevano fatta partire come un topo nascosto nella stiva, nel massimo riserbo, i problemi del regno, che la potevano interessare solo se rimaneva nell’ombra, e poi… quel mondo freddo, buio e morto in cui esseri umani pallidi come cadaveri si ostinavano a sopravvivere. Un popolo che sacrificava i propri regnanti alla terra e al cibo, perché non poteva fare altrimenti, e li legava a corda corta al palo del dovere. Il Principe Starrag, accanto a lei, più che addormentato sembrava morto. Il colorito era quello, in ogni caso. April sentiva sotto di sé la terra fredda e morta, vedeva stagliarsi contro la luna i rami ritorti degli alberi. Forse, pensò con un brivido, si sarebbe davvero risvegliata senza una goccia di sangue nelle vene. Ma alla fine il sonno l’aveva vinta. Quasi subito aveva avuto un sogno vivido, reale e irreale al tempo stesso. Era in un corridoio scavato nella pietra viva. Era notte. Presto aveva capito di trovarsi in un grande labirinto. Sopra la sua testa c’era il cielo, l’aria era gelida e piccoli cristalli di neve fluttuavano fino a terra, le si posavano sui capelli e sulla pelle del viso. Camminava e camminava, prendendo corridoi curvi e tutti uguali, cercando l’uscita o il centro del labirinto, non era chiaro. A un tratto si accorgeva di avere un fianco sanguinante. Premeva la mano sulla ferita... ma non era la sua mano. Era una mano maschile e pallida, dalle dita lunghe e dalle vene in rilievo. La osservava, stupita. Lei non era lei, ora lo vedeva. Il suo corpo era maschile. Si sentiva invasa da un dolore sordo e da un’energia oscura, potente e spaventosa. Ed era ferita. Ferito. Continuava a camminare. Doveva trovare il centro o l’uscita. Le pareti di pietra nuda, l’aria gelida. Era sempre più stanco... sempre più stanco... Finché non si accasciava a terra e perdeva i sensi. Iniziava un altro sogno, un sogno nel sogno. Era nelle sue stanze alla corte di Avetis. Era notte. Si rigirava nel proprio letto, tra le lenzuola di lino fragrante. Era nuda e non capiva perché lo fosse. Si toccava tra le gambe e sentiva il proprio sesso, il suo normale sesso femminile, ma nel contempo avvertiva l’eco di un’altra natura. Era una sensazione disturbante, ma anche sensuale. Scostò le lenzuola e si accarezzò il corpo. Aveva qualcosa di bagnato tra le gambe. Erano umori o era... Si alzò su un gomito e sfregò un fiammifero per accendere una candela. Alla luce tremolante della fiamma vide che aveva una ferita su un fianco. Il sangue le bagnava la pancia e il sesso, creava una macchia scura sulle lenzuola. Il fiammifero si consumò e la stanza risprofondò nel buio. April emise un grido e si svegliò. «Che cosa succede?» Ad April servì un secondo per ricordarsi dov’era e con chi era. «N-nulla, altezza. Un brutto sogno». Da Starrag provenne un suono irritato. Alle braci del fuoco, April lo vide alzarsi su un gomito. «Naturalmente. Non sai schermarti contro i sogni e i miei sono potenti. Ormai propendo per la stupidità, sai. Abbandonarsi al fato non è una scelta coraggiosa. Alzati». April si limitò a guardarlo. Avevano... fatto lo stesso sogno? Un sogno in cui avevano una ferita su un fianco che li stava uccidendo e in cui, ecco... lei era nuda tra le lenzuola? «Alzati, ho detto. Vieni qua». Il suo tono era definitivo, non ammetteva repliche. April scostò le coperte e si alzò sulle ginocchia. L’aria fredda della notte la fece rabbrividire e... che cosa era quella sensazione di bagnato tra le gambe? Spaventata, sfilò la casacca dai pantaloni e la sollevò insieme al giustacuore di pelle di daino. «Esatto. Vieni qua» disse il Principe. Non... non aveva nessuna ferita. La pelle del suo fianco e della sua pancia era chiara e vellutata, nulla di insolito, tranne... Starrag si stancò di aspettare. Con un grugnito di irritazione, buttò da una parte un lembo della propria coperta e coprì lo spazio che li separava. Si accosciò