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Il marito in affitto

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Sul volantino dice: “Mike Reed, marito in affitto”, ed elenca tutte le piccole riparazioni che Mike può fare in casa tua, dall’aggiustarti il lavandino a falciarti il prato. Quello che non dice è che Mike Reed è un vero e proprio splendore, uno che potrebbe fare il modello in una pubblicità di profumi, e che è pure alla mano e simpatico. Quindi dov’è il trucco? Alina lo chiama per una riparazione e poi si trova ad assoldarlo davvero come marito in affitto, o meglio, come fidanzato a una riunione di ex compagni di classe. Mike si comporta in modo perfetto e c’è anche un interludio romantico che Alina non avrebbe mai osato immaginare. È così bello, perché dovrebbe piacerle lei? Proprio lei, con la sua famiglia ingombrante, asfissiante e messicana. Lei che non potrebbe mai fare la modella, nemmeno per una pubblicità di aspirapolveri. Lei che lotta con problemi banali come i concorrenti sul lavoro e non con problemi grossi come quelli di Mike. Perché Mike è splendido, è vero, ma è tutto finto. Una volta scoperta la verità, non c’è più motivo di essere in soggezione. Ma, Alina, aspetta un attimo... sei davvero sicura di aver scoperto la verità?--CONTIENE SCENE ESPLICITE--Quando la luce del lampione mi mostrò in ogni dettaglio l’inconfutabile splendore di Mike Reed, per un istante meditai di non farlo entrare.Ma non potevo aprire il rubinetto centrale dell’acqua senza allagare la cucina e il mattino seguente avrei avuto bisogno di farmi una doccia: mi ordinai di essere pragmatica.Venti secondi più tardi mr. Reed saliva con passo elastico i due gradini che portavano alla mia porta. Aveva una t-shirt bianca che non nascondeva i deltoidi definiti, un gilet da pescatore aperto che lasciava intuire la pancia piatta, e dei jeans non troppo aderenti che non impedivano di vedere che le sue gambe erano snelle, lunghe, muscolose nei punti giusti. Ma la cosa che ti fregava davvero era la faccia. Era uno di quei mori che in realtà sono biondo-scurissimo. Le sopracciglia scure, ad ala di gabbiano. Qualche ruga d’espressione accanto agli occhi, azzurro-grigio. E a dare un tocco ancora più da rivista di moda, entrambe le braccia erano tatuate a partire dal polso, tatuaggi giapponesi con carpe, draghi e crisantemi. Bei tatuaggi che dovevano essergli costati un sacco di soldi.«Mike Reed, il tuttofare che ha chiamato» mi disse, tendendomi la mano.Sorrise, un sorriso aperto e amichevole.Indovinate? Aveva i denti dritti, bianchi, perfetti.

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1 Alina Adesso Il volantino l’avevo trovato sotto i tergicristalli della macchina una sera all’uscita dal lavoro. “Mike Reed, marito in affitto”. Sul retro elencava tutti i piccoli servizi che Mike, lì, poteva fare a casa della gente: risolvere semplici problemi idraulici, stuccare, pitturare, riparare oggetti, portare via mobili o montarne di nuovi, cambiare avvolgibili, falciare prati... tutte quelle cose di cui, in una società tradizionale che grazie al cielo non esisteva più, si sarebbe dovuto occupare un marito. Della maggior parte di quelle cose, per la verità, me ne occupavo io. Perché un marito non lo avevo, certo, ma anche perché erano perfettamente alla mia portata. Mi chiamo Alina Suarez, ho trentadue anni e sono un’agente immobiliare. So usare un trapano, un cacciavite e una pinza. Il prato me lo falcio da sola (anche se non abbastanza spesso) e, se necessario, stucco, carteggio e dipingo. Ma