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Lo sciamano

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Blurb

Gli Scuri abitano la valle di Obsidian dall’alba dei tempi, praticando la loro magia in armonia con la natura, parlando con il vento e raccogliendo l’Ambra Sacra, una sostanza magica e preziosa. È a causa dell’Ambra Sacra che il potente esercito di Assiat invade la vallata, imprigionando i suoi abitanti. Sybil è tra i conquistatori, ma non è come gli altri. Vede la bellezza e la dignità degli sconfitti, in particolar modo di Zenith, il bellissimo cantore del vento che suo padre ha riscattato. Il loro sarà un incontro tra due diverse razze e culture, reso difficile dalle circostanze. Un incontro di menti e di corpi, nella sensuale cornice di una valle antica come il mondo...

-

"«Il vento... in che modo il vento ti attraversa?» chiesi.

Zenith inclinò la testa da un lato, impassibile come un grosso corvo. «Mmh... qua, nella pancia».

Mi prese le mani e le posò sul suo stomaco. La sua pelle era calda per via del sole, ma non era sudata. Inspirò ed emise di nuovo una nota bassa, musicale, vibrante. Sentii la vibrazione sotto alle dita, come il veloce battito d’ali di un uccello. «Il... diaframma?» chiesi.

Zenith lasciò sfumare la nota. Allontanai le mani un po’ a malincuore, perché...

Cercai di non arrossire, mentre mi rendevo conto di quanto avessi trovato gradevole il contatto con la sua pelle, il calore del suo corpo, quella sua vibrazione interna e la consistenza della muscolatura del suo torace.

«Dia-fram-ma» ripeté lui, completamente all’oscuro della mia confusione. «Una sorta di membrana, proprio qua in mezzo. Si chiama diaframma nella vostra lingua, quindi».

Annuii, cercando di ricompormi nonostante Zenith non si fosse accorto di nulla. «Sì, è... mh, l’ho sentito vibrare, penso. È una tecnica trascendentale, vero? Una magia, se vogliamo».

«Se vogliamo, sì»."

