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Questura di Milano, 21 luglio 2004, ore 14,00
Non mi chiamo Luc.
Per l’anagrafe sono Lorenzo, ma ormai per i miei familiari, amici e colleghi io sono Luc. E quando qualcuno si rivolge a me chiamandomi ancora con il mio vero nome, a volte, mi capita di non girarmi nemmeno, tanta è l’abitudine di rispondere solo a quello con cui mi hanno ribattezato da più di vent’anni.
Luc da Luc Merenda, l’attore che interpretò svariate figure di commissario di polizia, tra cui quelle di Ghini e Caneparo, e questo solletica la mia vanità perché conosco bene la filmografia dei polizieschi anni ‘70 e so quanto fosse apprezzato dalle donne l’attore da cui ho ereditato il nome e, evidentemente, anche l’aspetto.
Se c’è una collezione di videocassette e dvd che Purita, la signora spagnola che aiuta mia moglie nelle faccende di casa, non deve mai spolverare è proprio quella: non appena Gloria ed io abbiamo un momento libero per rilassarci insieme, ci lasciamo andare sul divano per vedere uno di quei film, oramai purtroppo lontani dal pericolo di dover sussultare con una spinta del bacino in avanti, seguita da un’imprecazione tra le migliori che sia ha a disposizione quando i figli sono ancora piccoli, per non venire sodomizzati da una Barbie comodamente sdraiata tra i cuscini del divano, e con l’immancabile braccio teso verso l’alto. Diventiamo, comunque, facile bersaglio di Andrea e Fabrizia con commenti più o meno di questo tenore: – Ma che razza di film antichi vi vedete voi vecchi?! –. Prima ancora che il nostro televisore si popoli di criminali e poliziotti al seguito. Di pantaloni scampanati, Giulie e Lancia Fulvia che fanno da sfondo a questi bellissimi film di quando eravamo ragazzini noi.
Sì, perché per due sedicenni del 2004 gli anni ‘70 sono pura preistoria e c’è da chiedersi se pensino che da un momento all’altro, dietro una Fiat 124 special a targa quadrata bianco-nera spunti gigantesco un Triceratopo.
Pur essendo consapevole di avere i capelli fuori moda, anzi nel gergo delle due pesti la mia sarebbe una capigliatura anacronistica, io me la porto in giro incurante di sembrare uscito fuori da una delle mie pellicole preferite. Il fatto è che mi piace portarli così, lunghi e lisci e ne vado fiero: dopo l’incidente di Gloria, giurai a me stesso che se ce l’avesse fatta non avrei cambiato più pettinatura, perché quelle mani che sembravano giacere senza vita, bianche e inermi, sul letto d’ospedale avrebbero dovuto per forza tornare a muoversi fra i miei capelli.
E da allora, gioisco tutte le volte che lo fanno.
Mia moglie è per me una creatura adorabile e sopporta molte cose del mio lavoro accogliendole con molto equilibrio. Non credo di essere capace di fare altrettanto quando lei ha bisogno di me in qualità di mamma a tempo pieno da oltre sedici anni. Gloria mi ha sempre incoraggiato nel mio lavoro, anche quando ho pensato che sarebbe stato meglio mollare tutto: aveva compreso da subito che fare il poliziotto era l’unico mestiere che avrebbe soddisfatto quella parte predominante di me che grida forte un accanimento contro ogni forma di ingiustizia, un istinto naturale alla caccia e un senso del dovere fuori dal comune. Tutti lati del mio carattere già molto evidenti sin da quando ero poco più che un bambino. Oggi, sono convinto che se non avessi percorso questa strada sarei un uomo diverso, ma non certo migliore.
I ruoli saggiamente complementari della mia famiglia e della mia professione, che si avvicendano nella nostra vita con uno scorrere fluido e incessante, anche se a volte impetuoso, fanno di me un uomo felicemente sposato, un padre che non potrebbe chiedere di più e uno stakanovista che è riuscito a soddisfare nel profondo il suo irrinunciabile istinto e la sua natura complessa. In altre parole, mi fanno sentire un uomo completo. Ed è per questo motivo se oggi mi trovo nel mio ufficio seduto di fronte al nuovo dirigente della sezione omicidi, il commissario capo Gilberto Zampieri di Roma, giunto a Milano con moglie e due figli da poco più di un anno, e ai miei due collaboratori di sempre, Silvia ed Enrico.
Gil, questo è ora il suo nome qui alla squadra mobile di Milano, è un uomo distinto di cinquant’anni, slanciato e fasciato in abiti blu di alta sartoria o da lunghi cappotti con maniche alla raglàn, anch’essi in ogni caso blu. I capelli mossi e ancora piuttosto scuri incorniciano un viso lungo e due grandi occhi neri che ricordano Elliot Gould di qualche anno fa, ai tempi del suo Philip Marlowe.
