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Giochi di ombre

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Blurb

Jean, un tempo perdigiorno, è la più giovane degli immortali. Per questo motivo gli uomini che vogliono carpire il segreto della sua razza non sanno niente di lei: un’occasione unica per avvicinarsi con l’inganno alla loro organizzazione. Jean riesce a conoscere e a sedurre il loro direttore, ma ci sono altri giocatori, in questo gioco d’ombre. I primi nemici degli Osservatori, infatti, sono esseri longevi quanto gli immortali, ma notturni e sanguinari... Per di più il creatore di Jean, Gilles, è lontano, forse morto, forse semplicemente disperato. Jean dovrà stare molto attenta e dovrà imparare a non avere pietà, se vuole rivederlo.

CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

--

Un anno e mezzo, e non gli era ancora passata. Glenn Cooper pensava che in un’altra vita quella donna l’avrebbe sposata solo per potersela portare a letto tutti i giorni. Così come stavano le cose... se la scopava più o meno una volta alla settimana, e non andava poi male.

Questo pensiero fu così chiaro che Jean lo sentì dal pianerottolo, mentre lui saliva in ascensore. Per lei era stato un anno e mezzo... frustrante. Cooper la adorava, ma si sbottonava pochissimo. Quello che aveva scoperto l’aveva già riferito ad Ari e agli altri, ma non era molto. Non era abbastanza.

Ed erano quasi due anni che non vedeva Gilles.

Si rendeva conto che amarlo così tanto era stupido. Erano stati insieme poco più di un mese, quasi due anni prima. Solo che lo amava e gli mancava follemente.

Glenn scese dall’ascensore e le andò incontro. «Ciao, amore» le disse.

La chiamava così, “amore” e Jean lo trovava tra il ridicolo e il patetico. Anche se, in un certo senso, provava della comprensione umana, nei suoi confronti.

