I.
Diederich Hetzling era un tenero fanciullo che sognava volentieri, che temeva di tutto e che aveva sempre mal d’orecchi. Egli lasciava malvolentieri l’inverno le camere calde e l’estate il piccolo giardino che odorava degli stracci della cartiera e sopra i cui tigli spioveva il tetto di legno delle vecchie case.
Quando Diederich guardava il libro delle fole, il vecchio libro delle fole, rimaneva spesso interrorito. Vicino a lui, sulla banchetta, c’era stata una tartaruga grande quasi come mezzo lui! O sul muro di fronte si staccava fino alla cintola un gnomo e lo guardava con gli occhi strabici!
Più terribile della tartaruga e del gnomo era suo padre. E con tutto ciò lo si doveva anche amare. Diederich lo amava. Quando egli aveva sottaciuto o mentito si strisciava timido e piagnucoloso a torno alla scrivania fin quando il signor Hetzling non s’accorgeva di qualcosa e non prendeva il bastone dall’angolo. Ogni misfatto non scoperto metteva un po’ di dubbio nella sommissione e nella fede di Diederich. Una volta che suo padre inciampò, con la gamba paralizzata, per le scale e cadde, egli battè le mani e poi scappò.
Quando egli, dopo una punizione, passava con volto dimesso piangendo davanti al laboratorio, gli operai ridevano. Allora egli mostrava loro la lingua con una smorfia. Egli aveva questa coscienza: io sono stato picchiato, ma da mio padre; voi dovreste essere lieti se poteste esser picchiati da lui. Ma voi siete troppo poca cosa per questo. Egli passava tra loro come un pascià capriccioso; spesso li minacciava di avvertire il padre se essi si lasciavan portare un bicchier di birra in fabbrica e altre volte, con civetteria, si lasciava tirar fuori da essi l’ora del ritorno del padre. Gli operai temevano il signor Hetzling; egli li conosceva, veniva su anch’egli dal lavoro. Egli era stato formatore nelle vecchie macine dove ogni foglio bisognava formarlo a mano, aveva combattuto tutte le guerre e, dopo l’ultima, quando tutti trovavano quattrini, aveva potuto comprare le macchine, una «olandese» e un tagliatoio. Egli stesso contava i fogli.
I bottoni che si staccavano dagli stracci nessuno poteva sottrarli. Il figliolo qualche volta se ne lasciava mettere in saccoccia qualcuno dalle operaie e taceva per quelli che intascavan loro. Un giorno ne ebbe tanti, radunati, che gli venne l’idea di scambiarli, da Kramer, con dei confetti. Gli riuscì, ma la sera, mentre ingoiava l’ultima caramella di zucchero d’orzo, s’inginocchiò sul letto e pregò Iddio, con brividi di paura, che il delitto non si scoprisse. Eppure fu scoperto. Il padre, che sempre metodicamente aveva alzato il bastone solo con l’espressione dell’onore e del dovere nella vecchia faccia da sottufficiale, questa volta alzò la mano con una lacrima all’angolo dell’occhio.
— Mio figlio ha rubato – disse fuori di sè, con voce strozzata; e guardò il fanciullo come si guarda un estraneo dall’aria sospetta. – Tu inganni e rubi aggiunse – non ti resta che uccidere.
La madre di Diederich voleva spingerlo a cader ginocchioni davanti al padre e a domandargli perdono d’averlo fatto piangere, ma l’istinto diceva al ragazzo che questo gesto avrebbe fatto stizzire il genitore maggiormente. Il signor Hetzling non era molto d’accordo con la moglie in fatto di maniere sentimentali. Gli sembrava che la madre rovinasse l’educazione del figliolo, per la vita. D’altra parte, ella mentiva spesso come Diederich. Nessuna meraviglia, perchè leggeva romanzi! E il sabato spesso non aveva terminato l’obbligatorio lavoro settimanale; invece di darsi d’attorno, spettegolava con la serva. E Hetzling non sapeva nemmeno che sua moglie rubava anch’essa; come il fanciullo. A tavola essa aveva la sfacciataggine di mangiare a sazietà e di andare anche, dopo, alla credenza... Se avesse osato entrare in fabbrica, avrebbe certamente rubato bottoni come il figlio.
Ella pregava insieme al fanciullo «con l’anima», non secondo i testi, e le si arrossavan, nella preghiera, le gote. Anch’essa lo picchiava, ma secondo i nervi, così, per vendetta e spesso a torto. E allora Diederich la minacciava di rivolgersi, per giustizia, al padre; faceva finta di scendere in ufficio da lui e si divertiva, nascosto in un angolo, a studiare la sua paura. Egli sfruttava le ore di buon umore della mamma, ma non la rispettava. Le somigliava troppo. Perchè egli non aveva nessuna stima di se stesso: egli attraversava la vita con una coscienza non tranquilla, una coscienza che davanti agli occhi del signor padre doveva tremare.