Invece, i miei sono puntati su una risma di fogli che riportano i fatti avvenuti ieri, con una descrizione accurata dei particolari tutti ancora da esaminare.
Raccolgo le pagine e le allineo sul piano della scrivania, mi piace l’ordine, mi piace molto l’ordine, con un gesto attraverso il quale cerco di raggiungere la massima concentrazione quando so che sto per dare il via ad un duro lavoro. Ma in questo momento, non ho ancora la più vaga idea di quanto verrò coinvolto in questo gioco di morte, in un crescendo di malvagità che marchierà la mia vita con un segno indelebile.
Lascio scorrere gli occhi su ogni parola, su ogni punto, su tutte queste virgole maledette che mi costringono qui, ma con Gloria e le mie figlie come sempre nel cuore…
All’improvviso, sento fluire lungo la schiena brividi caldi e freddi che si alternano in una macabra danza il cui effetto immediato è quello di accelerare le pulsazioni del cuore, richiamando anch’esso da quei posti assolati e sicuri.
Come se a nessuna parte di me fosse ora concesso di essere altrove.
Ciò che leggo genera in me paure che riconosco sul nascere: “...il ritrovamento di una cartolina lasciata dall’omicida accanto al cadavere”.
Non è giusto!
Tutto risuona intorno, assieme all’immagine della locandina del film Demoni di Lamberto Bava impressa su quella maledetta cartolina, che rimbalza come una palla di fuoco dieci, cento volte sulle pareti della mia stanza formando altrettanti crateri neri e fumanti, mentre immagino che tutti abbassino rapidi il capo onde schivarla. Una sorta di bolide impazzito nel gioco del quidditch di Harry Potter.
Quel rettangolo di carta aveva cambiato ogni cosa, gridava a pieni polmoni che nulla aveva raggiunto la fine.
“Questo uccide ancora!” la mia voce schizza via come un proiettile a rincorrere quel bolide che solo io riesco a vedere.
Gli altri sobbalzano quasi, investiti dalla velocità e dal tono inequivocabile delle mie parole che sembrano recidere ogni filo di speranza di prenderlo in tempo, prima che qualche altro essere umano diventi per lui una nuova e facile preda.
Senza staccare lo sguardo dal foglio: “Dove sono i risultati dell’autopsia?”.
Silvia allunga un braccio e fa scivolare la perizia sul piano della mia scrivania: “Eccoli, Luc”.
Comincio a prenderne visione, con l’avidità dell’ansia che sale inesorabile: “La ferita da taglio al torace è stata inferta per mezzo di un’arma bianca da taglio e punta penetrata in tutta la sua lunghezza... Il rinvenimento sulla superficie cutanea perilesionale di una impronta a stampo può essere ricondotto all’azione contusiva della parte terminale del manico... Trattasi di un coltello a serramanico... La lama ha attraversato la zona del torace antistante il polmone sinistro perforandolo, è, quindi, penetrata nel cuore a circa cm 2 al di sopra della valvola mitralica...”.
Mille campanelli d’allarme strimpellano note stridule nel mio cervello.
Chiudo gli occhi e cerco di concentrarmi sul buio che ho davanti, di dare un senso allo scritto. Mi ricorda qualcosa… mi ricordo terribilmente qualcosa.
E adesso, so che cos’è.
“23 aprile 1988! Omicidio Moschino, Aurelio Del Monte!”.
Apro gli occhi di scatto e non mi accorgo quasi di aver pronunciato io quelle parole. La voce mi investe, scaraventandomi a terra per poi risucchiarmi in un vortice di sensazioni spaventose che avvolge la mente e il corpo insieme e li conduce in posti dove non avrebbero voluto tornare mai più. Luoghi lontani sedici anni: “Una Volvo grigia si è schiantata la scorsa notte contro un albero situato ai bordi della strada. Al volante una giovane donna di anni 25 che risponde al nome...”.
Tutti mi osservano come se al mio posto ora ci fosse Gregor Samsa tramutatosi nel grosso scarafaggio.
Cerco di riprendere fiato.
Mi sembra che tutto si muova intorno, in una girandola di colori e suoni, voci e sguardi che non riesco ad arrestare. Poi, all’improvviso, come quando si preme il tasto della pausa e le immagini si bloccano di colpo, tutto torna ad avere la collocazione di sempre.
