I.-2

2025 Words
Poichè egli provava, pure, obbedendo ai potenti, una specie di soddisfazione viziosa quando si cospirava contro di loro, una commozione, una specie d’odio nascosto che si saziava con due o tre piccoli morsi occulti. Denunziando gli altri egli puniva questi suoi sentimenti colpevoli. D’altra parte egli non provava contro i condiscepoli nessuna antipatia; si considerava come l’esecutore di una dura necessità. Dopo averli denunziati, egli compiangeva quasi sinceramente i puniti. Una volta, con il suo aiuto, se ne scoperse uno che era da tempo sospettato di copiare tutti i compiti. Diederich, per incarico dell’insegnante, gli lasciò copiare la soluzione di un problema di matematica che dava un risultato giusto, ma, nel mezzo, era sbagliata. La sera stessa della punizione del ragazzo caduto nel tranello egli sedeva con il già punito e altri compagni nel giardino di una birreria – cosa permessa agli alunni anziani dopo la ginnastica. Cantavano. Dopo bevuto, egli lasciò cadere la destra sulla spalla del compagno e intonò con voce di basso piena di sentimento, guardandolo negli occhi, la vecchia canzone studentesca: … io avevo un camerata, uno migliore non c’è in tutto il mondo. Egli soddisfaceva a scuola al bisogno di tutte le materie senza sorpassare mai i limiti del richiesto e ignorava tutto quello che non era nei compiti. Il tedesco era per lui la materia più indigesta e per chi eccelleva in lingua egli aveva sempre una specie di diffidenza inspiegabile. Appena arrivato alla Prima la sua carriera sembrò assicurata e i professori e il padre cominciarono a pensare di fargli continuare gli studi. Il vecchio Hetzling, che era passato nel ’66 e nel ’71 sotto l’arco di trionfo della porta di Brandeburgo, mandò Diederich a Berlino. Siccome egli non osava allontanarsi dalla Friedrichstrasse, cercò una camera mobigliata in via Tieck. Così bastava che andasse, uscendo di casa, sempre dritto e s’imbatteva nell’università. Egli andava, non avendo altro da fare, all’università due volte al giorno e, negli intervalli, spesso piangeva per la nostalgia. Egli scrisse una lettera al padre e alla madre ringraziandoli per la sua fanciullezza felice. Senza bisogno urgente non usciva mai di casa. Osava appena mangiare; temeva che il danaro non gli bastasse sino alla fine del mese. E sempre si tastava nella tasca per paura d’aver perso il portafogli. Sebbene si sentisse così sconsolatamente solo, egli non si decideva mai ad andare dal signor Göppel a portare la lettera di suo padre che teneva sempre in saccoccia. Il signor Göppel era di Netzig, fabbricava la cellulosa e la forniva anche al signor Hetzling. Solo la quarta domenica egli riuscì a vincere la sua paura e non appena quell’omino rosso, curvo, che egli aveva visto tante volte, da bambino, nell’ufficio del padre, gli venne incontro vacillando, egli si meravigliava già d’aver avuto timore, di non esser venuto prima. Il signor Göppel domandò subito di tutta Netzig e sopratutto del vecchio Buck. Perchè sebbene adesso anche la sua barba fosse grigia, anch’egli aveva avuto per il vecchio Buck, come Diederich, ma forse, a quanto sembrava, per altre ragioni, il massimo rispetto. — Quello era un uomo! Giù il cappello, davanti a lui! Uno di quelli che il popolo tedesco dovrebbe idolatrare, molto più di altri che volevan curare tutto con il sangue e il ferro e presentavano poi alla nazione liste favolose. Il vecchio Buck aveva fatto il quarantotto, ed era stato condannato a morte. — Sì, se noi possiamo adesso essere qui come uomini liberi – disse Göppel – noi lo dobbiamo agli uomini della tempra di Buck! E stappò un’altra hottiglia di birra, — Oggi dobbiamo lasciarci pestare dagli stivaloni dei corazzieri... Il signor Göppel si dichiarava progressista e avversario di Bismarck. Diederich approvava tutto quello che voleva il signor Göppel; egli non aveva intorno al cancelliere, alla libertà, al giovane imperatore nessuna opinione. A un tratto però fu penosamente commosso perchè entrò una giovinetta che subito, al primo sguardo, gli sembrò spaventosa di bellezza e d’eleganza. — Mia figlia