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Reboot (Afterlife Online - Vol. I)

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Classificato E per l’Epicità.

Tad Lonnerman sta vivendo una giornata schifosa, bloccato in un traffico schifoso, in ritardo per una riunione schifosa. Il lato positivo è che la sua carriera come sviluppatore di giochi non è affatto schifosa, perciò la vita non è poi così male.

Almeno fino a quando non muore.

Ora Tad si ritrova caricato in un beta test di Haven, un MMO iper coinvolgente e non annunciato, in cui i morti hanno una seconda possibilità di vivere. Non è una realtà virtuale, è una realtà digitale. Un vero e proprio aldilà online.

Solo che Haven non è esattamente un paradiso. Tad si imbatte in una faida sanguinaria con i pagani, incontra angeli caduti e si ritrova a farsi raccontare balle dai santi. I suoi unici alleati? Un ragazzo con un’abilità speciale per morire e una fatina che gli rivolge a malapena la parola.

Tutto ciò che Tad desidera è tornare alla sua vecchia vita e farà qualsiasi cosa per riuscirci. Anche stringere un patto con il diavolo.

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0000 BURNOUT Mi chiamo Tad Lonnerman e sono un millennial. In questi giorni sembra una scusa, ma non lo è. Odio quel termine e tutto il peso che comporta. I problemi sono problemi e li abbiamo tutti. Un padre che non abbiamo mai conosciuto. Una madre che ricorda a malapena il suo nome. Un debito a quattro zeri. Quel giorno compievo venticinque anni. Condividevo un ap­partamento con mio fratello minore, Derek, perché era tutto ciò che mi rimaneva. Perciò non venitemi a dire che ero un ragaz­zino lamentoso e viziato. L’unico problema che non avevo era il lavoro. Ero un pro­grammatore associato nel settore dei videogiochi. Ero andato controtendenza sulla faccenda della disoccupazione, non è vero? Era un lavoro da sogno e da due anni restavo a galla, concentrandomi solo su ciò che facevo e sostenendo me e De­rek. E stava funzionando. Portland: la splendida costa nord-occi­dentale del Pacifico. Lì tutto andava per il meglio, nonostante la pioggia. Uno stipendio solido. Una carriera stimolante. Fi­nalmente ce l’avevo fatta. Allora perché era tutto così insignificante? Eccomi lì, il giorno del mio compleanno, bloccato nel traffi­co nell’ora di punta, in una tempesta di neve. La pioggia la po­tevo affrontare. Portland è una bella città, ma ogni collina e au­tostrada attraversano infiniti colli di bottiglia. La neve blocca ogni cosa. Mi dava un sacco di tempo per meditare sui miei venticinque anni. La mia conclusione? Che traguardo di merda. A sedici anni ti metti al volante. A diciotto diventi adulto. A ventuno arriva il momento delle feste. E ora cosa avevo ottenuto? Una franchigia più bassa per l’assicurazione auto. State at­tente, signore. Già. Venticinque anni. Avrebbero potuto benissimo essere trenta. Uccidetemi ora. È ironico come le situazioni di vita più dure accadano nei compleanni. Per dirla tutta, non erano solo il tempo e l’ango­scia esistenziale. La mia piccola azienda di videogiochi era sta­ta acquisita qualche tempo prima da un mega-conglomerato senz’anima chiamato Kablammy Games. A loro non importava delle meccaniche di gioco o del design, si preoccupavano della monetizzazione e del data mining. E di fare sequel infiniti e cloni. E di mettere alla prova le buone idee fino a quando non rimanevano soltanto avanzi ripuliti alla perfezione. La Kablammy aveva così tanti rami e divisioni che era im­possibile ottenere qualunque cosa. Due anni a dare il meglio per farmi un nome e improvvisamente mi trovavo perso in un mare di dirigenti e richieste di moduli. E non cominciamo neanche a parlare della quantità di riunioni obbligatorie. Quel giorno ero già in ritardo per uno di quei meeting inutili. Proba­bilmente avremmo messo a punto strategie per aumentare le spese dei giocatori per contenuti di gioco normali. Ci dispiace, la principessa è in un altro castello: per favore, sborsa $ 9,99 per accedervi. Sbuffai e inserii la freccia. Desideroso di uscire dal traffico, svoltai in una strada laterale vuota che si inerpicava su una col­lina. Non preoccupatevi, il mio odio per la neve non mi aveva lasciato impreparato. Avevo catene adeguate montate sugli pneumatici per combattere la mia nemesi. Con il peso assoluto del mondo a gravare sulla mia mente, la mia auto compatta sca­lò gradatamente la strada ghiacciata. * * * Morire non è come in quei film di Final Destination. Una faccenda sanguinosa, sicuro. Inspiegabile, certo. Ma non è que­stione di destino. Non esiste una serie di eventi che collude per ucciderti. La morte non è neanche una cosa nobile come in tutte le sto­rie che escono da Hollywood. Non è un sacrificio significativo che cambia per sempre il resto del mondo. La morte è un fottuto camion con rimorchio della Pepsi che percorre una strada ghiacciata e sterza dritto sulla tua Nissan Altima. Questo è tutto. Senza senso. Senza scopo. È casuale. Suonai il clacson ma il mezzo era fuori controllo. L’idiota non aveva nemmeno le catene sulle gomme. Provai a evitarlo ma semplicemente non c’era nessun posto dove andare e il mezzo era determinato a monopolizzare entrambe le corsie di quella strada stretta. Mentre il camion Pepsi scivolava inevitabilmente più vicino, tutto ciò a cui riuscivo a pensare era se l’assicurazione avrebbe tenuto conto della riduzione per i miei venticinque anni.

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