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Molto personale

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Blurb

Quando la polizia contatta Isla Hurley, medico e psicoterapeuta, è per un motivo terribile: Emma, una delle sue pazienti, è stata uccisa. Isla non aveva mai contemplato l’idea che il delitto potesse entrare a far parte della sua vita ordinata, riflessiva e tranquilla. Certo, Emma aveva dei problemi con un ex fidanzato, Jordan. Insieme, avevano lavorato sul loro rapporto distruttivo ed Emma era arrivata a denunciarlo per stalking, ma Isla non credeva che la situazione potesse degenerare a quel punto.E forse non è successo. Il detective incaricato delle indagini, Giovanni Vallespinosa, sembra un uomo capace e pacato. Cosa più importante, sembra avere davvero a cuore la morte della sua paziente e non è convinto che il responsabile sia Jordan.Tra lui e Isla nasce una collaborazione asimmetrica, curiosa, e un’attrazione intricata. Isla interpreta il mondo come un insieme di fatti emotivi, lui cerca un’obiettività forse impossibile. E le ferite di entrambi entrano subito in gioco, rendendo le indagini una faccenda molto personale.--CONTIENE SCENE ESPLICITE--Il detective l’aveva richiamata dopo tre settimane. Nel frattempo era arrivata l’ordinanza del giudice e Isla aveva consegnato una copia di tutto il materiale che aveva. La burocrazia su Emma. La scheda con i suoi dati personali. Le sue scarne annotazioni.Vallespinosa entrò nel suo studio alle cinque del martedì pomeriggio, dopo il suo ultimo paziente. Isla, china sul computer, finì di scrivere qualche appunto. Sapeva che era un atteggiamento difensivo. Le era morta una paziente, doveva impegnarsi di più. Prendere più inutili appunti, scrivere, registrare, annotare. Forse era anche un atteggiamento punitivo, ripensandoci.Sollevò lo sguardo e vide che Vallespinosa era ancora lì, dove l’aveva visto l’ultima volta, in piedi accanto alla porta.«Be’, si sieda» lo invitò, un po’ bruscamente.«Non c’è neanche un lettino» commentò lui, un po’ deluso. Isla sorrise e indicò le due chaise longue. «Ho quelle. Non sono un tipo da lettino». Il detective si accomodò davanti alla scrivania, lasciando perdere il setting.«C’era qualcun altro, a parte Jordan Crescent?» chiese.Isla inclinò la testa da un lato. «Uno stalker di solito è sufficiente» commentò, sarcastica.«Ne sono certo. C’era qualcun altro?»«Che cosa sta cercando? Un amante? Un amico?»Vallespinosa diede una scrollata di spalle. Sembrava stanco e non più allegro dell’ultima volta in cui l’aveva visto. Isla si ammorbidì. O, forse, si ricordò che era arrabbiata, sì, ma non con lui. Fece il giro della scrivania e si andò a sedere su una delle sue chaise longue. «Forza, ci faccia un giro. Non le venga in mente di raccontarmi che cosa ha sognato stanotte, però».

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1.