Agnese – disse il signor Göppel. Diederich stette lì impalato, magro cadetto, nella sua redingote piena di pieghe; arrossendo. La giovinetta gli dette la mano. Ella voleva essere gentile, ma con lui non c’era niente da fare... Diederich rispose di sì quando ella domandò se Berlino gli piaceva e, quando ella chiese se era già stato a teatro, di no. Egli si sentiva umido di malessere e capiva che la sua fuga sarebbe stata la sola cosa con la quale avrebbe potuto destare un qualche interesse nella ragazza. Ma come si faceva a scappare? Per fortuna si presentò un terzo, un certo Mahlmann, dalle spalle larghissime, che parlava il dialetto del Meklenburg con una voce terribile, che era studente d’ingegneria e pigionante del signor Göppel. Questi ricordò alla signorina Agnese una passeggiata che dovevan fare assieme. Diederich fu pregato di unirsi a loro. Terrorizzato, egli parlò d’un conoscente che lo aspettava fuori e scappò. «Dio sia lodato!» pensava, e nello stesso tempo sentiva una fitta al cuore: «Dio sia lodato! ce n’ha già uno». Il signor Göppel gli aperse la porta all’oscuro e gli domandò se il suo amico conosceva già Berlino. Diederich mentì assicurando che l’amico era berlinese. — Perchè se non conoscete Berlino nessuno dei due, finirete per sbagliare omnibus; scommetto che lei s’è già smarrito a Berlino. E quando Diederich lo ammise, il signor Göppel si mostrò soddisfatto. — Qui non siamo a Netzig, qui si può camminare una mezza giornata... Quando lei dalla sua via Tieck viene fin qui e prosegue fino alla porta di Halle, ha già traversato tre volte Netzig... Già; ma domenica al più tardi venga da noi a cena. Diederich promise. Egli si sarebbe scusato, ma aveva timore di suo padre; andò. E questa volta gli toccò persino di restar solo con la signorina. Diederich si dette l’aria dell’uomo affaccendato e finse di non preoccuparsi nient’affatto di quel rimanere da solo a solo con lei. Ella voleva ricominciare a parlare di teatro, ma egli tagliò corto con voce rude. Egli non aveva tempo per certe cose. Ella ricordò: — Ah! sì, papà mi ha detto che lei studia chimica! — Sì; e questa è la sola scienza che abbia diritto d’esistere! – opinò Diederich senza sapere il perchè. La signorina lasciò cadere la borsetta: egli si curvò tanto indolentemente che ella fu più svelta di lui a riprenderla. Ciò non ostante ringraziò con una voce tenera, quasi vergognosa, che indispettì Diederich. — Le ragazze civette – pensò – son qualcosa di orribile. Essa cercò nella borsetta. — Adesso ho perso – disse – il mio taffettà inglese; – sanguina di nuovo!... E si ravvolse un dito nel fazzoletto. Il dito aveva una tale bianchezza di neve che Diederich pensò che il sangue che ne spicciava dovesse venir poi riassorbito. — Io ne ho – diss’egli rapidamente. E afferrò il dito e prima ancora ch’essa avesse il tempo di rasciugare il sangue, egli aveva già posto il nuovo taffettà. — Ma cosa fa? Egli stesso, subito dopo, s’era spaventato. Ma disse con i sopraccigli severamente aggrottati: — Oh! io, come chimico, faccio altro che questo!... La ragazza sorrise. — Ah! già: è vero, lei è una specie di dottore... difatti l’ha messo bene. E lo guardò. — Così!... – disse egli, e si ritrasse freddo. Aveva abbrividito. Pensò: – Purchè non si debba toccarle la pelle!... è meravigliosamente tenera. Agnese lo guardò di sbieco. Dopo una pausa ella provò: — Non abbiamo, a Netzig, parenti comuni? E lo costrinse a passare in rivista due o tre famiglie. Si scopersero cugini. — Lei ha ancora sua madre, non è vero? Ne sia felice! La mia è morta da tempo. Anch’io morirò presto... ho dei presentimenti... E sorrise dolorosamente, quasi scusandosi. Diederich decise, tacendo, di trovare sciocco un tale sentimentalismo. Ancora una pausa. E quando stavano per riprincipiare a discorrere s’intromise il meklenburghese. Strinse la mano a Diederich con tanta forza che questi fece una smorfia di dolore. L’altro gli sorrideva vittoriosamente. Senza por tempo in mezzo tirò una seggiola vicino alle ginocchia di Agnese e domandò allegramente e con autorità un mare di cose che interessavano soltanto