Chapter 1
VITA E AVVENTURE DI RICCARDO JOANNA.
I.
PICCOLO.
Paolo Joanna andava e veniva per la stanza, vestendosi, straccamente, ancora tutto pieno di sonno. Sul suo letto disfatto stavano una quantità di giornali aperti e spiegazzati, cascavano dalla sponda, giacevano sul tappetino miserabile; erano quelli della sera innanzi, su cui si era addormentato, su cui si era arrotolato, dormendo: quelli della mattina, ancora chiusi dalle fascette multicolori, erano deposti sul vecchio tavolino da notte, accanto a una tazza da caffè — e attratte dal fondiccio melmoso del caffè, dove lo zucchero si liquefaceva, le mosche vi ronzavano attorno — e un sottile odore d’inchiostro di stamperia restava nell’aria. Paolo Joanna si vestiva pianamente, per non destare il suo figliuolo. In uno stretto lettuccio il piccolo Riccardo dormiva, con una manina sotto la guancia palliduccia, con le palpebre un po' ombrate di livido e socchiuse, con la fresca e rossa bocca schiusa: respirava leggermente, impercettibilmente. Aveva sul volto una espressione di stanchezza, e il corpicciuolo elegante, sottile, di fanciullo a sette anni, si allungava sotto il lenzuolo con una linea di abbattimento profondo: tanto che il padre voltandosi ogni tanto a guardare il suo bimbo, diventava sempre più cauto nei movimenti, per paura di svegliarlo. La notte prima, dopo il teatro, lo aveva condotto a cenare a una trattoria a Vico Rotto San Carlo, che resta aperta sino alla mattina: erano rientrati alle due: il bimbo, eccitato da un bicchierino di Marsala puro, non aveva preso sonno che alle quattro. Ora sembrava troppo felice di dormire, perchè il padre, preso dalla tenerezza, non camminasse in punta di piedi e rinunziasse a cercare, nel vecchio canterano, una cravatta meno vecchia di quella che portava. Ma una mosca si posò sul volto del piccolo Riccardo, e quel visino, dal pallore di perla, si scosse, come se il bimbo fosse lì lì per svegliarsi: il padre tremò. Una seconda mosca venne a ronzare intorno ai riccioli castagni del piccolo Riccardo, poi si posò sulla fronte: e Riccardo fece udire, nel sonno, un piccolo lagno di creaturina che soffre. Allora il padre, delicatamente, senza far rumore, prese da terra un grande giornale e ne coprì il volto del bambino, per difenderlo dalle mosche: e sotto il largo foglio di carta stampata, odorante d’inchiostro di stamperia, il sonno del piccolo Riccardo Joanna continuò tranquillo.
Stava per uscire Paolo Joanna, dopo aver ricercato e trovato un mezzo sigaro spento, quando la serva si presentò sulla soglia. Era una tarchiata, robusta contadina del Cilento, dai capelli ispidi e neri, dagli occhi selvaggi, dalla bocca larghissima:
“Bon giorno, signorì. Che faccio per pranzo?”
Paolo esitò un momento:
“Pranziamo fuori, questa sera,” disse poi, presto presto, a bassa voce.
“E per colazione che gli do, a quest’anima di Dio?” domandò Marianna, accennando a Riccardo che dormiva beatamente, sotto la Perseveranza.
Paolo Joanna mise la mano nel taschino della sottoveste, ne cavò certi soldi e disse a Marianna:
“Basteranno dieci soldi?” e un piccolo tremito era nella sua voce.
“Ci bastano e ci soverchiano. E voi, signorì?”
".... Io..., non importa. Faccio colazione fuori, sono invitato,” soggiunse.
“A che ora vi debbo portare il signorino don Riccardo?”
“Portamelo in ufficio, alle due. Ti raccomando questa creatura, Marià.”
“Non dubitate, non dubitate,” mormorò lei.
Paolo Joanna se ne andò, contando e ricontando nel taschino i venti centesimi che gli erano rimasti, per comperare due sigari virginia. La serva prese la tazza sporca e se ne andò, richiudendo pianamente la porta. Erano le undici e mezzo quando il piccolo Riccardo si svegliò, il sole meridiano entrava nella camera, si allungava sui mattoni rossastri, illuminava tutta la povera decenza di quella stanza mobiliata: egli si rizzò sul letto, senza meravigliarsi di esser solo, senza chiamar nessuno, balzò in terra, in camicia, scalzo, si dette a cercare le calzette e le scarpette. Una calzettina aveva un buco al tallone, egli la stirò per ficcarla dentro la scarpetta e intanto canticchiava, come un grande:
“Tu, tu, tu....”