davanti a lei e le sollevò bruscamente casacca e giustacuore. «Altezza!» In una delle sue mani comparve una sfera di luce. Allungò il viso, la fronte corrucciata, e osservò con attenzione il suo fianco. Al seno che aveva involontariamente denudato non sembrò fare caso. Tenendole ancora sollevata la casacca, fece scorrere il polpastrello dell’anulare lungo l’esile segno rosa che le segnava il fianco. Lo seguì fino alla vita dei pantaloni e diede un altro strappo verso il basso, denudandola fino ai primi peli del pube. «A-altezza...» Le lacrime le rotolavano giù dagli occhi, una reazione che April odiava dal profondo del suore. Non era da lei mettersi a tremare così. Starrag grugnì e lasciò andare l’orlo della sua casacca, che ricadde a coprirla. «Come hai potuto venire fin qua senza una sola salvaguardia, esposta a ogni soffio di magia, una fottuta preda ansiosa di farsi ghermire?» «Che cosa? Altezza, mi state spaventando». Lui emise una risata sarcastica. «Meglio tardi che mai, eh? Non sai che in queste terre la magia è ovunque? Ammansita solo in parte, affamata di umanità? Vuoi trovarti dentro un incubo in carne e ossa o che cosa?» «Non so di che cosa stiate parlando». Lui sbuffò. «No, certo». Si alzò in piedi. «Forza, stendetevi di nuovo. Sarà un piacere usare le mie poche energie per proteggere una ragazzetta stupida». Poi, visto che April sembrava paralizzata, fu lui stesso a spingerla giù. Dalla sua gola sgorgò un suono roco e semplicemente spaventoso, simile a una lingua antica e gutturale, o al ringhio di una bestia feroce, o a entrambi. Attorno a uno dei suoi polsi comparve un anello del colore del fuoco, che poi si allargò e colpì il terreno attorno a April con un rumore crepitante. Il suolo arido e freddo fumò e sibilò. In quanto a Starrag Ó hAlluráin, per un istante sembrò vacillare. Si riprese subito. Scosse la testa e tornò verso il suo giaciglio senza una parola. Quando si svegliò, April si accorse che il circolo sul terreno attorno a lei fumava ancora leggermente. Il cielo era buio come prima, ma era sorta la luna. «Non ho mai incontrato una persona più stupida». April si voltò di scatto. Il principe Starrag si era alzato a sedere, i lunghi capelli neri che gli spiovevano attorno al viso dall’espressione severa. «Mi dispiace» rispose, un po’ irritata. «Sarò senza dubbio stupida, ma non ho idea di che sciocchezza avrei fatto. Nelle mie terre i sogni della gente non si mescolano e non graffiano». «Già. Sembra abbastanza chiaro. Ma se i draghi nel vostro regno sputano fiori non è comunque un buon motivo per grattar loro la pancia». April lo fissò con espressione stupida, quasi volesse confermare i suoi pregiudizi. «I draghi non esistono». Starrag sospirò. «È un modo di dire. Non avresti dovuto entrare senza protezione in una terra di cui ignori tutto». «Infatti sono venuta qua in vacanza!» Quello lo rabbonì un po’. Emise un sospiro schifato. «Va be’. Ora puoi uscire dal cerchio. Da sveglia non dovresti correre rischi. Ma se inizi a fare dei pensieri strani, per favore, avvisami subito». La lasciò lì e si inoltrò tra gli alberi spogli. April quasi sorrise all’idea di quello stregone obbiettivamente piuttosto spaventoso che andava a fare i suoi bisogni nel bosco. Anche lei ci andò. Quando si accucciò dietro un tronco si accorse che il suo sesso era ancora umido e aveva uno strano odore, dolce e invitante. Come potesse essere invitante alle sue stesse narici, era un mistero. Tornò verso il falò ormai spento con in viso un’espressione pensierosa. «Che cosa?» fece il principe, cogliendo quell’espressione. Stava rimettendo i finimenti al proprio cavallo. «Niente». «Se hai dei segni addosso, non mostrarmeli non è una grande idea». «Non ho nessun segno» ribatté lei. «Credo». Starrag aggrottò la fronte. April si aspettava quasi che le ordinasse di spogliarsi o qualcosa di altrettanto prepotente e improprio, ma