1. Il tuo carnefice non ti abbandona mai. Forse è l’unico. Una ben magra certezza. Isla guidava e pensava. Ogni tanto guardava il navigatore, posato in equilibrio instabile sul cruscotto. Un campo grigio attraversato da una linea color sangue. Fino a quella mattina, non sapeva dove vivesse Emma. Non aveva prestato attenzione all’indirizzo sul modulo per il trattamento dei dati personali, che pure aveva coscienziosamente archiviato. Tutto in ordine, tutto regolare. Le ricevute delle sedute, raccolte per data. Non si sa mai che cosa può succedere. Un’ispezione del fisco, una denuncia. Isla non era mai stata denunciata da nessuno, in realtà. Se però fosse successo, tutto sarebbe stato al suo posto. L’indirizzo di Emma era scritto su... quanti? Venti, trenta pezzi di carta diversi, tutti ordinatamente riposti? Eppure non lo conosceva. Avrebbe voluto urlare. Avrebbe potuto farlo. La musica usciva dallo stereo della macchina a un volume troppo alto. Isla Hurley, trentasette anni, medico e psicoterapeuta, che guidava con lo stereo a tutto volume, come un’adolescente. Sì, avrebbe potuto gridare. Poi avrebbe pianto. Poi la rabbia sarebbe andata via, o forse sarebbe diventata più fredda e affilata. Un oggetto tagliente, con cui ferire e ferirsi. Respirò, girando dove il navigatore le diceva di girare. Quasi un anno di sedute e non aveva mai letto l’indirizzo di Emma. Mai. Aveva importanza, si chiese? No, probabilmente no. E che cos’era quello, senso di colpa? Ovviamente sì. Secondo il navigatore era quasi arrivata. Sollevò lo sguardo. C’erano due macchine della polizia parcheggiate poco più avanti, lungo la strada. Sì, era arrivata. Salì con le ruote sul marciapiede dietro la seconda autopattuglia e spense il motore e lo stereo. Silenzio. Che cosa provava? si chiese, facendo uscire lentamente tutta l’aria dai polmoni. Era arrabbiata, sì. Triste. E si sentiva in colpa. Aprì la portiera, scese dalla macchina. Fuori l’aria era umida, ma non particolarmente fredda. Un uomo con una giacca a mezza coscia le stava andando incontro. Le tese la mano, spiegando chi era e qual era la sua qualifica. Isla vide che aveva gli occhi scuri, leggermente all’ingiù. «Scusi, non ho capito come si chiama» ammise. Lui contrasse un angolo della bocca in un sorriso veloce. «DCI Vallespinosa, CID» ripeté. «Grazie per essere venuta così alla svelta. La vicina dice che la signorina Connor era orfana. Il suo numero di cellulare era quello da contattare in caso di emergenza. Gliel’ho già detto, vero?» aggiunse, con un vago gesto di scuse. «Sì» confermò Isla. Gliel’aveva detto quando l’aveva chiamata. Le aveva anche già detto il proprio nome, era la terza volta che si presentavano. Tutte quelle sigle, non ricordava altro. Emma, razza di imbecille... il mio numero, come contatto in caso d’emergenza? Il mio cellulare di lavoro, quello che spengo dopo le otto e nei fine settimana? Pensavo che avessimo deciso che non volevi morire. Il detective si guardò intorno, come se non sapesse neanche lui che cosa fare. «Devo...» disse Isla « ...devo, ecco, identificarla?» Lui sembrò vagamente sorpreso. Di nuovo, quasi sorrise. Scosse la testa. «No. No, non è per questo che le ho chiesto di venire. Non deve... vederla. Non è necessario. Sono io a non potermi muovere da qua, almeno per un po’». Isla guardò la facciata della palazzina a tre piani davanti a loro. Una facciata grigiastra, squadrata. «È ancora là dentro?» chiese. Lui annuì. «Possiamo sederci nella mia macchina» disse, guidandola verso una grossa berlina scura. Le aprì la portiera. Isla guardò verso la propria automobile. «Ho dimenticato la cartella. Cioè... è lì dentro. Devo prenderla?» Il detective sembrò pensarci per qualche istante. Di nuovo, scosse la testa. «Le farò avere la richiesta di un giudice. Nel frattempo...» si strinse nelle spalle e girò attorno alla propria aiuto. «Grazie per essere venuta così alla svelta» ripeté, prima di entrare. Isla si rese conto che aveva voglia di tirargli un pugno in faccia. Una sua paziente era stata uccisa, che cosa pensava che avrebbe fatto? Aspettato un paio di giorni, tanto per dimostrare che era una professionista impegnata? Scivolò a sedere e richiuse la portiera. Nell’abitacolo c’era un vago