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1. Aeroporto internazionale di Washington-Dulles, USA, marzo 2010. Il volo di Jean aveva quaranta minuti di ritardo. Visto che non c’era nessuno ad aspettarla in aeroporto, non aveva davvero importanza. Recuperò il suo bagaglio a mano e aspettò pazientemente che gli altri passeggeri si spostassero lentamente verso le uscite. Per una volta, viaggiava leggera. Aveva il suo passaporto dai molti timbri e una sacca con dentro l’indispensabile. Aveva un obbiettivo e una storia di copertura. Aveva tutto il tempo del mondo. Non le serviva un bagaglio più grande. Una volta nella sezione arrivi dell’aeroporto prese un taxi per DC. Per molti anni Jean si era mossa solo con i mezzi pubblici, attenta a non spendere troppo. Aveva viaggiato per il mondo con i soldi del suo ex-marito, ma non aveva viaggiato nel lusso. Ora non aveva più bisogno di risparmiare. Le era stato aperto un nuovo conto, in Svizzera, tutt’altro che misero. Poteva focalizzarsi sul suo obbiettivo senza nessun’altra preoccupazione. Il suo obbiettivo era la EM&T Chemical, una piccola e oscura casa di produzione di reagenti chimici. Il collegamento più sicuro che quelli della sua nuova razza avevano trovato con gli esseri umani che avevano cercato di catturarli (e ci erano anche riusciti). Jean era disposta a spendere tutto il tempo necessario per infiltrarsi in qualche modo in quella società. Aveva diversi assi nella manica. Una buona copertura economica. Un background americano impeccabile (in quanto reale). Tutto il tempo del mondo. Non era più un essere umano. Era rinata con il nuovo decennio. Ma non era in giro da secoli come quelli a cui la EM&T Chemical dava la caccia. Era invisibile. Nessuno sapeva di lei (nessuno di vivo). Inoltre, per la prima volta nella sua vita, era pronta a lottare. Washington DC, USA, luglio 2010. Il Marie era uno dei nuovi club aperti su U Street. Prima di ritornare negli Stati Uniti, Jean non aveva avuto una buona opinione di DC. Se la ricordava come un posto duro, pieno di parassiti del Congresso e di criminalità. Ma negli ultimi anni doveva essere cambiata in meglio, tutto considerato. C’era vita notturna, in Adams Morgan. Un sacco di nuovi locali, pieni di trenta-quarantenni in carriera. Bar e night, ristoranti e jazz club. Carino. Jean aveva trascinato al Marie John Miles e Dean Brown, due dei suoi amici conosciuti da poco. Entrambi ricercatori alla Georgetown University, l’avevano soccorsa mentre lei fingeva di voler frequentare da auditrice dei corsi di antropologia culturale. Il loro aiuto non era completamente disinteressato, ma a Jean non importava. I loro pensieri le arrivavano come un canto lontano e sentiva che non avevano cattive intenzioni, solo una libido piuttosto ipereccitabile. Quando entrarono il gruppo d’apertura si stava già esibendo sul piccolo palco. La cantante aveva una bella voce, calda e sinuosa, ma la sua band non faceva altro che jazz senza guizzi, di puro intrattenimento. Fu Jean a scegliere il tavolo, senza darlo a vedere. Il Marie era già piuttosto pieno, ma il gruppo che stava puntando lei si era messo in un angolo, rendendo più facile sedersi vicino a loro, visto che erano in uno dei punti meno desiderabili della sala, se volevi seguire il concerto. «Wow» sorrise lei, guardandosi attorno, «DC è davvero combiata». «Be’, non è come Parigi...» offrì John, che cercava di fare il cosmopolita. Aveva studiato in Europa e questo lo faceva sentire un po’ più avanti degli altri. Jean non aveva nessuna intenzione di infierire. «Si difende» sorrise. Mentre gli altri chiacchieravano a sproposito di posti in cui non erano mai stati e decidevano che cosa bere, Jean si focalizzò sul tavolo accanto al loro, il suo vero obbiettivo. Avvicinarsi alla EM&T Chemical era stato piuttosto difficile, tanto che Jean aveva rinunciato a farlo in modo diretto. Era una piccola azienda, almeno all’apparenza, con il personale al completo. Aveva dovuto accantonare l’idea di farsi assumere in qualche ruolo secondario, come segretaria o come assistente. Quindi doveva conoscere qualche dipendente al di fuori dell’ambito lavorativo, per poi avvicinarsi da quel lato. Al tavolo dietro di loro c’erano i tre capi dei reparti sviluppo, il capo dell’ufficio marketing, il vice-direttore e il capo dell’ufficio del personale. I primi tre erano il dottor Mark Everett, la dottoressa Nancy Kyle e il dottor Carter Harrison, i primi due chimici, il terzo biologo. Il vice-direttore