Eppure madre e figlio godevano ore di straboccante sentimentalità assieme. Le feste essi spremevano, assieme con il canto, il suono del pianoforte e i racconti delle favole, le ultime gocce del loro sentimentalismo.
Quando Diederich cominciò a dubitare dell’esistenza del bambino Gesù si lasciò persuadere dalla mamma a crederci ancora un poco e con questo egli si sentì buono, alleggerito, fidente. Anche a un fantasma, su del castello, egli credeva e il padre, che non ne voleva sentir parlare, gli sembrava troppo superbo, cocciuto, quasi degno di punizione. La madre lo nutriva di favole. Essa gli comunicò la sua paura delle nuove rotaie del tram a cavalli e lo condusse fuori le mura, al castello, dove godettero assieme un piacevole terrore.
Quando Diederich svoltava l’angolo di via Meise doveva sempre passare davanti a un poliziotto che avrebbe potuto, volendo, condurlo in carcere. Il cuore gli batteva fortemente ed egli avrebbe così volontieri fatto un giro al largo! Ma forse il poliziotto avrebbe riconosciuto la sua cattiva coscienza e l’avrebbe arrestato... Era più prudente dimostrarsi puro e innocente. E Diederich, con voce tremante, andava e chieder l’ora al poliziotto...
Dopo tante terribili potenze alle quali bisognava sottomettersi, dopo la tartaruga delle favole, il padre, il padre eterno, lo spettro del castello, la polizia, lo spazzacamino che poteva tirar su e giù un ragazzo per la cappa finchè non fosse anch’esso tutto nero, dopo il dottore che poteva spennellargli la gola e scuoterlo se gridava, dopo tutte queste oscure potenze, Diederich cadde in mano della più terribile, di quella che inghiottiva addirittura la gente: la scuola. Diederich vi entrò urlando e anche le risposte che sapeva non potè darle perchè sentiva il bisogno di seguitare a urlare. Però a un tratto imparò a piangere solamente quando non sapeva la lezione – perchè la paura non lo rendeva nè più diligente nè meno sognante, e questo suo sistema gli risparmiò – fin quando i maestri non l’ebbero capito – parecchi dispiaceri.
Il primo insegnante che s’accorse del trucco si guadagnò tutto il rispetto del ragazzo. Diederich lo guardò con stupore e terrore di sopra il braccio nel quale nascondeva la faccia e smise di colpo di piangere; e da allora gli rimase timidamente devoto. Sempre egli rimaneva devoto agli insegnanti più furbi e più severi. Agli insegnanti bonari egli giocava dei piccoli tiri difficilmente scopribili dei quali non si vantava. Egli parlava con soddisfazione dei cattivi punti delle pagelle. A tavola annunziava: «Oggi l’insegnante Behnke ha punito con il bastone [1] tre ragazzi». E quando si domandava: «Chi?», rispondeva: «Uno ero io».
Perchè Diederich era fatto così; egli era superbo di quella potenza, di quella fredda potenza che lo faceva soffrire e capiva che il suo tutto, il suo io diventava un qualcosa di impersonale di fronte a quell’organismo meccanico, incurante degli uomini e inflessibile che era il ginnasio.
L’onomastico dell’ordinario si coronò di fiori la cattedra e le panche.
Diederich coronò di fiori anche il bastone.
Nel corso degli anni due catastrofi, capitate tra capo e collo a due potenti, lo resero felice; gli dettero una specie di dolcissimo brivido. Un sostituto venne tirato giù dalla cattedra dal direttore e licenziato su due piedi. Un insegnante impazzì. Due nuove grandi potenze, più grandi di quelle con le quali egli aveva fatto conoscenza sinora, erano dunque comparse: il direttore e il manicomio. La Potenza che lo stritolava nel suo ingranaggio, Diederich la rappresentava di rimbalzo di fronte alle sue due piccole sorelle. Esse dovevan scrivere sotto la sua dettatura e fare più errori che potessero, così egli imperversava con l’inchiostro rosso ed impartiva punizioni crudeli. Le piccole strillavano e allora era la sua volta d’umiliarsi perchè esse non ricorressero ai genitori.
Egli non aveva del resto bisogno di creature per scimmiottare i potenti ed esercitare su qualcuno la sua autorità; gli bastavan le bestie, persino le cose. Egli si metteva davanti alle ruote della macchina olandese che inghiottiva gli stracci e gridava a ogni straccio che era preso nell’ingranaggio: «Ecco; tu hai avuto la tua parte!»... e dai suoi occhi pallidi sprizzavano lampi. A un tratto trasaliva e cascava quasi nel bagno di cloro perchè il passo d’un operaio lo aveva sorpreso nel suo piacere vizioso.