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1.-1
1. Quando entrammo nella Valle di Obsidian per la prima volta, lo facemmo da conquistatori. I nostri soldati incendiarono le piattaforme sopraelevate degli Scuri e le loro Reti del Tempo vennero squarciate. Obsidian si arrampicava su entrambe le pareti di uno stretto canyon, sulla roccia rossastra dei Picchi Gemelli, composta da costruzioni eleganti, leggere, di legno di rovo, vimini e bambù. Le Reti del Tempo erano in alto e si confondevano con il cielo azzurro cupo. Era una terra dai colori forti, Obsidian. Il rosso delle pareti del canyon, il blu-verdastro del Rio Cupo, che schiumeggiava giù in basso, l’oro dell’Ambra Sacra, che li aveva destinati alla perdizione. Quando la squadriglia mia e di mio padre entrò in città i massacri erano già terminati. Gli Scuri erano stati uccisi o ridotti in schiavitù, le loro case (quelle sopravvissute) depredate. E tutta l’Ambra Sacra disponibile era già stata razziata e immagazzinata per essere portata ad Assiat. A mio padre venne offerta una grande residenza nella città alta, su un cornicione di roccia che senza montacarichi sarebbe stato inaccessibile. Accettò l’offerta, ma sapevo che non ne era felice. Era una casa strana e bellissima. Il vento tiepido soffiava tra le pareti di legno sottile giorno e notte, rifrescando l’ambiente e creando una sorta di costante, dolce mormorio. «Ricordavo questo suono dalla mia prima visita» disse mio padre Eot Malachian, quando glielo feci notare. «Non è cambiato molto, tranne il fatto che ora tutti quelli che ho conosciuto un tempo saranno morti o saranno stati fatti schiavi». Sapevo che aveva un atteggiamento ambivalente nei confronti della nostra conquista di Obsidian. Da un lato l’aveva progettata insieme agli altri strateghi, per volere della Gilda, dall’altro non gli sembrava giusto spazzare via la saggezza e le tradizioni di una razza antica come quella degli Scuri. Anche se Scuri era come li chiamavamo noi, per via del loro aspetto. Loro, tra di loro, si definivano Aellis, il Popolo Volante. Quello che i miei connazionali stavano facendo al Popolo Volante era privo di pietà e di discernimento – o così sosteneva mio padre. Non ne ebbi le prove fino a un paio di giorni più tardi. Ormai sistemati nella nostra nuova dimora, fummo invitati a quello che ci venne presentato come una via di mezzo tra uno spettacolo e un mercato. Era presente tutta l’elite militare del contingente assattiano, gli strateghi avvolti nelle loro vesti color piombo, i generali nelle divise beige, i maghi nelle palandrane di colori evocativi e cupi. Gli Scuri catturati vennero fatti sfilare incatenati per il collo, in fila, nudi. Quest’ultimo dettaglio, mi spiegò mio padre, non era dovuto alla volontà di umiliarli. Normalmente gli Scuri non portavano vestiti, a causa del calore secco della loro città verticale o semplicemente per tradizione. Ammetto che di primo acchito mi sembrarono tutti uguali. Riuscivo a distinguere facilmente gli uomini dalle donne e i vecchi dai giovani, ma i loro visi mi sembravano tutti lo stesso viso dai tratti spigolosi ma regolari. Erano tutti alti e snelli, con le spalle larghe e i fianchi stretti. Le donne avevano seni piccoli, acerbi, e i capelli bianchi molto lunghi, acconciati in trecce sottili. Anche i maschi portavano i capelli lunghi, ma solo fino a metà schiena, e le loro acconciature erano più disordinate e complesse. Quello che davvero rendeva gli Scuri diversi da noi era il colore della pelle, nero ossidiana, e la fila di piccole penne che gli ornava le spalle. In quanto al resto, erano uguali agli esseri umani, compreso nelle parti intime. Li fecero sfilare e io mi sentii piccola davanti alla loro dignità e alla loro indifferenza. Sembravano giudicarci troppo in basso persino per disprezzarci. E d’altronde, eravamo stati noi a invadere la loro valle senza preavviso per saccheggiare le loro ricchezze. I loro occhi blu sembravano dirci che avevamo solo quello: la forza delle armi. «Qual è lo scopo di questa esibizione?» chiesi a mio padre, quando li fecero passare davanti a noi per la seconda volta. Mio padre mi rivolse uno sguardo inespressivo. «Forse mostrarci gli ultimi esponenti di una razza quasi del tutto decimata. Esemplari che presto saranno rari, animali in via di estinzione». «Animali» ripetei, adattandomi al suo tono di voce basso, poco più di un sussurro. «È così che li consideriamo?». «Certamente. Non sono esseri umani» rispose lui, con amaro