lor due. Diederich, abbandonato a se stesso, osservò che Agnese, considerata tranquillamente, non era poi così terribile. Bella, veramente, non era... Aveva un naso troppo breve sulla cui sommità veramente c’erano dei brufolini. Gli occhi giallobruni eran troppo vicini l’uno all’altro e battevano se ella guardava fisso. Le labbra erano troppo sottili, tutta la faccia era troppo sottile. «Se non avesse tanti capelli rossi sulla fronte e se non fosse così bianca»... Gli faceva anche piacere che l’unghia del dito ch’egli aveva curato non fosse del tutto pulita. Il signor Göppel arrivò con le sue sorelle. Una di queste aveva con sè il marito e i bambini. Il padre e le zie abbracciarono e baciarono Agnese. Lo fecero con affetto e nello stesso tempo con riguardo. La giovinetta era più snella e più alta di loro e dall’alto le guardava un po’ distrattamente. Solo al bacio del padre rispose lentamente e seriamente. Diederich la guardò mentre baciava il babbo e vide un sole nelle vene azzurre chiare delle tempie ombrate dai capelli rosso-bruni. Egli dovette accompagnare una delle zie nella sala da pranzo. Il meklenburghese aveva preso il braccio di Agnese. Sulla tavola domenicale facevan bella mostra tovaglie e tovaglioli da festa d’un lucore di seta. Le redingotes furono raccolte sulle ginocchia. Si raspò sotto la tavola; gli uomini si stropicciarono le mani. Poi venne la minestra. Diederich sedeva molto lontano da Agnese e non avrebbe potuto vederla altro che chinandosi. Cosa che egli evitava accuratamente di fare. Siccome la sua vicina lo lasciava in pace, egli mangiò dell’arrosto di vitello e del cavolo fiore in quantità. Egli sentiva parlare diffusamente delle vivande e dovette lodare la cucina del signor Göppel. Agnese venne avvertita di non mangiare insalata, le fu consigliato il vino rosso, le fu chiesto se la mattina, uscendo, s’era messe le galoches. Il signor Göppel, volto a Diederich, raccontò che egli poco fa, Dio sa come, in Friedrichstrasse, aveva perduto le sue sorelle e che s’eran trovati solo all’omnibus. — Una cosa simile, a voi, a Netzig, non può capitare – diss’egli con orgoglio traverso la tavola. Mahlmann e Agnese parlarono d’un concerto. Ella voleva andarci assolutamente, il papà glielo avrebbe permesso. Il signor Göppel s’oppose dolcemente e il coro delle zie lo approvò. Agnese doveva coricarsi presto e alzarsi per tempo e andare a respirare l’aria pura. Ella si difese. — Voi non mi lasciate mai uscir di casa; siete terribili. Diederich, intimamente, prese partito per lei. Egli era in un momento d’eroismo; avrebbe voluto interporsi perchè ella potesse fare tutto quello che voleva, perchè fosse felice e ne fosse grata a lui... E il signor Göppel gli domandò se anche lui voleva andare al concerto. — Io non so – diss’egli con disprezzo, e guardò Agnese che s’era chinata per vederlo – che concerto è? Io vado solo a quei concerti dove si può bere della birra. — Ciò è ragionevole – disse il cognato del signor Göppel. Agnese s’era ritirata indietro e Diederich era pentito della sua affermazione. Ma la crema che tutti aspettavano con impazienza non veniva. ll signor Göppel consigliò alla figlia d’andare a vedere. Prima che ella avesse scostato la seggiola, Diederich era saltato in piedi – la sua seggiola cadde contro il muro – ed andava con passo svelto verso la porta. — Maria! la crema! – chiamò. Rosso e senza osare di guardare in faccia nessuno, tornò al suo posto. Ma notò che tutti ammiccavano. Mahlmann soffiò persino ironicamente. Il cognato disse con artificiosa semplicità: — Sempre galante! Così bisogna essere. Il signor Göppel sorrise gentilmente ad Agnese che non alzò il capo dal suo piatto di composta di frutta. Diederich spingeva le ginocchia contro i piedi della tavola che incominciò a tremare, — Dio, Dio, non l’avessi mai fatto. Alle frutta [3] dette la mano a tutti; quella d’Agnese la evitò girando attorno. Nel fumoir scelse con grande abilità il suo posto in un angolo dove lo nascondevano le larghissime spalle di Mahlmann. Una delle zie si impadronì di lui.
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