i lavandini rotti non li so aggiustare. Il volantino del marito in affitto lo buttai nel porta-oggetti della macchina e me ne dimenticai. Tornai a casa e trovai un’email del gruppo delle superiori. Andavamo per email, non per w******p, perché non ci parlavamo davvero. Ma una volta all’anno facevamo una riunione e prendevamo la faccenda molto sul serio, non so neppure perché. Pensate che io salivo addirittura su un aereo per tornare a Lafayette, cenare con loro e ripartire il giorno dopo. Non ero neanche l’unica. Mary Ann veniva da Seattle tutte le volte e almeno altri tre ex-compagni e compagne si facevano lunghi tragitti in macchina per la riunione. Eravamo uniti, ma, specialmente, eravamo competitivi, lo ammetto. Volevamo controllare quanto gli altri se la fossero cavata peggio o meglio di noi nella vita. Quella sera guardai l’elenco dei partecipanti (non mancava nessuno) e dei loro ospiti. Ero l’unica a non essere accompagnata. Persino Marla, l’altra single impenitente, quest’anno veniva con qualcuno. Indispettita, scrissi che anch’io avevo un +1. Avrei chiesto a Marvin di accompagnarmi, semplice. L’avrebbe fatto, ne ero sicura. Potevo fingere di essere fidanzata con Marvin, per una serata. Non sembrava molto gay. Non so proprio che cavolo avevo in mente. Anche la cena mi uscì presto dalla mente. D’altronde mancavano ancora due settimane. Chiesi a Marvin se poteva far finta di essere il mio ragazzo, lui si scompisciò dal ridere e disse okay. Non ne parlammo più. Quella domenica andai a pranzo dai miei genitori, un incubo a cui non riuscivo a sottrarmi, anche perché mia madre cucina benissimo. In pratica mi tenevano avvinta a loro con le fajitas. Il pranzo in quanto tale andò piuttosto bene. Tra tutti i difetti della mia famiglia d’origine, nessuno ti colpevolizza se mangi troppo. Semmai il contrario. Ma dopo pranzo mia madre attaccò con la solita solfa, aiutata per l’occasione da mia zia Jovita. «Allora, Nitita, mi cielo, questa settimana abbiamo conosciuto qualcuno?». “Nitita” sarei sempre io. Alina, Alinita, Nita, Nitita. I messicani amano i vezzeggiativi e i vezzeggiativi dei vezzeggiativi. In quanto a mia zia Jovita, era ancora più invadente di mia madre. Mia madre, comunque, ne approfittò per sospirare in modo drammatico e scuotere la testa. «Lavora sempre» borbottò. «Chi vuoi che conosca?». «A parte il fatto che il mio è un lavoro a contatto col pubblico» specificai, inacidita, «come ho già detto e ripetuto, trovare un partner stabile non è tra le mie priorità». Con quello “stabile” speravo di scandalizzarle, lo ammetto, ma ovviamente le stavo sottovalutando. «Ma mi vida, alla tua età puoi avere tutte le avventure che vuoi, ma non sarà mai come trovare un uomo perbene e mettere su famiglia...» «Anche perché le avventure di una notte mica te le potrei permettere in eterno. A un certo punto per quelle cose lì gli uomini cercano ragazze più giovani...» rincarò mia madre. «Guarda invece Robertita» mia cugina, ventiquattro anni, «che ha trovato un bravo ragazzo e sta già pensando al matrimonio...» In un certo senso, quel paragone privo di tatto mi salvò, perché mia zia Jovita non vedeva l’ora di gongolare per il buon partito che aveva trovato la sua bambina. «Oh, forse per parlare di matrimonio è presto» si schermì. «Ma davvero?». «In realtà penso proprio che glielo stia per chiedere! Robertita è così raggiante!». Che cosa ci fosse da essere felici all’idea di sposarsi con un ragazzetto coi capelli unti e l’abitudine di indossare camicie di satin dai colori sgargianti non lo sapevo, ma