sarcasmo. «Quindi è per questo che vengono usati come bestie da monta? Mi chiedo se farebbero lo stesso con un asino o con un macaco». Mio padre non rispose. Evidentemente non ne vedeva il motivo. «E ce li stanno mostrando per metterli in vendita, ovviamente» aggiunse, alzando un braccio. I prigionieri vennero fatti fermare tirando la loro catena. «Il terzo della fila» disse mio padre, in tono stentoreo. «La settima e la nona. Li reclamo». Ci fu un certo brusio. Neanch’io sapevo se mio padre potesse permettersi di reclamare tre dei prigionieri, e per primo. I generali confabularono tra loro e parvero decidere che gli conveniva non scontentarlo. Sapevo benissimo che sul suo conto giravano molte voci: che fosse vicino alla Gilda, che ad Assiat avesse molti sostenitori... erano quasi tutte vere tutte vere, e di certo mio padre lasciava che si diffondessero, fornendogli protezione politica. Gli vennero assegnati i prigionieri che aveva chiesto. Vennero staccati dalle catene e legati di nuovo a lunghi guinzagli dalle maglie d’oro, la cui impugnatura venne consegnata a lui. Quegli esseri ci guardarono con visi inespressivi, mentre li conducevamo via lungo le passerelle di legno, fino al montacarichi che ci avrebbe riportati all’abitazione a noi assegnata. «Chandra allet» disse mio padre, quando fummo sul montacarichi, sganciando le catene dai loro collari. «Allet armit» rispose una delle donne. Se fossero state umane avrei detto che avevano circa trent’anni, mentre il maschio poteva essere di poco più anziano. Ma non sapevo in che modo invecchiassero gli Scuri. Le due donne, lo confesso, per me erano irriconoscibili l’una dall’altra. «Che cosa gli hai detto?» chiesi a mio padre. Il montacarichi saliva lentamente verso la nostra residenza e i tre prigionieri, sebbene li avesse liberati, non si erano mossi. «Ho porto loro i miei rispetti. I rispetti di un nemico. Non sono sicuro che fossero le parole giuste, ma credo che la risposta indicasse che non erano troppo sbagliate». «Non troppo sbagliate, no» disse il maschio del gruppo, addolcendo tutte le consonanti con un forte accento. Mio padre lo scrutò attentamente. «Quindi parli la mia lingua. Bene, questo semplificherà le cose. Non qua, comunque». L’altro non rispose. Si limitò a guardare il canyon illuminato dalle luci delle case con in viso uno struggimento che traspariva nonostante l’immobilità dei suoi lineamenti. Ci seguirono all’interno. Maya, la governante, guardò con timore e un certo disgusto gli Scuri nudi che portavamo con noi. Varte, il valletto, sembrò invece modestamente interessato. Ci fermammo nel corridoio principale. «Vi vorrete lavare» disse mio padre. «Forse desiderate degli abiti» aggiunse. L’uomo tradusse per le altre due, che evidentemente non parlavano la nostra lingua. «Sì, grazie» disse poi. «Sei gentile, straniero». «Il mio nome è Eot Malachian, sono uno stratega. Questa è mia figlia Sybil, che mi accompagna per imparare. Più tardi parleremo». «Il mio nome è Zenith. Le mie sorelle Serna e Vrei. Sì, parleremo dopo» convenne. +++ Mentre aspettavamo che ci raggiungessero tempestai mio padre di domande. Eravamo in un piccolo salottino dalle pareti di vimini, seduti su basse sedie di bambù coperte di cuscini colorati. L’aria tiepida della sera filtrava da mille fessure, accarezzando la nostra pelle e producendo quel curioso rumore simile a una melodia. Dall’apertura sottile su una delle pareti potevo vedere il versante opposto della valle, con le case la cui luce traspariva dalle fessure, come fossero scatole illuminate all’interno. «In che senso li hai liberati? Perché hai offerto loro dei vestiti? Tu sai che cosa mangiano? Non dovremmo nutrirli?». Mio padre mi fece segno di attendere. «Parleremo del loro status alla loro presenza. In quanto ai vestiti, il Popolo Volante non li usa, è vero, ma noi sì. Quando sono stato qua la prima volta ho rinunciato ai miei per adeguarmi alle loro usanze, ritengo che ora siano loro a volersi adeguare alle nostre». Detto questo ordinò a Varte di portare della frutta, giacché era sicuro che non avrebbero mangiato nient’altro, finché non avessero potuto fidarsi di noi. I tre prigionieri arrivarono dopo circa mezz’ora, silenziosi e impassibili. L’uomo indossava dei pantaloni color ocra e nient’altro, le due donne dei vestiti lunghi, uno bianco e uno verde. Nessuno dei tre portava le scarpe. «Prego, accomodatevi» disse mio padre. I tre si sedettero in silenzio su tre basse sedie di vimini, incrociando le gambe alle