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Il Mio Tormentatore: Un dark romance

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Blurb

Un nuovo dark romance dell’autrice best seller del New York Times, Anna Zaires

Un crudele sconosciuto inquietantemente bello è venuto da me nel cuore della notte, dagli angoli più pericolosi della Russia. Mi ha tormentata e distrutta, facendo a pezzi il mio mondo in nome della sua sete di vendetta.

Ora è tornato, ma non è più in cerca dei miei segreti.

L"uomo che invade i miei incubi vuole me.

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Capitolo 1
1 5 Anni Prima, Monti del Caucaso Settentrionale Peter "Papà!" L’acuto grido è seguito da un rumore di passetti, mentre mio figlio si affaccia alla porta, con i boccoli scuri che gli coprono il viso luminoso. Ridendo, afferro il suo corpicino robusto, quando si lancia verso di me. "Ti sono mancato, pupsik?" "Sì!" Piega le braccine intorno al mio collo e respiro profondamente, inebriandomi del suo dolce profumo di bimbo. Sebbene Pasha abbia quasi tre anni, odora ancora di latte—di salute e innocenza. Lo abbraccio forte e sento il gelo dentro di me che si scioglie, mentre un soffice calore mi inonda il petto. È doloroso, come essere sommersi nell’acqua calda dopo un congelamento, ma è un tipo di dolore piacevole. Mi fa sentire vivo, riempie il vuoto dentro di me fino a farmi quasi credere di essere pienamente meritevole dell’amore di mio figlio. "Gli sei mancato, sì" dice Tamila, arrivando nel corridoio. Come sempre, si muove lentamente, quasi senza far rumore, con gli occhi bassi. Non mi guarda. Fin da piccola, le hanno insegnato a evitare il contatto visivo con gli uomini, quindi tutto quello che vedo sono le sue lunghe ciglia nere, mentre fissa il pavimento. Indossa un foulard tradizionale, che nasconde i suoi lunghi capelli scuri, e il suo abito grigio è lungo e privo di forma. Tuttavia, è sempre bellissima—proprio come tre anni e mezzo fa, quando si nascose nel mio letto per sfuggire al matrimonio con un anziano del villaggio. "E a me siete mancati entrambi" dico, mentre mio figlio mi spinge sulle spalle, supplicandomi di liberarlo. Sorridendo, lo metto a terra, e mi afferra subito la mano, tirandola a sé. "Papà, vuoi vedere il mio camion? Lo vuoi vedere, Papà? "Certo" dico, con un sorriso sempre più luminoso, mentre mi spinge verso il salotto. "Di che genere di camion si tratta?" "Uno grosso!" "Va bene, vediamo." Tamila ci segue, e mi rendo conto che non le ho ancora rivolto la parola. Fermandomi, mi volto e guardo mia moglie. "Come stai?" Mi scruta tra quelle ciglia. "Sto bene. Sono felice di rivederti." "E io sono felice di rivedere te." Vorrei baciarla, ma si sentirebbe in imbarazzo se lo facessi davanti a Pasha, quindi evito di farlo. Le sfioro delicatamente la guancia e poi lascio che mio figlio mi trascini verso il camion, che riconosco: è quello che gli ho mandato da Mosca tre settimane fa. Mi mostra con orgoglio tutte le funzionalità del giocattolo, mentre mi accovaccio accanto a lui, osservandone il volto divertito. Ha la stessa bellezza esotica di Tamila, comprese le stesse ciglia, ma in lui c’è anche qualcosa di me, anche se non saprei descrivere cosa. "Ha il tuo coraggio" dice Tamila sottovoce, inginocchiandosi accanto a me. "E credo che diventerà alto come te, anche se forse è troppo presto per dirlo." La guardo. Spesso lo fa; mi osserva così da vicino che è quasi come se mi leggesse nel pensiero. Ma non è difficile intuire a cosa sto pensando. Mi accertai della paternità di Pasha prima che nascesse. "Papà. Papà." Mio figlio mi tira di nuovo la mano. "Gioca con me." Rido e torno a rivolgergli la mia attenzione. Durante l’ora successiva, giochiamo con il camion e una dozzina di altri giocattoli, tutte automobili. Pasha è ossessionato dai veicoli, dalle ambulanze alle auto da corsa. Nonostante tutti i giocattoli che gli regalo, gioca solo con quelli che hanno le ruote. Dopo aver giocato, ceniamo e Tamila fa il bagnetto a Pasha prima di metterlo a dormire. Noto che la vasca è incrinata e annoto mentalmente di ordinarne una nuova. Il piccolo villaggio di Daryevo è situato in cima ai Monti del Caucaso ed è difficile da