Poichè, veramente a posto e sicuro del fatto suo, egli si sentiva soltanto quando le bastonate le pigliava lui. Non resisteva quasi mai. Al massimo pregava: «non sulle spalle; può far male alla salute».
E ciò non perchè egli mancasse del senso del suo diritto e dei suo vantaggio; no, ma egli riteneva che le bastonate che pigliava facessero poco danno a lui e non portassero nessun profitto al bastonatore.
Molto più sul serio di questi valori ideali egli pigliava il bicchier di birra che il capo cameriere del «Netziger Hof» gli aveva promesso da tempo e che non riusciva mai a ottenere. Diederich fece innumerevoli passi per ammonire il suo giovane amico in frack. Quando però questi un giorno tentò di negare il suo debito, allora Diederich dichiarò indignato, battendo i piedi: «Adesso ne ho abbastanza e se non viene il bicchier di birra vado a dirlo al padrone». Allora Schorsch rise e gli portò il bicchier di birra. Questo era un buon successo palpabile.
Disgraziatamente Diederich potè berla solo in fretta e preoccupato perchè c’era da temere che Wolfgang Buck, che aspettava sulla porta e ne pretendeva una metà, si decidesse ad entrare nel locale. Per ciò egli ebbe appena il tempo di pulirsi la spuma dalla bocca e venne sulla porta a tempestare contro Schorsch che era un imbroglione e non voleva dare la birra. Il suo senso di giustizia che s’era fatto valere davanti al cameriere taceva davanti al compagno, compagno che non si poteva ritenere trascurabile perchè aveva un padre che era tale personaggio da incutere veramente rispetto. Il vecchio signor Buck non portava colletto inamidato, ma, al posto di quello, una cravatta alla militare, di seta e, sulla cravatta, una barba bianca, grande. Come egli posava il suo bastone dal pomo d’oro lentamente e maestosamente sul selciato! Ed egli portava un cilindro e sotto i suoi pastrani spuntavano talvolta punte di frack in pieno giorno! Poichè egli andava sempre a riunioni e si curava di tutta la città. Del Bagno, delle Carceri, di tutto ciò che era pubblico, Diederich pensava: appartiene al signor Buck! Egli doveva essere enormemente ricco e potente.
Tutti, anche il signor Hetzling, si scoprivano davanti a lui lungamente. Togliere dunque a suo figlio qualcosa con la forza sarebbe stato un atto che poteva avere conseguenze incalcolabili. Per non essere completamente schiacciato dalle grandi potenze che Diederich temeva tanto, bisognava procedere piano e furbescamente.
Una volta sola, era allora in Terza [2], egli scordò ogni riguardo e fu oppressore ebbro di vittoria. Egli aveva picchiato, come era costume di tutti, l’unico ebreo della classe. Ma a un tratto, come preso da una febbre, inscenò una insolita manifestazione. Costruì sulla cattedra, con grossi pezzi di gesso che servivano a disegnare, una croce, prese il piccolo ebreo e lo costrinse a inginocchiarsi davanti al simbolo; e ve lo tenne fermo nonostante ogni resistenza. Egli era forte! Quello che lo faceva forte era l’applauso che scrosciava intorno, era la folla le cui braccia sembravano aiutarlo, era la strapotente maggioranza che si metteva dalla sua. Perchè per mezzo suo operava tutta la cristianità di Netzig. Come ci si sente bene quando la responsabilità è condivisa e quando si ha la coscienza di una colpa che è collettiva!
Subito dopo il trionfo, però, egli ebbe un leggero timore, ma la prima faccia d’insegnante che incontrò gli ridette tutto il suo coraggio; era piena di benevolenza impacciata. Altri gli manifestarono apertamente la loro approvazione. Diederich sorrise con timida comprensione. Da allora la vita al Ginnasio gli diventò più facile. Tutta la classe onorava Diederich che era adesso nelle grazie dell’Ordinario. Sotto di lui Diederich fu persino il primus della classe e fu elevato alla dignità di ispettore segreto. La seconda di queste cariche onorifiche mantenne poi anche più tardi. Egli era buon amico di tutti, rideva con i compagni quando parlava dei loro tiri birboni, rideva con un riso cordiale da giovanotto serio, di quelli che compatiscono ogni leggerezza. Poi, nella pausa, quando egli presentava il Libro della classe al professore, riferiva. Riferiva i nomignoli che gli studenti appioppavano ai professori e i discorsi di ribellione. Nella sua voce tremava, quando egli li riferiva, la stessa paurosa voluttà che aveva provato ascoltandoli con cigli abbassati.