lui finì per scrollare le spalle e borbottare uno “speriamo” poco convinto. Sciolse la briglia del cavallo e montò in sella senza aggiungere altro. April lo seguì nello stesso silenzio. In un certo senso, il suo evidente malumore la tranquillizzava. Continuava a non capire perché il re glielo avesse attaccato alle sottane, ma vederlo irritato per il compito che gli avevano assegnato la rendeva meno sospettosa. Il Principe Starrag tornò sulla strada luminescente e riprese il percorso. Come il giorno prima, mangiarono in sella e senza un verbo, il principe davanti e lei dietro. April si sentiva le ossa a pezzi per l’insopportabile ritmo a cui lui li stava sottoponendo. La schiena, in modo particolare, era un'unica pulsazione dolorosa. Nel contempo percepiva anche la magia, molto più chiaramente di quanto avesse fatto all’andata. Ora sapeva riconoscere i segni del suo influsso. Quella specie di vago formicolio sul palato, una consapevolezza fin troppo acuta di ogni parte del proprio corpo e la tendenza a farsi trasportare dai pensieri. A un certo punto vide il principe, davanti a sé, che appoggiava un gomito sul pomolo della sella, come se reggersi gli costasse fatica. Il cavallo, tuttavia, non rallentò. April non capiva il motivo di quella corsa micidiale. Dal canto suo voleva raggiungere la capitale di Lenn prima che l’erede morisse, era ovvio, ma era anche consapevole che se lei fosse perita nel viaggio per lui non ci sarebbe stata più alcuna speranza. Per questo si affiancò al cavallo del principe e lo prese dolcemente per le redini. Lui la fissò aggrondato, la fronte imperlata di sudore e la schiena piegata. «Dobbiamo fare una pausa» disse lei. Uscì dalla strada argentata, trascinandosi appresso cavallo e cavaliere. Li circondavano terra brulla simile a sabbia e affioramenti rocciosi. Ne scelse uno dietro cui si potevano riparare e fermò i cavalli. Scese dal suo e legò le cavezze a una pietra. Poi aiutò uno Starrag esausto a scendere dalla propria bestia. Lui appoggiò i piedi a terra e sbuffò. «Autunno poteva continuare, il tuo cavallo poteva continuare… perché ci siamo fermati?» April lo accompagnò vicino al punto in cui aveva intenzione di accendere un fuoco e lo fece sedere sulla sua coperta. «Perché voi non potevate continuare» ripose, asciutta. Poi si guardò attorno e venne a patti col fatto che non ci sarebbe stato alcun fuoco, quella notte. Erano circondati da rocce e sabbia. Andò a prendere coperta e bagagli e si sedette accanto al principe. Gli passò dell’acqua e della carne essiccata. Lui mangiò senza dire una parola. «In nostro mago di corte, Hendrich, è stato qua in gioventù. Perché non mi ha parlato del curioso effetto che può avere la magia, nelle vostre terre?» «Quanto tempo fa è stata, la sua gioventù?» Ad April sfuggì un sorriso. «Bella domanda. Una cinquantina di anni fa?» «Non ero ancora nato, quindi non so come fosse, ma secondo mio padre si fa sempre più forte. Questa terra è intrisa di magia e la magia attira altra magia». «So ben poco di magia» ammise lei. «Ti assicuro che era chiarissimo. Questo, almeno, dissipa in modo definitivo le stupide leggende che circolano sulla gente delle Terre del Sole. Non sareste in grado di lanciare una maledizione di questa portata neppure se ne andasse della vostra vita». «A quali leggende vi riferite?» Lui bevve un sorso d’acqua e troncò il discorso con un “non ha importanza”. «Altezza...» «Sono stanco. Trova un posto dove sistemarti e ti isolerò anche in questa metà della notte. Si spera che da domani non ce ne sia più bisogno». April sospirò. «Lo spero anch’io. Mi dispiace per... non lo so. Non capisco il problema, non capisco la soluzione e, per essere onesta, non capisco neppure perché vi stiate dannando tanto. Ma ho la schiena a pezzi e stendermi sarà un sollievo, credetemi». «A pezzi come?» I suoi occhi erano attenti e sospettosi, ora. «Non