caviglie. Trovavo molto elegante il loro modo di muoversi e lievemente inquietanti i loro volti inespressivi. «Speravo che foste fratelli» continuò mio padre, quando si furono seduti. «Avete senza dubbio già subito molte perdite». Il maschio, Zenith, tradusse per le sue sorelle. Una delle due, quella con l’abito verde, disse qualcosa nella sua lingua melodiosa. «Vrei ti ringrazia, Eot Malachian. Sì, molti nostri familiari sono periti». Pronunciò attentamente quest’ultima parola, come se non fosse del tutto sicuro della sua pronuncia. «Qualcuno è stato imprigionato, oltre a voi?». «Il marito di Serna» rispose Zenith, impassibile. «E la covata di Serna si dischiuderà mentre lei non c’è». Mio padre inarcò le sopracciglia. Non doveva essere meno perplesso di me, nonostante fosse già stato a Obsidian in passato. «Covata?» chiese. Zenith sbatté lentamente le palpebre, forse perplesso a sua volta. «I loro bambini. Le uova si schiuderanno a giorni, sul nel grembo della montagna». «Oh, déi...» mormorò mio padre. Si rivolse alla donna con l’abito bianco. «Posso mandare qualcuno a prenderle o devi essere tu a farlo?». Il fratello tradusse per lei e Serna sembrò trovare divertente quello che sentiva, perché emise una risata confusa. «Dice mia sorella che sono solo uova. Chiunque può prenderle. Se è troppo presto le coverà. Ti spiegherà come riconoscere le sue». Ero assolutamente attonita, ma cercai di non farlo trasparire. Quindi quegli esseri deponevano delle uova, come gli uccelli. Doveva essere un lascito della loro natura ancestrale, dei tempi in cui ancora volavano. Mio padre annuì. «Domattina manderò qualcuno a prenderle, con discrezione. In quanto a suo marito, non sono sicuro di poter fare molto». Di nuovo Zenith tradusse e, poco dopo, riferì la risposta di sua sorella: «Aspetterà». I suoi occhi blu, dal bianco candido, tornarono a posarsi su mio padre. «Che cosa ti aspetti da noi, Eot?». Lui si strinse nelle spalle. «Niente. Vi ho liberati. Lasciate che vi spieghi la mia posizione. Faccio parte dell’esercito invasore. Ho aiutato a pianificare e mettere in pratica la presa di Obsidian, ma non ritengo che sia stata una soluzione lungimirante... né onorevole. Il vostro popolo non ci ha mai attaccati. E tuttavia, se la Gilda mi ordina qualcosa, io obbedisco. La mia fedeltà va al mio paese anche quando non sono d’accordo con le sue decisioni». Lo Scuro annuì lentamente. Tradusse. «Capisco. Quindi possiamo lasciare questo nido, se lo vogliamo?». «Naturalmente. Oppure potete restare, come nostri pari». Per un istante Zenith parve irritato, ma subito dopo la sua espressione tornò alla consueta maschera stoica. «Non come pari. Non abbiamo più nulla. Possiamo rimanere accettando la tua carità». Mentre parlava mi resi conto che aveva anche la lingua nera, oltre che le labbra, mentre i denti erano bianchissimi. Ero felice che quei tre si fossero vestiti, almeno non correvo il rischio che lo sguardo continuasse a cadermi sui dettagli più intimi dei loro corpi. I capezzoli, per esempio. Quelli di Zenith era piccoli e neri come il resto della sua pelle, due piccoli nodi sul torace snello e muscoloso. I capelli bianchi gli ricadevano sulle spalle e sulla fila di piccole piume nere, intrecciati in un’acconciatura elaborata. «Riceverò una lauta porzione del bottino di guerra» gli fece notare mio padre. «Sono ricchezze che appartenevano al tuo popolo. Non la definirei carità, quanto un rimborso». Zenith inarcò le sopracciglia bianche e sottili. «Non sono d’accordo. Il vento del Tempo soffia sempre, tutto cambia, quel che è stato è stato. Ma prendo atto del tuo punto di vista e accetterò il tuo aiuto, se sarai così gentile da darmelo». Disse qualcosa alle sue sorelle nella sua lingua. «E anche loro» aggiunse. «Mi chiedo perché sei così diverso dai tuoi compatrioti». Mio padre si strise nelle spalle. La sua barba dorata formava un lucido vello sul suo torace, mentre parlava. «Vedi, sono stato qua, molti anni addietro. Sono rimasto affascinato dalle vostre usanze e dalle vostre tradizioni. Avrei voluto poter rimanere per conoscerli meglio. Ora sono di nuovo qua, un invasore, eppure sono ancora curioso e ancora vorrei conoscere meglio il vostro popolo. Ma, prego, mangiate... mi sono dimenticato di dirlo». Zenith fu veloce a prendere un’arancia. Per la prima volta mi sembrò umano, perché il suo distacco si sbriciolò completamente, mentre la mordeva e la mangiava con tutta la buccia.

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