Ogni volta che incontrava un giornale sotto i piedi, lo scartava con un atto di fastidio, o vi passeggiava sopra, come se fosse un tappeto. Solo solo, come un piccolo essere ragionevole e buono, si lavò, si pettinò, si vestì col suo bel vestito nuovo, calzoncini al ginocchio, giacchettina, grande colletto di trina e cravatta di seta rossa: era il vestito nuovo che presto sarebbe diventato vecchio, a furia di portarlo ogni giorno, dalla mattina. E sull’uscio, preso a un tratto da una impazienza nervosa, si mise a gridare:
“O Marià! O Marià!”
La serva accorse, dal fondo della cucina, dove spremeva il sugo di pomodoro per i maccheroni della padrona di casa: aveva le mani rosse sino all’avambraccio.
“Voglio la colazione,” disse il bimbo, levando sulla serva i suoi occhioni azzurri e pensosi.
“Che volete, per colazione?”
“Una bella cosa: una cosa bella assai,” disse lui, come sognando una ghiottoneria.
“Ditemela, signorino mio: e Marianna ve la fa. Volete una bella frittatina di due uova?”
“No, no, voglio una bella cosa.”
“Volete un’insalatella di patate e tonno?”
“No, no,” fece il bimbo, con la cera nauseata.
“Volete dei maccheroni col pomodoro?”
“No, no, no,” fece Riccardo, irritato, battendo i piedi in terra.
“Signorino mio, che vi posso fare? ditemelo voi.”
“Voglio un pollo, tutto un pollo, tutto per me, Marià,” disse il fanciullo.
“Non può essere, signorino mio.”
“Io voglio il pollo,” disse il fanciullo freddamente, con l’alterezza del gran signore avvezzo a comandare.
“O Madonna mia? come vi posso comprare il pollo? Proprio non posso.”
“O Marià, Marianna mia cara,” disse il piccolo seduttore, con una voce tenerissima, “se mi vuoi bene, comprami il pollo.”
“Creatura di Marianna sua, non mi fate disperare, siate buono, papà mi ha lasciato soltanto dieci soldi per la colazione.”
“Soltanto dieci soldi?” chiese il bimbo, diventato a un tratto calmo e riflettendo profondamente.
“Sissignore.”
“Ebbene, non importa: comprami dieci soldi di pollo.”
E l’ala di pollo a cui era attaccato un pezzetto di petto, Riccardo Joanna andò a mangiarla in cucina, accanto al tegame dove bolliva il sugo di pomodoro: Marianna, la serva, dalle nerborute braccia, aveva fatto in modo da comprargli anche due prugne dolci e mature. Donna Caterina, la padrona di casa, andava e veniva, tutt’affaccendata nei preliminari del pranzo: era una grassona, col viso cosparso di tre o quattro porri rossi e pelosi. Il bimbo, silenzioso e dignitoso, la guardava, ogni tanto, coi suoi occhi fieri, rosicchiando la sua ala, come un piccolo principe.
“Non ti ha dato nulla don Paolo, per me?” domandò donna Caterina a Marianna, che toglieva le teste e le spine alle alici.
“Nossignora.”
“Ma gliel’hai detto?”
“Nossignora, l’ho dimenticato.”
Donna Caterina fu lì lì per gridare: Marianna le fece un cenno supplichevole, indicandole il piccolo Riccardo, che lavava aristocraticamente le sue prugne in un bicchiere, prima di mangiarle. La padrona di casa fece una spallata, ma tacque. Erano gli otto del mese e Paolo Joanna non ancora aveva pagato l’affitto della sua stanza: ogni mese si faceva pregare sino ai quindici, sino ai venti. In realtà Marianna, presa da pietà, non glielo diceva spesso, vedendolo impallidire e balbettare: non glielo diceva, anche per quella bella creatura di Riccardo, che chinava gli occhi e stringeva le labbra, quando venivano a chieder denaro a suo padre. Il figliuolo, allora, levava gli occhi in faccia al padre, preso da una grande ansietà, muto, angosciato: Marianna voltava la testa in là, per non vedere questa scena silenziosa. E la gentilezza, la intelligenza del piccolo Riccardo erano tali che commovevano anche donna Caterina: era un bimbo senza madre, quello, ed ella era una donna senza figliuoli.