Dunque, do il via ai miei pensieri: “L’omicida con la cartolina ci vuole dire qualcosa che non siamo ancora in grado di decifrare. Il fatto, però, che l’abbia lasciata a terra accanto al cadavere potrebbe significare che ha in mente di andare avanti, che non ha nessuna intenzione di fermarsi, tanto meno di arrendersi. Probabilmente, l’arma che userà sarà la stessa e l’impronta a stampo rappresenta la sua firma: l’omicida sa di lasciarla e sa anche che noi l’avremmo riconosciuta.
È molto sicuro di sé, visto come si è districato con disinvoltura nel labirinto dell’omicidio. Una cosa è certa, ha preso troppi rischi per essere un novellino, alcuni dei quali non erano affatto necessari e si portano dietro un senso di sfida con se stesso che ha inteso trasmettere anche a noi. E allora, forse, ha già ucciso prima di ieri”. Mi fermo un istante a raccattare dentro di me tutte le schegge del dubbio, i frammenti di paura, i pezzi d’incertezza sparsi dappertutto, che la consapevolezza acquisita della gravità della situazione ha generato attraverso l’implosione dei miei sentimenti. “Sa bene dove e come affondare la lama nel torace della sua vittima ed è sparito senza lasciare traccia. Abbiamo visto che ha portato il coltello con sé, non si è servito di un’arma occasionale afferrata al volo in un momento di rabbia improvviso e ciò mi conferma che ha pianificato il delitto. Inoltre, non l’ha abbandonata come ha fatto con la cartolina. Il coltello a serramanico non è paragonabile a un’arma qualunque, è qualcosa di più personale che mostri agli amici per farti bello o che ti porti dietro come il tuo pacchetto di sigarette, l’accendino o le chiavi di casa. Ma nel nostro caso, io credo che abbia anche un altro significato che scavalchi ogni ragionamento su ciò che è successo ieri: temo che stia continuando, con le stesse modalità, qualcosa che ha cominciato molti anni fa”.
Respiro profondamente.
Quindi, con l’aria di chi sta concentrando i suoi pensieri su un dettaglio importante che non riesce a mettere a fuoco e dopo aver atteso che il mio primo trasporto della giornata si sciogliesse in quel respiro: “Cosa volevi dire quando hai fatto riferimento all’omicidio Moschino?”.
“Hai ragione, Gil, scusami. Si tratta di un vecchio caso”.
La mia bic rigorosamente nera è puntata ora verso Silvia ed Enrico che si guardano come a volersi dire: – Vai tu o vado io?
Prevale la vecchia e brava cavalleria: con un gesto in avanti del braccio, Enrico le fa un cenno di assenso col capo e concede con questo inchino di fattura artigianale la parola alla sua collega. Intanto penso che sia un’ottima scelta, le capacità di sintesi della mia brava Silviona sono eccellenti.
Dopo aver riferito a Gil tutta la storia nei minimi dettagli, Silvia mi sorride appena, tradendo un viso più sollevato: sono pur sempre banchi di prova le esposizioni dei fatti davanti al nuovo capo.
“Il caso era risolto” riprendo io la parola, “ma oggi nella perizia di Ildo ho notato due elementi che ci forniscono un legame tra i vecchi delitti e la morte del ragazzo spagnolo. Mi riferisco alla tipologia della ferita e al tipo d’arma adoperato; sono gli stessi in tutti e due i casi”.
“Non potrebbe trattarsi di un imitatore?” suggerisce Gil.
“Può essere” gli rispondo, “chiunque all’epoca avrebbe potuto leggere gli articoli in cui si parlava del coltello e della mitrale, ma secondo me è passato troppo tempo, perché qualcuno abbia deciso oggi di riprendere in mano le dinamiche di un vecchio omicidio, senza che vi sia un legame stretto tra passato e presente. Enrico, tu che ne pensi?”.
Enrico socchiude gli occhi e ci dà un piccolo assaggio della sua bravura: “La prima cosa che dobbiamo appurare è perché uccide in modo così crudele, non dimentichiamoci che la vittima aveva appena sedici anni. Per capire questo, dobbiamo cercare di conoscerlo bene. Molto bene”.
Noto due rughe tra le sue sopracciglia: sta raccogliendo le idee prima di cominciare.