era Stacy Hernandez, una bella donna sulla cinquantina, anche lei con una formazione nella chimica organica, ma poi specializzata in politiche aziendali. Erano tutte informazioni facilmente reperibili sul sito della EM&T. Poi c’era il capo del marketing, Jeremy Hewitt. Non era interessante, perché sembrava un elemento periferico dell’azienda. Il capo del personale, Harvey Duchamp, sulla carta, poteva essere a sua volta fuori dalle informazioni importanti, ma era anche divorziato, motivo per cui Jean sperava di riuscire a destare il suo interesse, almeno in quel senso. Nei mesi precedenti li aveva sondati delicatamente con le sue nuove capacità e li aveva tenuti sott’occhio con il particolare “sesto senso” che avevano quelli della sua nuova razza: la risonanza. Nessuno di loro, in realtà, sembrava particolarmente sospetto. «Un Martini Dry» sorrise al cameriere, che finalmente si era presentato per prendere le loro ordinazioni. Riprese a conversare tranquillamente con i propri accompagnatori, senza perdere d’occhio il tavolo EM&T, cercando di capire come attaccare bottone con loro. Purtroppo gli Stati Uniti non erano il migliore dei posti per le conoscenze casuali. Gli americani non erano particolarmente propensi alla socializzazione. Lei era cambiata a forza di girare per il mondo, ma quella era DC e iniziare a parlare con degli sconosciuti non era così facile. Sentì che la sua sedia veniva scontrata piuttosto bruscamente e si voltò di scatto. «Mi scusi» disse un uomo castano, in camicia bianca. «I tavoli sono così vicini, in questo posto...» «Si figuri» sorrise lei. Quello non se l’aspettava. Il tizio che aveva appena scontrato la sua sedia, e che stava salutando le persone sedute al tavolo EM&T, era Glenn Cooper, il nuovo direttore della compagnia. “Nuovo” relativamente, perché era arrivato quasi sei mesi prima. Quarantatre anni, sposato, due figlie adolescenti, aveva un curriculum nel mondo della finanza e poi come amministratore delegato di diverse case farmaceutiche. Profilo internazionale, grossi appoggi politici per via del padre della moglie, il senatore Dyke. La EM&T non sembrava proprio il genere di azienda che potesse interessargli, quindi la sua nomina era abbastanza strana. Jean sbirciò cautamente nei suoi pensieri, ma trovò solo quello che potevi aspettarti a un’uscita tra colleghi: un vago senso di antipatia per qualcuno, di simpatia per qualcun altro... una vaga noia. La sua presenza, tuttavia, rendeva il tavolo EM&T ancora più interessante. Premette delicatamente sui ricordi di Dean per fargli venire il sospetto di conoscere la dottoressa Nyle. In fondo Dean era un antropologo fisico, doveva aver studiato chimica. Nyle aveva una decina d’anni più di lui, ma poteva fargli credere che fosse un’assistente quando lui era uno studente... «Scusate un secondo...» disse Dean, socchiudendo appena gli occhi, «...sono quasi sicuro che quella fosse la mia assistente a chimica organica, quando ero uno studente». Jean si voltò per seguire il suo sguardo, dimostrandosi educatamente interessata. Era incredibile come la mente umana assorbisse i suggerimenti, integrandoli in un contesto plausibile. Dean si alzò e andò al tavolo vicino. Jean lo vide parlare con la donna, che sorrise educatamente e scosse la testa. Dean, a quel punto, si imbarazzò e iniziò a scusarsi a profusione. Jean lasciò vagare lo sguardo sull’altro tavolo. Glenn Cooper la guardava. I suoi pensieri superficiali erano piuttosto semplici da cogliere, ma più in profondità erano torbidi, indistinti, e Jean si rese conto che era una tecnica mentale ben precisa. Molto interessante. «Dai, Dean... se continui così quella signora capirà che sei un pericoloso serial killer e non potremo più assalirla e sbranarla, una volta usciti dal locale» disse. La dottoressa Noyle le lanciò uno sguardo perplesso e poi rise educatamente dello scherzo. Anche Cooper la guardò, ma il suo sguardo non era per niente perplesso. Jean lo guardò a sua volta, per una frazione di secondo. Mmm... che banalità, pensò. Il tallone d’Achille di Cooper era grande come una casa ed erano semplicemente le donne. Gli piaceva scopare in giro e visto che era belloccio probabilmente non aveva nemmeno molti problemi a farlo. «Io posso correre il rischio» disse Cooper, mentre Dean tornava a sedere al suo tavolo. «Solo se mi sbrana lei, però». Ci furono delle risate e anche Jean sorrise, prima di riprendere la conversazione con John. Non aveva più bisogno di fare assolutamente niente. Cooper