6

1586 Words
6C’era in Antonia qualcosa che la rendeva diversa dalle altre persone. Era come se a lei importasse poco di vivere o morire. La mattina di maggio era fresca e ventosa e Antonia, seduta davanti alla porta d’ingresso, guardava una fila di nere formiche arrancare disciplinatamente verso una crepa dello scalino. Aspettava Gavino ma sentiva che non sarebbe arrivato. Non quella mattina, almeno! Fra una settimana, dopo la rapina a Mignanego, sarebbero partiti tutti: Nadia e Fabio per la Colombia, Piero per Berlino e lei per Parigi. – Qui non possiamo più stare – aveva detto Gavino quando aveva illustrato il suo piano e lei aveva annuito con aria stanca. Dentro di sé sapeva che sarebbe stato un addio definitivo e si domandava il senso di quella fuga. Nessuno sembrava interessarsi a loro, e allora perché scappare? Piero aveva trovato dei nuovi passaporti. A Parigi lei si sarebbe chiamata Angela Martino. La Cassa di Risparmio di Mignanego si trovava sulla statale dei Giovi in un edificio di sette piani costruito come una vergogna in mezzo a un gruppo di casette del primo novecento. Da qualche parte, lì vicino, scorreva un torrente e proprio davanti alla banca, dall’altro lato della strada, c’era una vecchia osteria con i tavoli di legno e il pergolato d’uva americana. Quando arrivò l’auto guidata da Antonia l’osteria doveva ancora aprire. Erano le nove e quaranta di un tranquillo venerdì di maggio, il 28 per la precisione. Il cielo era profondamente azzurro e la statale deserta. – Ci siamo. – Antonia spense il motore e trasse un lungo respiro. – Ci siamo – ripeté. Fabio e Nadia uscirono dalla macchina con aria tranquilla. Nadia indossava pantaloni neri, una camicetta bianca e una tracolla di pelle; Fabio era in jeans e Lacoste azzurra e portava una ventiquattro ore. Entrambi avevano un aspetto sereno e dignitoso. Fabio si era messo un paio di occhiali da vista, con le lenti spesse, i capelli biondi di Nadia erano nascosti da una parrucca castana. Quando entrarono, Antonia avviò nuovamente il motore e fece manovra. Il suo orologio segnava le nove e quarantadue minuti. Pensò: non doveva succedere. E subito dopo: perché è successo? Gli occhi di Antonia si posarono sullo specchietto retrovisore e su Nadia che cercava di tamponarsi la ferita alla spalla. Le mani imbrattate di sangue, gli occhi che diventavano sempre più liquidi, la parrucca di traverso. Pensò ancora: ha bisogno di un dottore. Ma non lo disse. Preoccupata fissò la macchia rossa che continuava ad allargarsi. – Mettiti il mio giubbotto jeans, sistemati i capelli. – Ma... – Non discutere, Nadia. Da dove mi viene tutta questa sicurezza? Da dove mi viene? – Cazzo, cazzo, cazzo! – Fabio batté i pugni sul cruscotto. In piena crisi isterica, lo sguardo appannato dalla paura, le spalle scosse da un tremito incontrollato. – Stai bene, Fabio? – Sto di merda, ecco come sto! – Datti una calmata, eh? – A disagio Antonia si domandò come avesse fatto un tempo a trovarlo “carino”. “Un amante carino”. Era successo a Marengo una sera che lei aveva un po’ bevuto e Piero, come al solito, era in giro. E poi c’erano state altre volte naturalmente. Giù al fiume, un pomeriggio che pioveva, una volta che si era fatta di erba ed era stato un brutto sballo e Fabio era lì, disponibile come sempre. Merda!, pensò Antonia. Guidava con il busto leggermente proteso in avanti, le mani che stringevano forte il volante. Aveva caldo ma non osava aprire il finestrino. Ora era fondamentale abbandonare quella strada, arrivare al più presto alla deviazione per Serra. Accelerò, ma poco, perché in lontananza si intravedevano delle case. – Doveva essere un colpo sicuro. Dovevano esserci solo due impiegate. Ma che cazzo! – disse Fabio. La sua Lacoste aveva un alone di sudore sotto le ascelle. Antonia fece una smorfia. – La vuoi piantare? Se stiamo calmi andrà tutto bene, nessuno ci segue e la strada è sicura. – Sicura, dici? Sarà. – Fra cinque chilometri c’è la deviazione, e che cazzo Fabio! – gli occhi di Antonia si posarono nuovamente sullo specchietto retrovisore. Nadia aveva su il suo giubbotto jeans che cominciava già a scurirsi sulla spalla. Cristo!, pensò. Cercò di sorridere, cercò di allontanare la paura. – Come va? – È solo una ferita superficiale – balbettò Nadia. – Esce molto sangue, però. Fabio prendi un fazzoletto, ce ne dovrebbero essere nel cruscotto. Cerca di tamponarle la ferita. Ora la strada costeggiava il nucleo di case e Antonia per prudenza rallentò. Una donna stava stendendo i panni, due cani si rincorrevano nel cortile, il cielo continuava ad essere miracolosamente azzurro e privo di nubi. La macchina si lasciò le case alle spalle e lei respirò di sollievo. – Doveva essere un colpo sicuro e invece guarda in che casino siamo – tornò a dire Fabio con voce chioccia. Aveva le mani piene di fazzolettini di carta. – E questi dove cazzo li metto? – Ci deve essere un sacchetto da qualche parte. – L’odore del sangue ricordava ad Antonia quello del rame bagnato. Si protese verso Fabio alla ricerca di una borsina di plastica. – Ecco, prendi. Da dove mi viene