odore di fumo. All’interno, l’aria sembrava più fredda e più umida che all’esterno. Isla aprì la borsa e iniziò a frugarci dentro. Il detective la guardava con quei suoi occhi un po’ all’ingiù. Trovò le sigarette, ne prese una e se la infilò in bocca. «Lei fuma, vero?» chiese, allungandogli il pacchetto. Il detective annuì. «Dunque» disse Isla. Scrollò un po’ di cenere fuori dal finestrino. «Ho iniziato a vedere Emma circa un anno fa. Aveva avuto il mio numero da un’altra paziente. La sua richiesta iniziale riguardava la gestione dell’ansia». Vallespinosa la guardava in silenzio, fumando. Non prendeva appunti. La cosa non la disturbava. Neanche lei prendeva mai appunti. «Gestione dell’ansia» ripeté il detective. Isla non riuscì a capire se fosse una richiesta di maggiori informazioni, una richiesta di proseguire o una semplice ripetizione per incentivarla a continuare. Di nuovo, la cosa non la infastidì. Lo faceva anche lei, di continuo. «Jordan viene fuori quasi subito» continuò, passando al presente. Poteva far finta di parlare del caso con un collega. Quando lo faceva, lo faceva al presente. «Hanno una relazione combattuta. Lui è possessivo, svalutante, iracondo. Si lasciano quando la vedo più o meno da due mesi. Lo lascia lei». «C’erano stati... c’era stata violenza?» chiese il detective. Aveva finito di fumare e ora aveva la mani posate in grembo. «Non credo. Non violenza fisica» rispose Isla. Ma poi, come poteva esserne sicura? Guardò fuori dal finestrino. La strada era grigia. Un campo grigio con una linea color sangue in mezzo... dove? Non molto lontano, questo era certo. «Avevo una sensazione. Ne ho parlato con una collega, in supervisione. Avevo la sensazione che ci fosse della violenza. Non so di che tipo. Quando mi parlava di Jordan sentivo che non mi piaceva, che era una persona pericolosa. Piccoli segnali. Era ossessionato da lei. Come se la tenesse costantemente sotto osservazione. Emma non se ne rendeva conto fino in fondo. A me dava questa idea». «Ma poi lo lasciò» disse il detective. Emma si voltò dalla sua parte. Ancora una volta, la guardava, con le mani in grembo e quegli occhi un po’ all’ingiù. «Mh? Sì. Ne abbiamo parlato. Era... Emma non voleva una relazione seria. Non che fosse... Non so. Era giovane. Voleva divertirsi. C’è anche la faccenda dei genitori, chiaramente». «Giusto. Ventisette anni, orfana. Come...» Isla tirò fuori un’altra sigaretta. Lasciò il pacchetto sul cruscotto, come a dire: “Si serva pure, se vuole”. «Sfiga» spiegò, secca, mentre accendeva. Aspirò e sbuffò fuori il fumo lentamente. Era arrabbiata. La rabbia la proteggeva dalla tristezza come una coperta di lana ruvida, come sempre. «Morti in un incidente stradale, come in un film. Be’, lei ora li ha battuti». Chiuse gli occhi, buttò fuori un’altra nuvoletta di fumo e di rabbia. «Era furiosa, con loro. Prima era stata triste. Era andata da una psichiatra, preso degli antidepressivi, lo sa. È l’epoca degli psicofarmaci. Ti muoiono entrambi i genitori di colpo, senza preavviso, e tu non puoi semplicemente dire: dio, sto di merda. Starò di merda per un bel po’. Poi passerà». Scrollò via un po’ di cenere. «No, devi dire: sono depressa, ora prendo qualcosa e poi starò bene. Ma Emma...» si trovò a sorridere. «Era così giovane. Ti veniva voglia di dirle... va bene, tesoro; qualsiasi cosa, purché tu stia meglio. Non vuoi soffrire? Okay, cerchiamo di risparmiartene il più possibile. Ti faceva venir voglia di proteggerla. Capisco la mia collega». «Mi sta perdendo per strada» le fece notare il detective. Isla si voltò. Gli sorrise. «Giusto» disse. «Giusto». Diede un ultimo tiro e buttò via la sigaretta. «Volevo spiegarle perché, dopo la morte dei genitori, Emma prese degli antidepressivi, per un periodo. Era triste, normalmente... ma la tristezza è un sentimento che censuriamo. Lei ti faceva venir voglia di essere accomodante, così nessuno le disse: forse è meglio se soffri un po’. Quando arrivò da me doveva ancora elaborare gran parte del lutto. Erano passati quattro anni, non aveva avuto una vita semplice. O forse sì. Non aveva problemi economici. Un’assicurazione sulla vita dei suoi. Ma aveva dovuto comunque cavarsela da sola a un’età in cui di solito c’è qualcuno