l’aveva puntata, quindi ora doveva solo lasciarsi prendere senza opporre eccessiva resistenza. Facile. Involontariamente, pensò all’ultima volta in cui aveva visto Gilles, alla fine di febbraio. Erano in Grecia e lei si preparava a partire, facendo qualche lungo giro per essere completamente sicura che nessuno la seguisse. Ma erano stati molto attenti e dopo Leuca erano usciti dai radar dell’organizzazione che voleva strappargli il segreto della loro longevità. Gilles era ancora cupo e ben poco desideroso di prolungare la propria esistenza, ma aveva anche promesso di vendicare i suoi servitori, per cui non avrebbe fatto sciocchezze. O, almeno, era quello che Jean sperava. Per un secondo le mancò con una tale intensità da mozzarle il respiro, poi il momento, lentamente, passò, e lei si preparò ad andare a letto con quello sconosciuto senza colpo ferire. +++ All’uscita del club sia John che Dean si offrirono di dividere il taxi con lei. Jean declinò in entrambi i casi e ognuno di loro pensò che non era la sua giornata. E, in effetti era la giornata di Glenn Cooper. Uscì dal club poco dopo, insieme agli altri, e la vide sul marciapiedi. Si staccò dal gruppo, borbottando un saluto. «Pensavo che stesse uccidendo e divorando qualcuno» disse, in tono divertito. Ma in quella frase, captò Jean, c’era qualcosa più del compiacimento per una battuta. Glenn Cooper aveva un motivo di segreto divertimento, per quella battuta. Sospirò e fece un gesto fatalista con una mano. «Il tassista che devo uccidere e divorare non arriva». «Se le offrissi un passaggio lo considererebbe invadente?» colse la palla al balzo, lui. Jean lo osservò per qualche secondo, come se stesse prendendo una decisione. La sua mente era fatta a strati, vide. Uno strato superficiale, facilmente leggibile, con un pensiero proprio sopra a tutti gli altri: aprirle le gambe e affondarle nella fica. Uno strato intermedio, in cui altri pensieri galleggiavano in secondo piano: dettagli pratici sul suo pied-à-terre di Georgetown e sulla balla da raccontare a sua moglie. Uno strato ancora più profondo, schermato e nebuloso, in cui teneva cose che dovevano restare nascoste. «Dipende» rispose lei, serissima. «Se la sente di correre il rischio di venire ucciso e divorato?». L’immagine mentale del primo strato della mente di Cooper si riconfigurò, diventando quella di Jean che gli ciucciava l’uccello così forte da fargli male. «Sì, se mi promette che prima mi mangerà e poi mi ucciderà» sorrise lui. Le tese la mano. «Glenn Cooper». Lei la strinse: «Jean Heart. Andiamo?». Cooper guidava una Lexus LS grigio antracite, una lunga sedan lucida come una balena appena emersa dall’oceano. Jean si sedette nel posto del passeggero e si allacciò la cintura. Si sistemò i lunghi capelli, tra il biondo scuro e il rosso, su un lato del collo. «Forse hai voglia di andare a bere qualcosa, prima che ti riaccompagni a casa, Jean?» chiese lui, accorciando le distanze. Lei gli rivolse un lieve sorriso. «Forse ho voglia che mi accompagni a casa, prima di bere qualcosa con te» ribatté. Cooper rise sottovoce. «Perfetto». La sua immagine mentale cambiò ancora, mentre decideva che Jean era abbastanza leggera da dargli il culo la prima sera. Si vedeva piantarglielo con forza tra le natiche, mentre lei godeva come una cagna. Jean guardò fuori dal finestrino, vedendo scorrere quella città troppo piatta e per niente simile a Parigi. «Sono stata via troppo tempo, forse. Non sono più un’americana. Ti ho scandalizzato?» chiese. Lui rise. «No. Oh, no. Anch’io sono stato via a lungo. Non sopporto più l’ipocrisia della nostra nazione. Chi sei, Jean?». «Una perdigiorno» rispose lei, tranquilla. «Non ho bisogno di lavorare. Mi piace muovermi». «Be’, sembra fantastico». «E tu chi sei, Glenn? A parte uno che rimorchia possibili assassine cannibali nei locali?». Di nuovo, lui ridacchiò. «L’amministratore delegato di un’azienda chimica. Era un’uscita tra colleghi, quella di stasera, e davo per scontato che mi sarei annoiato a morte». «Un’azienda chimica. Confesso che sembra noioso. Forse sbaglio». Si strinse nelle spalle. «No, non mi interessa, mi dispiace. C’è qualcosa che ti piace? Sai... una cosa che ti appassiona davvero, che davvero ti fa pensare che la vita merita di essere vissuta?». L’altro sbatté lentamente le palpebre. Non si aspettava di dover fare una vera e propria conversazione, quindi la sua domanda l’aveva colto alla sprovvista.

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