lo so. A pezzi. Cavalco da cinque giorni». «Sdraiati». «Era appunto quello...» «Sdraiati. Ora. Avresti dovuto dirlo». April obbedì, anche se non rinunciò a borbottare un altro “non capisco che cosa avrei dovuto dirvi”. Si stese su un fianco e Starrag le rivolse uno sguardo disgustato. «A pancia in giù». Lei si rivoltò. Non restò particolarmente stupita quando Starrag le sollevò la casacca fino sopra le scapole. L’aria fredda di quella notte perpetua le diede all’istante la pelle d’oca. «Dannazione» disse Starrag. Cercò di lanciargli un’occhiata da sopra la spalla, ma vide solo una sfera di luce lattiginosa nella sua mano sinistra. «Che cosa succede?» «Mentre cavalcavi ti ha preso alle spalle». «Non è molto più chiaro, altezza». Sentì una delle sue mani sulla schiena. Il palmo e le cinque dita. «Sono solo graffi. Finché le lesioni restano sulla pelle non è un problema». «Graffi? Ho la schiena graffiata?» Il suo tono allarmato non sembrò coinvolgerlo. «Mh-mh». Le abbassò in parte anche i pantaloni e April si ribellò sul serio. Si voltò di scatto. «Ehi! Non so che cosa avete in mente, ma...» Lui la prese per una spalla e la rimise in posizione senza tante cerimonie. «Stai ferma. Nessuno vuole guardarti il culo». «Be’, comunque è quello che state facendo e non è per niente— La sua mano si spostò sul suo coccige e April lanciò un grido. Non per lo sdegno (non solo), ma anche per l’improvvisa fitta di dolore. «Sta cercando di farti il nido dentro. È comprensibile. Sei invitante». «Non sono...» «Silenzio. Mi ammorberai in un altro momento con le consuetudini della tua gente sulla decenza». «Non penso proprio. Vi state comportando in modo sconveniente e il vostro rango non vi dà alcun diritto di toccarmi come— Il palmo di Starrag Ó hAlluráin si spostò più in basso. Poi ancora più in basso, fino a fare il giro, scivolarle sul sesso e fermarsi sotto di lei, aperto sulla sua pancia. Con l’altra mano la premette giù, spingendo tra le sue scapole. April si azzittì. Si irrigidì. Iniziò a essere davvero spaventata e non della possibile aggressione di un pervertito, ma dalla cosa che le stava succedendo. Le sembrò di pulsare. Sentì un dolore acuto al centro della pancia, mentre Starrag mormorava di nuovo parole in una lingua arcana, spaventosa e simile al ringhio di un animale. Subito dopo si sentì opprimere da una strana sonnolenza e iniziò a trovare difficile concentrarsi. «È insolito. Persino raro. Mai visto prima, ma non è privo di logica. Devi toglierti tutto: ora come ora non posso muovermi, quindi cerca di collaborare». April strizzò gli occhi. Aveva sonno. Così sonno. Si sfilò a fatica casacca e giustacuore. Si rese conto di tremare forte, per il freddo, ma non solo. Dalla gola le sgorgò un lamento che aveva lei per prima delle difficoltà a interpretare. Di dolore? Di piacere? Il suo corpo stava reagendo in modo insensato. Il freddo la stringeva nella sua morsa dolorosa, giù, nel sesso, all’ interno del sesso, nel ventre... un freddo inumano, doloroso, spaventoso, profondamente sgradevole, eppure... eppure i suoi fianchi si muovevano in modo vergognoso e April non era mai stata pudibonda, ma... Un’altra lama di dolore. Parole arcane che sembravano incidersi sulla sua pelle: sulla sua schiena, sul suo sesso, nel suo ventre. Si dibatté debolmente, il corpo invaso da un piacere freddo e spaventoso. Starrag le schiacciava il petto a terra fin quasi a impedirle di respirare. Ora lo sentì emettere un’altra sfilza di parole graffianti, poi il freddo si trasformò in fuoco. Avvampò. Ebbe una chiara percezione del corpo di entrambi avvolto dalle fiamme. Un cerchio bruciante si disegnò sul terreno attorno a loro, mentre lei sobbalzava gemendo. Starrag Ó hAlluráin la lasciò andare. Si alzò in ginocchio. Provò a mettersi in piedi, ma le rovinò addosso, privo di conoscenza.
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