tutta questa sicurezza? Da dove mi viene? Mise la freccia e furono nella provinciale. Al di là degli alberi, ma ancora abbastanza lontane, si scorgevano le ciminiere della SANAC e lo svincolo autostradale di Bolzaneto. – Portiamo Nadia da un dottore? – Niente dottore. Per oggi basta con le fregature. – Nadia sanguina un casino, però. Non possiamo andare da nessuna parte con lei in queste condizioni. Cristo di un bel dio! – La vuoi fare finita? Nadia non sta morendo. Quando arriviamo a casa la medico io. – Antonia era preoccupata, davvero preoccupata ragazzi miei!, che al casello ci fosse un posto di blocco. La strada normale, la strada normale è più sicura. E all’improvviso, senza nessun motivo apparente, le venne in mente Paolino e subito dopo Emma. Le parve addirittura di vederli, fermi ai bordi della strada come due viandanti d’altri tempi. Va’ che scema!, pensò. Quando arrivarono alla Crocetta dovettero prendere in braccio Nadia perché non si reggeva in piedi. – Ho sentito la notizia alla radio – continuava a ripetere Piero. – Non parlano d’altro! – Gavino si è fatto vivo? – Non ancora. Nadia si era ripresa, tuttavia aveva perduto molto sangue e Antonia incominciava a preoccuparsi. Disse a Piero di lavare bene la macchina prima di disfarsene. – Antonia ha sanguinato tantissimo... Bisogna stare attenti. Molto. Lasciare la macchina a Recco, precisamente davanti ai bagni comunali, era stata un’idea di Gavino ma ora Antonia non era più sicura di niente. E se lungo il tragitto la stradale avesse fermato Piero per un controllo? S’impose la calma e incominciò a pulire la ferita. Senza quasi rendersene conto si scoprì a dare ordini. – La macchina non la portiamo a Recco, è troppo distante. La lasciamo in corso Europa. Andrai tu Piero, da solo, appena avrai finito di pulire i sedili e di togliere tutte le impronte. Lasci la macchina dall’autostrada e poi torni in autobus. – E Gavino? – È lui che deve mettersi in contatto con noi – rispose Antonia con voce dura. Anche Gavino seppe della tentata rapina da una radio locale. Erano le dieci del mattino e lui stava facendo ginnastica in un piccolo spazio ricavato nella camera da letto. Quando non abitava alla Crocetta viveva in un bilocale del centro storico. Libri e opuscoli rivoluzionari impilati sulla libreria artigianale, stuoie buttate sul pavimento sconnesso, il poster del Che sopra il letto. Gavino pensava che fosse una copertura stereotipata e di maniera, ma Grande aveva voluto così e lui non si era opposto. “Apriamo il notiziario con la tentata rapina alla Cassa di Risparmio di Mignanego...”. Gavino s’interruppe nel bel mezzo di una flessione. “Nella sparatoria sembra sia rimasta ferita una donna...”. Gavino alzò il volume. “Un altro complice aspettava in macchina, una 127 blu”. – Era grigia la fottuta macchina – disse Gavino. “La guardia giurata, Angelo Tonon, è ancora sotto shock...”. Una guardia giurata non rientrava nei piani, anche se... – Grandioso – disse Gavino a voce alta. – Davvero grandioso. Quando uscì di casa erano le due del pomeriggio. Era la fine di maggio e la città era immersa in una luce irreale, azzurra e dorata, come si vede talvolta in qualche quadro impressionista. Un fresco piacevole sulla pelle, un senso di benessere. Gavino comprò un panino e lo mangiò camminando. Da qualche parte, comunque abbastanza vicino, Lucio Battisti cantava I giardini di marzo. Gavino si sentiva benissimo. Pensò: sto da re, sul serio! Diede un ultimo morso al panino, si pulì la bocca con il dorso della mano. Sbucò nel sole e nel traffico di piazza De Ferrari con l’idea che era arrivato a una svolta della sua vita. Si tuffò nella vastità della piazza alla ricerca di un telefono. Il colonnello Grande rispose quasi subito. – Ci siamo – disse Gavino facendo saltare tra le mani un gettone. Sto da re, sul serio. – Siamo pronti, Francesco – annunciò Grande a Colasanti. – Quando possono incominciare i tuoi uomini? – Anche subito – rispose Colasanti. Grande scosse la testa. – Aspettiamo alcuni giorni – suggerì. – E nel frattempo intensifichiamo la sorveglianza. – Fissò Colasanti e aggiunse – E naturalmente la massima discrezione. Colasanti fece mostra di non aver capito. – I miei uomini sono pronti da tempo – ripeté duramente. Pensò: quella cabina telefonica pare uscita da un film d’Antonioni. Piantata nel deserto d’asfalto della strada panoramica, circondata da un nulla fatto di sterpaglie e strapiombi mozzafiato. Qualche albero ogni tanto, molti cespugli d’erica. Quella sera una luna enorme, bianchissima e vagamente maligna, illuminava la cabina di una luce sfacciata. Gavino pensò che stava sfidando un po’ troppo la sorte, ma dopo tutto quella era la sua giornata fortunata. La sua mano scivolò veloce verso il calcio della Beretta, si fermò un attimo in una carezza rassicurante. Quasi intima. Gavino avrebbe preferito di gran lunga stringere la sua Colt, ma non voleva lasciare in giro nulla di sé. Nulla!
Free reading for new users
Scan code to download app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Writer
  • chap_listContents
  • likeADD