Quindi, Enrico fa un bel respiro e parte: “La tipologia dell’omicida seriale è tale per cui, il desiderio di potere e controllo totali sulle sue vittime lo porta a commettere gli omicidi uno dopo l’altro, in genere, a intervalli sempre più ravvicinati. Questo principalmente per due motivi: il primo, perché trae sempre meno requie dai delitti che porta a termine strada facendo, sulla base della teoria economica dell’utilità marginale decrescente, e attingo a nozioni di natura economica in quanto, secondo me, non si deve mai commettere l’errore di spiegare un evento solo attraverso la scienza di sua diretta pertinenza o provenienza. Tutte le scienze sono in una certa misura collegate fra loro, per cui, quando beviamo un bicchier d’acqua, il piacere che ne traiamo è direttamente correlato al numero di volte in cui si ripete l’evento e per quanta sete abbiamo, già al secondo bicchiere decresce il desiderio di ingurgitare ancora dei liquidi. Quindi, dosi aggiuntive, ovverossia marginali, di prodotto ci procurano, da un certo momento in poi, un piacere sempre minore. Ecco perché è possibile che continuando a uccidere, diminuisca in un omicida quella sensazione di appagamento che percepisce, invece, in tutta la sua pienezza tra un intervallo e l’altro dei suoi primissimi delitti. Il secondo motivo per cui uccide a intervalli sempre più ravvicinati risiede nel fatto che, con il tempo, l’omicida seriale diventa più esperto e ciò lo fa sentire sempre più sicuro.
Inoltre, nel caso che ci riguarda, l’assassino non ha alterato il luogo dove ha ucciso e ciò significa due cose in particolare: primo, che non gli importa di confonderci le acque e poi che non ha sentito il bisogno di distanziarsi da ciò che aveva appena fatto. Perché come dicevi anche tu, Luc, è molto sicuro di sé e se non lo fermeremo in tempo, lo diventerà sempre di più. Allora, quando la rabbia riprenderà a martellargli in testa più viva e più forte di prima, ricomincerà a uccidere, perché solo così riuscirà a provare dentro di sé quello che lui identifica come un senso di pace tra un attacco e l’altro della sua follia omicida... e io ho paura che la sua collera stia lievitando.
Poi c’è un altro aspetto tipico, e cioè il desiderio di farsi catturare: il nostro omicida ha inferto la stessa ferita ed è ricorso allo stesso tipo di arma usata in un precedente delitto con il chiaro intento di mandarci dei segnali precisi. L’impronta a stampo, per esempio, rappresenta il suo bisogno psicologico di lanciarci una sfida: – Imparate a conoscermi meglio, riuscirete a prendermi prima. Ma, soprattutto, vi prego prendetemi!
Lo stesso vale per la cartolina. Inoltre, di essa sappiamo che è della Promocard, perciò, deve averla presa in uno dei mille locali sparsi su metà del territorio nazionale fino a Bologna, che io sappia. Gli espositori sono collocati, in genere, in prossimità delle uscite e nessuno controlla chi le prende e chi no. Per cui, credo sia tempo perso fare delle ricerche in questa direzione. Però, per noi è un indizio valido perché anche con quella cartolina sono sicuro che stia cercando di fornirci informazioni importanti: che cosa sono quei demoni raffigurati? Cosa rappresentano per lui? Forse, dei demoni che lo tormentano? E se così fosse, perché gli procurano tanto odio? Cosa ha a che fare il ragazzo spagnolo con quei demoni?”.
Enrico si alza dalla sedia e comincia a percorrere avanti e indietro l’intero perimetro della mia stanza. Adesso, sembra parlare più a se stesso che a noi, cercando di concentrarsi più che può per non sbagliare.
La giacca slacciata, la cravatta stretta e scura che risalta sulla camicia bianca immacolata, l’addome piatto e i pantaloni eleganti, una mano in tasca e l’altra a riavviare il ciuffo che inevitabilmente torna subito a coprirgli metà del viso. Poi, continuando a camminare evitando i mobili del mio ufficio come se non esistessero, con lo stesso movimento morbido e sinuoso del gatto quando fa la gimcana tra preziosi soprammobili che al suo passare sembrano fatti di aria, Enrico ricomincia a parlare: “L’omicida non ha portato via con sé trofei appartenenti alla vittima per prolungare nel tempo il senso di potere e di trionfo. Né ha ricomposto il cadavere in pose insolite o comunque degradanti per concedersi ulteriori fantasie anche quando il ragazzo non era più in grado di lottare o implorare. Questi due aspetti li attribuirei al fatto che non ha sentito l’esigenza di affermare ancora di più il desiderio di supremazia sulla sua vittima e di prolungare il rapporto con essa e con l’azione che ha compiuto. Nonostante questo, io, però, credo che abbia assistito lo stesso al momento della scoperta del suo omicidio e ai successivi sopralluoghi, quindi, dobbiamo farci dire se c’era qualcuno che ha attirato l’attenzione in quei momenti.