era chiaro che per mia madre e mia zia era la fine del mondo. In realtà a me Enrique non piaceva e non ero per niente sicura che Roberta facesse bene a frequentarlo, ma guai se l’avessi detto. Mi avrebbero accusato di essere invidiosa e di non riuscire a essere felice per la mia cuginetta più brava di me. Approfittai della loro distrazione per svignarmela, tanto le fajitas le avevo già mangiate. Tra tutte le scemenze che diceva mia madre, comunque, almeno una piccola verità c’era: il lavoro all’agenzia immobiliare mi assorbiva molto. Mi ero messa in proprio da tre anni e le cose andavano in modo decente, ma meno bene di quello che avrei voluto. Avevo troppo personale, ma senza personale il fatturato sarebbe diminuito, era logico. Per stare bene avrei dovuto rinunciare a mezzo agente o mezza segretaria. Intendiamoci, c’era un modo per avere mezzo agente: passarne uno in part-time. Ma non me la sentivo. Quindi cercavo di lavorare il più possibile, in modo da alzare il fatturato. Per tutta la settimana seguente alla convocazione via email mi feci dodici ore al giorno, senza mollare per mezzo minuto. Per come la vedo io, se trovi il modo giusto per proporre un immobile, vendere è inevitabile. La persona che è venuta da te ha bisogno di una casa, okay? Non è come cercare di rifilare un nuovo, inutile, servizio a qualcuno che ne ha già uno più che passabile. Devi capire con precisione che cosa vuole il tuo cliente e a che cosa non saprà resistere. Ero brava a farlo e anche una dei miei agenti lo era. Daria era fenomenale. Hector, d’altronde, poteva migliorare. Nella nostra zona la concorrenza non era fortissima. C’erano diverse agenzie di gruppi immobiliari – gente che non ci metteva l’anima – e un’altra indipendente, quella di Charles Romano. Lui era un osso duro, ma per il momento riuscivamo a convivere. Insomma, cinque giorni prima della rimpatriata, non pensavo alla cena. Non pensavo neppure al marito in affitto. Poi, nella stessa, tragica, giornata si ruppe sia il mio lavandino, sia il mio migliore amico. Del lavandino mi accorsi poco dopo essere tornata a casa. C’era una pozza d’acqua sul pavimento. Aprendo l’antina, vidi che sul fondo c’erano un paio di centimetri d’acqua e tutti i detersivi che tenevo lì avevano le scatole fradice. Imprecai. Chiusi il rubinetto centrale ed esaminai il tubo. Non vidi nulla di speciale, ma era chiaro che l’acqua veniva di lì. Tolsi tutti i detersivi, asciugai il pavimento e il fondo dello stipetto. Riaprii il rubinetto centrale. Okay, c’era una perdita che non sapevo come fermare. Chiusi di nuovo il rubinetto centrale. Mi tornò in mente il marito in affitto, Mike Qualcosa. Recuperai il volantino dal portaoggetti della macchina e lo chiamai. Erano le otto di sera; speravo che non fosse troppo tardi. Mike Reed mi rispose quasi subito. Gli spiegai il problema e lui mi chiese se fosse urgente. «Non posso usare l’acqua!» ribattei io, un po’ piccata. Lui emise una risata amichevole. «Eh già. Mi dia una mezz’ora. Vengo a vedere se posso farci qualcosa». Lo ringraziai, ora dolce come il miele. Avrei voluto tanto farmi una doccia, ma c’era sempre il solito problema, ero senz’acqua. Mi sedetti davanti alla TV e aspettai che arrivasse il mio salvatore. Venticinque minuti più tardi qualcuno suonò alla porta d’ingresso. Casa mia è una villetta circondata da qualche metro di giardino. Il mio marito in affitto era dritto davanti al cancello, con una grossa valigetta degli attrezzi in mano. Il lampione sulla strada lo illuminava benissimo, purtroppo. Lasciatemi fare una