che pensa ancora per te. Tu ci litighi e impari a fare da sola. Emma non aveva ancora finito di litigare con i suoi genitori, quando morirono. E, morendo, le impedirono di finire. Per questo era arrabbiata con loro». «Sono... affascinato, ma...» Di nuovo, Isla gli sorrise. Alzò le mani. «Ha ragione. Vuole sapere di Jordan». «Abbiamo una denuncia per percosse. Una per stalking. Mi può parlare di questo?» Isla spostò una ciocca di capelli dagli occhi, riflettendo. «Lei ha lasciato lui, ma lui non l’ha mai lasciata. È questa la cosa rassicurante, nell’avere un carnefice. Lui non ti lascia. Detective, lei capisce...» «I suoi genitori l’hanno lasciata, lui no. Ho capito» disse lui. Isla lo osservò. Un viso stanco, degli occhi tristi. All’ingiù di natura, certo, ma anche tristi in quel preciso momento. Se non fosse stato triste, pensò, l’avrebbe picchiato. Così, poteva andare. Annuì. «Jordan iniziò a telefonarle. All’inizio erano delle telefonate amichevoli. Volevo sapere come stai... tutto bene? Quel genere di telefonata. Anche se non stiamo più insieme siamo ancora amici... con me puoi parlare... A Emma faceva piacere». Isla sospirò. «Ora, io sono una persona sospettosa, lo ammetto. L’ho visto arrivare un po’ prima di lei. Sapevo che c’era qualcosa che non andava». Ma hai fatto abbastanza? Quella domanda le avrebbe fatto compagnia per un pezzo. «Dopo un po’, anche Emma iniziò a essere seccata. Jordan era pressante. La chiamava una o due volte al giorno, voleva vederla – da amico...» «Emma ci uscì insieme?» «Sì, qualche volta. Andò a letto con lui? Sì, è probabile. A me sembrava un maniaco fatto e finito, ma io non sono sua mamma. Emma era grande abbastanza per decidere. E infatti decise, per conto suo. Ne parlammo». Naturalmente, ne avevano parlato. Era quello che facevano, parlare. «Lui era geloso, anche se non stavano più insieme. Le telefonava, voleva sapere che cosa faceva, chi vedeva, con chi usciva... legga sotto la voce “stalker” in un libro a caso: lui lo era. Emma aveva l’impressione di vederlo, quando andava in giro. Forse la seguiva. Lo affrontò, ebbero un litigio, vennero alle mani». Isla si interruppe un attimo per prendere un’altra sigaretta. «Ora, lui era più grosso, ma non pensi che Emma incassò e basta. Lo picchiò anche lei. E poi lo denunciò». Isla ricordò quanto era stata orgogliosa di lei. Le sembrava giusto difendere la sua memoria. Emma non era rimasta passiva a guardare il proprio carnefice infierire su di lei. Si era difesa. Aveva contrattaccato. In quel momento, quanto meno. «Poi lui le chiese scusa, naturalmente. Ne parlammo». Ancora. Continuava a dirlo. «Voleva ritirare la denuncia. Diceva... è stata una zuffa. Le dissi che è così che fanno, gli uomini violenti. Ti picchiano e poi chiedono scusa. Oh, molto, molto pentiti. Ci credono per primi. Emma non era sicura che lui fosse così. Le dissi che neanch’io lo ero. Non potevo saperlo, ma lei sì. Lei lo conosceva. Poteva decidere». «La denuncia non è mai stata ritirata». Isla sorrise appena. «Gliel’ho detto. Poteva decidere. Ci credevo quando glielo dissi e ci credo ancora». Buttò via la sigaretta. Era diventata un cilindro di cenere senza che lei l’avesse fumata. «Ma era combattuta. Lui la cercava, le telefonava, le mandava regali. Ne era seccata, ma nello stesso tempo ne era lusingata. La tormentava, ma la vedeva. Era importante per lui. Litigavano, per telefono. Non lo lasciò più avvicinare a sufficienza per poterci litigare di persona. Fu dopo uno di questi litigi che lo denunciò anche per stalking». Vallespinosa annuì. «Un mese fa». Annuì anche lei. Non c’era molto altro da aggiungere. «Nelle ultime sedute... lo aveva perdonato. Le ho fatto notare che mi sembrava un’elaborazione molto veloce. Forse troppo. Le faceva piacere che lui le stesse attorno, in un certo senso. Ne abbiamo...» «...Parlato». «Già» sorrise lei, tristemente. La rabbia stava andando via, la tristezza stava arrivando. Poteva sentirla. «Crede che sia per questo che gli ha aperto la porta?» chiese Vallespinosa. Isla inspirò. Espirò. «No, credo che gli abbia aperto la porta perché è stata presa da un attacco di idiozia» rispose. Era di nuovo arrabbiata.

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