Tutto ciò mi fa pensare che possa trattarsi di una persona anche molto scaltra oltre che molto sicura, una persona che sa di poter soddisfare e gestire la sua mente senza un aiuto esterno, come lo è sempre un trofeo. È consapevole di tenere testa al suo disagio interiore pescando dentro di sè, perché sente che è lì la soluzione, ma anche la causa di tutto. Io credo che per soddisfare le sue fantasie attinga solo al ricordo di ciò che ha commesso. A nient’altro. Perciò, quando si renderà conto di non riuscire più a tenere testa alla rabbia che si porta dentro e la sua forza sarà tale da convincerlo che può uccidere di nuovo per riuscire a stare meglio poi, uscirà di casa e come un tossico in crisi d’astinenza si metterà in caccia del suo fornitore personale e ideale di potere, trionfo e controllo totali. Ovvero, di un’altra vittima.
Sono ancora d’accordo con te, Luc, quando dicevi che agisce seguendo un piano prestabilito: non sceglie una preda qualunque, di certo, non è finito per una pura coincidenza dentro gli spogliatoi di un Tennis Club sempre pieno di gente, assumendosi un rischio così elevato. Deve esserci, senz’altro, un motivo imprescindibile se ha voluto proprio Alberto Tous come suo fornitore, e non un altro dei duecento atleti iscritti al torneo. Che cosa aveva questo ragazzo che, invece, gli altri non hanno? Secondo me, questo deve essere il nostro punto di partenza, dobbiamo scavare nella vita della vittima perché sono sicuro che troveremo qualcosa”.
Enrico si interrompe, e finalmente la mia stanza smette di essere il suo percorso privato di circuit training. Butta i suoi occhi su di noi che lo stiamo a guardare, il viso tirato, ma fiero, del soldato che ha corso piegato sulla schiena per decine di metri sotto il fuoco nemico. Ma ne è uscito indenne... o quasi. Forse, qualche graffio profondo nell’animo che in questo mestiere si incarna nell’ombra interiore di una spina sempre inserita con cui ciascuno di noi deve abituarsi a convivere. Ovunque vada, qualunque cosa faccia.
Lo guardo con soddisfazione: in fondo, nei suoi confronti mi ritengo un padre dal punto di vista professionale e la stessa cosa vale anche per Silvia.
Gil si accomoda meglio sulla sedia, si allenta il nodo alla cravatta e si passa l’indice tra pelle e colletto. Poi, con una carrellata di sguardi ci squadra come a voler quantificare il pubblico che gli sta di fronte.
È lui, adesso, a parlare: “Anche io temo che non si tratti di un omicidio isolato. Silvia, Enrico, bisognerà che riprendiate in mano tutti i fascicoli del caso Moschino alla luce dei nuovi sviluppi. Vediamo di tirar fuori qualcosa che possa essere sfuggito allora, ma che può tornarci utile adesso. Luc, tu che pensi di fare?”.
“Io andrò a cercare Claudio Moschino. Oggi, dovrebbe avere all’incirca la mia età, 43 anni. Voglio interrogarlo di nuovo, chissà mai che non ricordi qualcosa che non ci ha detto a suo tempo”.
“Ascoltate un momento” interviene Gil, “siccome mi sembra che siamo tutti d’accordo nel ritenerlo un crimine recidivo, pensavo una cosa: di coinvolgere l’UACV. L’unità di analisi ha supportato le mie indagini per quasi dieci anni, fino a poco prima di venire qui a Milano. Che cosa ne dite?”.
“Fammici pensare, Gil” ribatto dubbioso. “Non riesco a darti una risposta così su due piedi”.
A dire il vero, eviterei molto volentieri la presenza di persone che non conosco e che non ho voglia di avere intorno: al momento credo che nessuno possa fare meglio di noi. Ma non posso essere così diretto con Gil proprio quando ci ha generosamente messo a disposizione una valida opportunità da lui già sperimentata negli anni passati.
Chiudo gli occhi e mi massaggio le tempie come se il gesto possa aiutarmi a pensare più in fretta e ad allentare la tensione che ho addosso.
Quando li riapro, mi rivolgo ancora a Gil, ma questa volta con parole che hanno il preciso scopo di sollevare un poco quel maledetto macigno che adesso ci sta sopra il cuore e che sembra non volersene andare più via: “Forza, Gil... Grissom. Siamo pronti ad andare sulla scena del crimine”.
È proprio Gil ad uscire per primo, non senza essersi impegnato a leggere tutto lo scibile umano relativo al vecchio caso. Poi, con la mano fa dondolare un portachiavi della Burberry dal quale pende la chiave della sua macchina: “Andiamo con la mia”.