piccola digressione. Con i ragazzi ho sempre avuto un sacco di problemi, fin dalle superiori. E non sono per niente spigliata come cercavo di far credere a mia madre e mia zia. Non sono brutta, ma ho sempre puntato troppo in alto. Involontariamente, capite? Cerco di spiegarmi meglio. Sono una tizia normale, diciamo. Il mio viso può definirsi quasi-carino e ho dei capelli folti, lucidi e scuri. Fin qua tutto bene. Non ho tette, quasi per niente, e ho i fianchi troppo larghi. Non sono grassa, ma se le mie cosce fossero un po’ meno polpose e la mia figura un po’ più longilinea sarei molto felice. Invece no, la mia struttura fisica è a fiasco di vino. Fin da ragazza quelli che mi trovavano carina erano esemplari maschili del mio stesso tipo. Non brutti, ma neppure stellari. Piacevo a quelli con l’apparecchio e i brufoli, poi a quelli un po’ troppo bassi, poi a quelli che a trent’anni avevano già perso tutti i capelli... avete presente. Io, invece, prendevo sempre delle sbandate colossali per i belli&impossibili. Mi vergognavo quasi, non avrei voluto essere così superficiale. Ma gli unici di cui mi infatuavo – intendo da un punto di vista sentimentale – erano ragazzi che sembravano usciti da qualche pubblicità. Uomini che non mi filavano di striscio, per cui ero completamente invisibile. Era normale. Era nell’ordine delle cose. Per lo più i belli finiscono con i belli, i carini con i carini, i bruttini con i bruttini e così via. A meno che uno dei due non sia strepitosamente ricco, ma comunque non avrei certamente voluto quel tipo di relazione. Insomma, più o meno tutta la mia vita adulta era stata costellata di rifiuti da parte del bello di turno – rifiuti quasi mai espliciti, perché avevo imparato presto a non dichiarare il mio interesse e a soffrire in silenzio. Avevo anche iniziato a cercare di evitare gli uomini troppo belli. Preferivo non averci nulla a che fare, se solo potevo. Per esempio, non avrei mai assunto un figo come agente, per quanti clienti in più mi portasse. Quella sera, quindi, quando la luce del lampione mi mostrò in ogni dettaglio l’inconfutabile splendore di Mike Reed, per un istante meditai di non farlo entrare. Ma non potevo aprire il rubinetto centrale dell’acqua senza allagare la cucina e il mattino seguente avrei avuto bisogno di farmi una doccia: mi ordinai di essere pragmatica. Venti secondi più tardi mr. Reed saliva con passo elastico i due gradini che portavano alla mia porta. Aveva una t-shirt bianca che non nascondeva i deltoidi definiti, un gilet da pescatore aperto che lasciava intuire la pancia piatta, e dei jeans non troppo aderenti che non impedivano di vedere che le sue gambe erano snelle, lunghe, muscolose nei punti giusti. Ma la cosa che ti fregava davvero era la faccia. Era uno di quei mori che in realtà sono biondo-scurissimo. I peli della barba erano più chiari dei capelli, che comunque avevano dei riflessi rossicci. Le sopracciglia scure, ad ala di gabbiano. Qualche ruga d’espressione accanto agli occhi, azzurro-grigio. E a dare un tocco ancora più da rivista di moda, entrambe le braccia erano tatuate a partire dal polso, tatuaggi giapponesi con carpe, draghi e crisantemi. Bei tatuaggi che dovevano essergli costati un sacco di soldi. «Mike Reed, il tuttofare che ha chiamato» mi disse, tendendomi la mano. Sorrise, un sorriso aperto e amichevole. Indovinate? Aveva i denti dritti, bianchi, perfetti. Feci entrare quel concentrato di desiderabilità maschile con un sospiro rassegnato. Ovviamente io avevo addosso il completo che avevo portato tutto il giorno, la