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Addio, amore!

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Trafiletto

La vita di due sorelle viene scossa dalle fondamenta quando la maggiore si invaghisce del marito, seducendolo...

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I.-1
I.Lunga distesa, immobile sotto la bianca coltre del letto, con le braccia prosciolte e le mani aperte, con la bruna testa inclinata sopra una spalla, con un soffio impercettibile di respiro, Anna pareva dormisse da due ore, immersa nel profondo abbandono del sonno giovanile. Sua sorella Laura, che dormiva in un secondo candido lettino da fanciulla, all’altro capo della vasta stanza, aveva quella sera molto prolungata la sua solita lettura notturna, con cui sfuggiva alla conversazione ultima della giornata, fra sorelle. Ma appena l’ombra della lunga e fredda notte d’inverno aveva avvolto le cose e le persone nella camera delle due fanciulle, Anna aveva schiuso gli occhi e li teneva fissi, sbarrati sul letto di Laura, il cui biancore appariva confusamente, anche nell’oscurità. Anna non dormiva. Non osava fare un movimento, non sospirava neppure; il suo corpo pareva quello di una statua e la sua vita era tutta nello sguardo, che cercava acutamente di penetrare tutto il segreto delle tenebre, volendo vedere se realmente sua sorella Laura dormisse. L’ora della notte che si avanzava rendeva sempre più gelida la stanza: Anna non aveva freddo. Da che il lume si era spento, una fiamma le era salita dal cuore al cervello, le si era diffusa per tutto il sangue, bruciandole le vene, accrescendone il palpito, bruciandole la carne, aumentando a dismisura le pulsazioni delle arterie, tanto che ella non poteva più seguirne, mentalmente, il precipitato movimento. Simile ai colpiti da una forte febbre, ella si sentiva bruciare, e le labbra si disseccavano all’alito caldo che passava, e intorno al capo, sul guanciale, ella sentiva il calore diffuso della sua testa che bruciava: e l’aria glaciale che le penetrava nei polmoni non ispegneva quella fiamma, non arrivava a vincere il tumultuoso irrompere del vivido sangue giovanile dal cuore al cervello. Spesso, per sollevarsi, avrebbe voluto emettere uno di quei sospiri che sono anche un grido, che sono anche un lamento, ma il timore di svegliare Laura le faceva soffocare anche i sospiri. Non soffriva di quella grande fiamma che le batteva alle tempia e ai polsi, che le faceva palpitare disordinatamente il cuore: soffriva di non poter sapere, certamente, se sua sorella dormisse. Uno spiraglio fra le imposte era stato lasciato da lei, apposta: ma vi entrava un bagliore così smorto, che non si diffondeva. Pensò di muoversi, facendo scricchiolare il letto, per udire se poi si muovesse Laura nel suo, destata; ma il terrore di dover prolungare la sua aspettazione, la immobilizzò, quasi che mille vincoli le annodassero le membra. Non poteva più neppure misurare l’ora, poichè non aveva prestato orecchio all’orologio del loro salottino, che si udiva anche nella loro stanza: e le parevano anni che durasse quell’attesa, le parevano anni che la bruciasse quel calore inebbriante, le parevano anni che stesse lì, con gli ardenti occhi spalancati sull’ombra. E un triste pensiero le attraversò la mente, che fosse trascorsa l’ora detta. Forse era trascorsa, nella immobilità, nel silenzio, ed ella stessa che l’aspettava febbrilmente, l’aveva lasciata fuggire. Ma fiocamente ammortito dalla lontananza e dalle porte chiuse, udì suonare l’orologio. Era l’ora detta. Allora, con una cautela paurosa, che ad ogni piccolo moto le procurava un palpito più violento, con una lentezza di mosse da sonnambula, fremendo a ogni stridore del suo letto, fermandosi ed attendendo, buttandosi indietro, sgomenta, ella si levò a sedere e poi scivolò fuori del letto. Quel biancore confuso in cui dormiva sua sorella l’affascinava sempre: e teneva il capo rivolto da quella parte, mentre le mani cercavano le calze, le scarpe, i vestiti. Tutto era lì, vicino, messo appositamente vicino, ma ogni difficoltà vinta per vestirsi, senza fare nessunissimo rumore, rappresentava un compendio di precauzioni, di pause, di