“Vuoi pranzare con noi, Riccardo?” gli disse, quando le alici cominciarono a saltare nell’olio della padella.
“Grazie, signora,” rispose il piccolino, “ho fatto colazione e pranzo con papà mio, questa sera, alla trattoria.”
E se ne andò in camera sua, dove restò solo solo, di nuovo, a giocare con una scatola di soldatini scompagnati. Ora Marianna aveva piegato i giornali trovati sul letto e in terra e li aveva uniti ad altri sparsi, a fasci, ammonticchiati sul canterano, sul tavolino da notte, sopra un seggiolone di cuoio nero dove nessuno sedeva: ogni tanto, quando eran troppi, Marianna li vendeva al pizzicagnolo, a cinque soldi il chilo, quando non erano tagliati, e con quei soldi pagava la stiratrice che insaldava i grandi colletti di Riccardo, o gli lavorava dei manichini di lana rossa, per l’inverno. Alle due ella entrò in camera, per condurlo all’ufficio del giornale, da suo padre: aveva lasciato il suo piatto di maccheroni a metà, per non mancare.
“Mettetevi il berretto, e andiamo, signorino don Riccardo.”
“Posso andare anche solo: so la strada!”
“Madonna, potete capitare sotto a una carrozza!”
“Vado sul marciapiedi.”
“Nossignore, ho promesso a papà di accompagnarvi.”
Egli posò un berretto grazioso sui riccioli castagni e se ne andò per il vicolo dei Pellegrini, raccontando a Marianna le meraviglie di Giroflè—Giroflà, che aveva visto la sera prima, al Circo Nazionale, il nero Mourzouck, i pirati e la vampa del punch, acceso nella zuppiera. La serva lo ascoltava, esclamando ogni tanto:
“O Gesù, o Gesù!”
Innanzi alla tipografia del Tempo, nella piazzetta dei Bianchi, incontrarono Peppino, un ragazzotto tipografo.
“Peppì, vai all’ufficio?” domandò il piccolo Riccardo con aria d’importanza.
“Sissignore, porto le bozze a papà.”
“Ah! va bene,” fece Riccardo, tutto soddisfatto.
Ora camminavano in tre, la serva col suo passo di anatra grassa, il bimbo sottile e snello e il ragazzo di stamperia. Peppino portava un berretto di carta bianca sui capelli rossi, e il viso bianchissimo era macchiato di lentiggini e d’inchiostro: e sulla blusa turchina parea che ci fosse piovuto l’inchiostro. Egli guardava il figliuolo del redattore, con un rispetto profondo e si teneva un po’ indietro.
“Tu sai leggere, Peppino?”
“Sissignore: altrimenti non potrei fare il tipografo.”
“E scrivere?”
“Un poco.”
“Io non so nè leggere, nè scrivere,” disse Riccardo. “Ma non serve, papà dice sempre che non serve.”
“Voi non dovete fare il tipografo, signorino.”
“No, no, io non debbo fare il tipografo,” mormorò macchinalmente il bimbo. “Addio, Marianna, addio.”
“La Madonna vi accompagni,” disse la serva, ferma sulla soglia del portoncino, guardando ancora il bimbo che si arrampicava lestamente per la erta scaletta.
E Marianna Rosanía, la vigorosa contadina di Caposele, se ne andò a casa, col suo passo di bestia grossa, a lavare i piatti, mentre i ferri da stirare si arroventavano sull’altro fornello. Riccardo attraversò l’anticamera senza fermarsi, schiuse una porta, corse a una scrivania e buttò le braccia al collo del padre.
“O papà, o piccolo papà,” ripeteva il bimbo, strofinando la sua guancia contro quella del padre.
Il padre lo baciava, in silenzio, sui capelli, sugli occhi. Per lavorare in ufficio, Paolo Joanna aveva cambiato il soprabito in una giacchetta di lustrino: la faccia aveva una monotona espressione di stanchezza e quasi di ebetismo: il medio e l’indice della mano dritta erano sporchi d’inchiostro sino alla seconda falange.
“Hai mangiato, nino mio?”
“Sì, papà: Marianna mi ha comprato il pollo.”
“Ti è piaciuto?”
“Sì, papà: e tu?”
“Io ho fatto colazione al caffè.”
“Con gli amici tuoi, papà?”
“Sì, nino. Ti sei seccato, a casa?”
“Un poco, papà: ma non importa.”