faccia stanca e il trucco ormai sbiadito. «Appena apro l’acqua quel tubo inizia a perdere» spiegai. «Ho dato un’occhiata: di buchi non ce ne sono». Mike si accucciò davanti all’anta aperta e tirò fuori da una tasca del gilet una torcia a penna. Illuminò meglio il tubo. «No, infatti. Ma la guarnizione si è staccata, vede?». Emisi un suono vago. Più che altro vedevo le sue spalle. «Con il tempo si induriscono e si rompono. Cioè, può succedere. Suppongo che voglia sapere se posso metterne una nuova». «Già» non mi sbilanciai, io. Si voltò a metà per lanciarmi un sorriso divertito. «È naturale. Ce l’ha un catino?». La domanda mi fece arrossire. Forse ho dimenticato di dire che, quando ero costretta a interagire con un figo spaventoso, mi comportavo come un’idiota. Sempre. «Uhm, sì» ammisi, alla fine. Mi voltai di scatto e andai a cercare il catino. Mi ripetei: forza, Alina, non è difficile. Vedrai che ci metterà pochissimo. Gli portai un catino. Purtroppo Mike si era tolto il gilet da pescatore, così ora la sua t-shirt bianca non nascondeva neppure i pettorali. «Come diavolo è possibile che faccia il tuttofare? Dovrebbe lavorare nella moda». Mi accorsi di averlo detto ad alta voce quando ormai, tragicamente, lo avevo fatto. Chiusi gli occhi e pregai il buon Dio di colpirmi con un fulmine e mettere così fine al mio imbarazzo. «L’ho detto davvero, eh? Mi scusi» sospirai, con voce debole. Nel frattempo continuavo a tendergli il catino. C’era qualcuno di più patetico di me, in tutto il mondo? Il perfettissimo Mike Reed ridacchiò e prese il catino. «Non è mica la prima. Ma ormai sono vecchio. Però tra un paio di settimane comincio in un ceramificio, quindi non sarò un tuttofare ancora per molto». «Un ceramificio?». Ficcò il catino sotto il tubo. «Una fabbrica di ceramica. Mattonelle, vasi, soprammobili... roba del genere». «Uhm, sì». E sapevo che cosa fosse un ceramificio, solo che purtroppo in sua presenza ero idiota. Niente di nuovo. Prese una chiave dalla valigetta e iniziò a svitare il tubo. Gli guardai il sedere, ma poi mi vergognai di me stessa e andai a girellare un po’ più in là. Pensai di offrirgli qualcosa da bere. Riuscii a non farlo. Non sarebbe sembrata gentilezza, sarebbe sembrato un approccio. E non volevo. Giuro che non volevo assolutamente fare amicizia con lui. Volevo solo comportarmi normalmente e che se ne andasse al più presto. Per fortuna iniziò a squillare il telefono. «Scusi» borbottai, recuperando il cellulare dal tavolo. Risposi. «Marv?». «Sono appena tornato dal pronto soccorso» disse lui, in tono cupo. «Eh? Stai bene?». Domanda scema, lo so. «Cioè, che cosa ti è successo?». «Sto malissimo, veramente. Mi sono rotto una gamba. Alla mia età». Sbattei le palpebre. «Hai un anno più di me. Che cosa c’entra?». «Me la sono rotta cadendo in bici». Non trattenni un sorriso. «Ma davvero? Dio, mi dispiace. Ti fa tanto male? Come è successo?». Marvin mi spiegò tutto per filo e per segno. Più volte, in realtà. Era lamentoso e piuttosto drogato, dato che l’avevano imbottito di antidolorifici. «E per quanto tempo dovrai...» Solo in quell’istante mi resi conto dell’orribile verità. « La cena!». «Sì, volevo giusto dirtelo...» «Oh, no! Che disastro orrendo!». «Lo so, Aly, so che ci tenevi un casino...» «Ci tenevo? Ho già detto che sarò con il mio ragazzo!». «Lo capisco. Ma dovrai spiegare che il tuo ragazzo si è rotto la gamba cadendo dalla bici, non ci sono alternative». «Non puoi venire lo stesso?». Marvin mi mise il muso per diversi secondi. «Ti prego. Non ci crederà nessuno, se dico