paurosi intervalli d’immobilità. Quando finalmente ebbe indossato il vestito di lana bianca, si vide, nell’ombra. – Forse Laura mi vede – pensò, tremando. Ma aveva anche preparato un grande e pesante sciallo di lana nera, e se lo tirò dalle spalle sul capo, lo lasciò cadere fin giù ai piedi come un mantello, e il confuso candore del suo abito sparve. Pure, aveva eseguito il miracolo di vestirsi, stando ferma accanto al letto: non aveva osato fare un passo innanzi, era certa che Laura si sarebbe svegliata. Le pareva che l’avessero inchiodata sul tappeto, innanzi al letto: non avrebbe potuto levare un piede, ne era sicura. – Un po’ di forza, Signore – pregò fra sè, impetuosamente, nell’ardore della sua passione. Camminò, scivolando, come un fantasma, fatto di inafferrabile nebbia, radente il tappeto. Alla metà della stanza, presa da un impulso di audacia, due parole le uscirono, basse, dalle labbra: – Laura, Laura... – chiamò, tendendo l’orecchio, acuendo lo sguardo. Niente, laggiù. La prova suprema era fatta. Fece un gesto, buttandosi alle spalle tutti i timori, e quasi conoscesse in quelle tenebre perfettamente il suo cammino, arrivò alla porta che aveva lasciata socchiusa, e passò nel salottino, sospirando liberamente. Per non far cadere lo sciallo, lo teneva convulsamente stretto al collo con una mano, e con l’altra brancolava innanzi a sè, poichè nel salottino era facile inciampare in qualche mobile; era pieno di tavolinetti, di mensole, di poltrone: teneva bene aperti gli occhi, innanzi a sè, camminando piano. Battè contro lo stipite della porta, fra il salotto e il salone, e si fermò, stordita dal colpo preso nella fronte, appoggiata al legno, con le orecchie che le tintinnavano: – Madonna mia, Madonna mia – diceva fra sè, angosciata. Passando, sfiorò la stanza dove riposava la loro istitutrice, Stella Martini; ma la povera e buona donna era di sonno duro, ella lo sapeva; e si fidava così di lei, Stella Martini, che era doloroso ingannarla. Ma tante altre cose più dolorose faceva ella, Anna, attraversando di notte quella sua casa tranquilla, tremando finanche di esser sorpresa da un servo, raccomandandosi, empiamente sì, ma raccomandandosi, a Dio! Il colpo dato contro la porta, e l’orgasmo della sua febbre le avevano turbata la mente: quando arrivò alla stanza da pranzo, le parve di aver attraversato cento stanze, cento appartamenti, una interminabile, favolosa fuga di stanze e di appartamenti. E quando aprì la porticina inferiore che, per mezzo di una scaletta nel muro, portava sulla terrazza, ella divampò di nuovo, anelando, salendo prestamente malgrado l’oscurità, non curandosi più di far rumore, schiudendo d’impeto la porticina superiore che dava sulla terrazza, correndo sul terreno, solcato da nere strisce di asfalto, fra l’aria gelida della notte che le schiaffeggiò le guance e la fronte, nel gran gelo invernale, sotto un cielo nero. Corse, giunse a un muretto divisorio poco alto, e tendendo le braccia verso la terrazza accanto, disperatamente, chiamò: – Giustino, Giustino! Subito un’ombra di uomo apparve sull’altra terrazza, si appressò, si fermò al muretto di divisione: una voce tenera rispose: – Eccomi, Anna. Ma ella, prendendolo per mano, attirandolo a sè, lo invocò di nuovo: – Vieni, vieni... Egli saltò agevolmente il muretto: stavano accanto ora, nella grande oscurità della notte. Tutta chiusa nel suo mantello nero, senza parlare, Anna curvò il capo e scoppiò in singhiozzi. – Che hai? che hai? – chiese lui, cercando di vederne la faccia, affannandosi. Anna piangeva, senza rispondergli, con un singulto sordo che parea la soffocasse. – Non piangere... non piangere... dimmi che hai... – mormorava lui teneramente, con una carezza compassionevole nelle parole e nella voce. – Niente, niente... ho avuto paura... – singultava lei come una creaturina sgomenta. – Cara, cara, cara – seguitava a mormorar lui, con una tenerezza piena di malinconia. – Ah, io sono una poveretta... sono una poveretta, – disse lei, intendendo l’intonazione di pietà, facendo un atto di desolazione, ch’egli intravide nella bruna notte. – Io ti voglio tanto bene – disse Giustino, a voce bassa, semplicemente. – Ripeti – disse lei, cessando di piangere. – Ti voglio tanto bene, Anna. – Io ti adoro, anima mia diletta. – Se mi vuoi bene, devi esser tranquilla... – Ti adoro, creatura mia cara... – Promettimi che non piangerai più così... – Ti adoro; ti adoro; ti adoro – ripeteva ella monotonamente, con la voce fatta sorda dall’emozione. Egli tacque: pareva non trovasse la parola più alta per corrispondere a quella commozione. Un vento freddissimo passò loro sul volto, attraverso l’ombra. – Hai freddo? – chiese Giustino con una gentilezza fraterna. – No: divampo – e gli stese la mano. Infatti la piccola mano, fra quelle di Giustino, bruciava. – È la passione – disse Anna. Egli sollevò delicatamente la mano sottile alle sue labbra e vi depose un lieve bacio, sulle dita. Non erano dunque gli occhi di lei che scintillarono nella notte, umane stelle di passione? – La passione mi consuma – seguitò lei, quasi parlasse a se stessa. – Io non sento nè il freddo, nè la notte, nè il pericolo, nè nulla. Non sento che te, non voglio che l’amor tuo, non voglio che vivere con te, sempre, sino alla morte, e di là anche, sempre con te, intendi, sempre... – Ahimè... – disse lui, sottovoce, con un rimpianto profondo. – Che hai detto? – gridò Anna, scuotendosi. – È un lamento, cara: un lamento, sopra il nostro sogno. – Non parlare così, non dirmi questo! – esclamò ella, disperata. – Perchè non vuoi lasciarmelo dire? Il dolce sogno, Anna, che abbiamo fatto insieme, si va dileguando, ogni giorno. Non vogliono che viviamo insieme. – Chi non vuole? – Colui che dispone di te, Cesare Dias. – Tu l’hai visto? – Oggi. – E non vuole? – No, non vuole. – Perchè non vuole? – Perchè tu hai danaro e io no: perchè tu sei nobile e io no. – Ma io ti adoro, Giustino! – Questo, al tuo tutore importa poco. – È un uomo cattivo... – È un uomo – diss’egli, brevemente. – Ma è una crudeltà, quella che egli commette! – gridò ella, levando le braccia al cielo. Giustino tacque. – Che gli hai risposto? Che cosa hai ribattuto? Non hai ripetuto, ancora una volta, che mi vuoi bene, che ti adoro, che morremo, se ci dividono? Non hai descritta la nostra disperazione? – Era inutile – disse Giustino, malinconicamente. – Oh Dio, oh Dio, e non hai difeso l’amor nostro, la nostra felicità? non hai gridato, non hai pianto, non hai tentato di scuotere quel cuore arido? Ma che uomo sei, ma che cuore hai tu stesso, che lasci sentenziare così la nostra morte? Oh Signore, Signore, che uomo ho amato io, dunque? – Anna, Anna... – disse lui con dolcezza. – Perchè non hai reagito, perchè non ti sei ribellato? Sei giovane, hai coraggio; perchè Cesare Dias, che è quasi vecchio, che è un glaciale calcolatore, ti ha fatto paura? – Perchè Cesare Dias aveva ragione, Anna – concluse lui, quietamente. – Ah sacrilego, sacrilego bestemmiatore dell’amore! – disse Anna, arretrandosi, colpita da un movimento di orrore. Nell’oblio della sua disperazione, ella aveva lasciato andare lo sciallo, che dalla testa le era scivolato sulle spalle, poi le era caduto ai piedi, senza che ella se ne accorgesse. Adesso ella si ergeva innanzi a lui, vestita di bianco, nell’ombra, come un desolato fantasma, che l’umano dolore fa vagabondare sulla terra, fra uno strazio che non avrà mai fine. E sebbene egli avesse preveduto quello scoppio selvaggio e clamoroso di dolore, sebbene egli avesse tratto dall’istesso suo mite, segreto e profondo dolore, una forza grande per affrontare quell’ultimo colloquio, pure lo strazio dell’unica donna che aveva amata, lo struggeva in tutto il suo disperato coraggio. – Cesare Dias aveva ragione, Anna mia. Io non posso sposarti, sono un povero giovane senza quattrini. – L’amore è più forte dei danari. – Sono un borghese: non ho un titolo da darti. – L’amore è più forte di un titolo. – Tutto si oppone al nostro amore, Anna. – L’amore è più forte di tutto, anche della morte – ribattè Anna, per la terza volta, con la monotona fissità che dà un unico sentimento. Fu un silenzio lungo, dopo questa sentenza della passione. Ma egli sentiva di dover andare sino in fondo: vedeva il suo dovere, e soffocava i suoi fremiti.

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