che il mio ragazzo si è rotto la gamba andando in bici». «Puoi farmi una foto». Sospirai. «Sì, come no. È patetico. Penseranno che mi sono inventata tutto». Marvin diede un colpetto di tosse. « Okay, mi sono inventata tutto, è vero, ma il punto sarebbe proprio quello: non dovevano accorgersene. Ora come faccio a...» Qualcuno mi picchiettò su una spalla e io quasi feci cadere il telefono. «Mi scusi. Dovrebbe aprire il rubinetto centrale». «Che infarto». Presi fiato. «Certo, lo apro subito». Andai verso il corridoio. «E questo chi era? Brutta zozzona, ho sentito una voce maschile! Io sono qua con una gamba rotta e tu...» «Era il marito in affitto» lo bloccai. Aprii quel cacchio di rubinetto. «Cioè, in che senso... hai chiamato uno gigolò?». Mi misi a ridere. «No, idiota! Non l’hai mai sentito dire? Significa “tuttofare”. Perché ai bei tempi d’oro erano lavoretti che facevano i mariti, no?». «Non ne ho idea. Dalle mie parti li hanno sempre fatti i portieri». «Quanto sei snob...» «Chiedilo a lui. Chiedigli se, già che è in affitto, non può accompagnarti alla cena con le tue ex-arpie...» «Non sono ex, fidati. Arpie lo sono ancora. E anche qualche arpio o come si dice. È una cosa terribile. Non posso nemmeno dare forfait. Penseranno che ho litigato con il mio ragazzo e che non mi sono presentata per non doverlo ammettere». Marvin emise un sospiro poderoso. «Non ti è mai venuta l’idea di avere un rapporto un po’ inquietante con i tuoi compagni del liceo?». Incrocia le braccia. «È possibile. Che cosa c’entra? Continua a mancarmi un fidanzato per la cena. Non hai un amico?». «Alina». Mi massaggiai gli occhi. «No, okay. Lo capisco. Troverò una soluzione. Tu cerca di sopravvivere alla nottata, domani ti vengo a portare beni di prima necessità». «Sei buona». «Lo so». Chiusi la chiamata e guardai Mike il Figo. Ero così concentrata sulla mia sfortuna che riuscii persino a non arrossire a non fare qualche altra figuraccia. «Non perde più?». «Nossignora. Era la guarnizione». Annuii, distratta. «Grazie mille. Quanto le devo?». «Trenta dollari. Se vuole lo faccio io». Sbattei le palpebre. «Eh?». Si grattò la nuca. Sembrava in imbarazzo. «Il finto fidanzato. Sono un po’ a corto, per così dire. Per cinquanta sacchi lo faccio io». Lo fissai, senza parole. «Posso nascondere i tatuaggi». «Vado a una riunione di ex compagni di classe, non a un raduno di mormoni». Sorrise. «Anche meglio. Quanto potrà essere difficile? O le serve, che ne so, una figura professionale ben precisa?». «Non avevo assunto uno gigolò!». E due. Dovevo avere tutto attorno un’aura di disperazione visibile a occhio nudo. Lui rise. «Non intendevo quello. Ma magari le serve un fidanzato ingegnere. In quel caso no, non sarei una gran scelta. Ma se le serve un fidanzato generico...» Socchiusi gli occhi, meditando. Le mie ex compagne di scuola sarebbero schiattate di invidia... «Non è così semplice. La riunione è a Lafayette. Quindi dovremmo prendere un aereo, andare alla cena e poi fermarci lì una notte. Ovviamente tutte le spese le pagherei io, ma perderebbe comunque un giorno e mezzo per cinquanta dollari». Ci pensai un secondo. «Ma posso arrivare anche a cento». Lasciò vagare lo sguardo sul soffitto, forse calcolando i pro e i contro. «Per me è okay» disse, alla fine. «Tanto non mi chiamano molto spesso per lavoretti vari. Invece quelli sarebbero cento dollari sicuri. E poi non sono mai stato a Lafayette, Indiana». «Non c’è molto da vedere» ammisi. Lui si strinse nelle spalle. «Non si sa mai».

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