raggiungere, quindi non è possibile ricevere una normale consegna da un negozio, ma so come far arrivare l’ordine qui. Quando menziono l’idea a Tamila, sbatte le ciglia, e stranamente mi guarda negli occhi, rivolgendomi un bel sorriso. "Sarebbe fantastico, grazie. Ho dovuto passare lo straccio quasi ogni sera." Ricambio il sorriso, e finisce di fare il bagno a Pasha. Dopo averlo asciugato e avergli messo il pigiama, lo porto a letto e gli leggo una storia del suo libro preferito. Si addormenta quasi immediatamente, e gli do un bacio sulla fronte liscia, con il cuore che mi si stringe per una forte emozione. Si tratta dell’amore. Lo riconosco, anche se non l’avevo mai provato—anche se un uomo come me non ha il diritto di provarlo. Niente di quello che ho fatto ha importanza qui, in questo piccolo villaggio del Dagestan. Quando sto con mio figlio, il sangue sulle mani non mi brucia l’anima. Facendo attenzione a non svegliare Pasha, mi alzo e esco senza fare rumore dalla stanzetta adibita a sua camera da letto. Tamila mi sta già aspettando nella nostra camera, così mi tolgo i vestiti e la raggiungo a letto, facendo l’amore con lei con tutta la dolcezza possibile. Domani, dovrò affrontare la bruttura del mio mondo, ma stasera sono felice. Stasera, posso amare ed essere amato. "Non te ne andare, Papà." Il mento di Pasha trema, mentre si sforza di non piangere. Qualche settimana fa, Tamila gli ha detto che i bambini grandi non piangono, e lui sta facendo di tutto per essere un bambino grande. "Ti prego, Papà. Non puoi rimanere un altro po’?" "Tornerò tra un paio di settimane" gli prometto, accovacciandomi per stare al livello dei suoi occhi. "Sai, devo andare al lavoro." "Devi sempre andare al lavoro." Il mento gli trema ancora di più e i suoi grandi occhi castani si riempiono di lacrime. "Perché non posso venire al lavoro con te?" Le immagini del terrorista che ho torturato la settimana scorsa mi invadono la mente e devo sforzarmi per mantenere la voce ferma, quando dico: "Mi dispiace, Pashen'ka. Il mio lavoro non è adatto ai bambini." Né agli adulti, se è per questo, ma non lo dico. Tamila sa qualcosa, sa che faccio parte di un’unità speciale degli Spetsnaz, le Forze Speciali russe, ma nemmeno lei è al corrente dell’oscura realtà del mio mondo. "Ma farò il bravo." Non riesce a smettere di piangere ormai. "Te lo prometto, Papà. Farò il bravo." "Lo so." Lo tiro a me e lo abbraccio forte, sentendo il suo corpicino che trema per i singhiozzi. "Sei il mio bravo bambino, e devi comportarti bene con la Mamma mentre sarò via, capito? Devi prenderti cura di lei, visto che sei un bambino grande ormai." Quelle sembrano essere parole magiche, perché tira su col naso e si allontana. "Lo farò." Gli cola il naso e ha le guance bagnate, ma il suo mento è fermo, quando incrocia il mio sguardo. "Mi prenderò cura di Mamma, te lo prometto." "È così intelligente" dice Tamila, inginocchiandosi accanto a me per abbracciare Pasha. "È come se avesse già cinque anni, non quasi tre." "Lo so." Il mio petto si gonfia per l’orgoglio. "È straordinario." Lei sorride e incontra di nuovo il mio sguardo, con i suoi grandi occhi castani così simili a quelli di Pasha. "Fa’ attenzione e torna presto da noi, va bene?" "Lo farò." Mi sporgo in avanti e la bacio sulla fronte, poi scompiglio i capelli setosi di Pasha. "Tornerò presto." Quando vengo a sapere la notizia, mi trovo a Grozny, in Cecenia, e sto seguendo una pista che mi condurrà verso un gruppo di ribelli. È Ivan Polonsky, il mio ​​superiore a Mosca, che mi chiama. "Peter." La sua voce è insolitamente bassa quando rispondo al telefono. "C’è stato un incidente a Daryevo." Il mio stomaco si trasforma in ghiaccio. "Che genere di incidente?" "Era in atto un’operazione di cui non sapevamo nulla. Era coinvolta la NATO. Ci sono... vittime." Il ghiaccio dentro di me si espande, dilaniandomi con i suoi bordi taglienti, e mi sforzo di far uscire le parole nonostante la gola chiusa. "Tamila e Pasha?" "Mi dispiace, Peter. Alcuni abitanti del villaggio sono rimasti uccisi nel fuoco incrociato e"—deglutisce a fatica—"secondo i primi rapporti Tamila era tra questi." Per poco non schiaccio il telefono con le dita. "E Pasha?" "Ancora non lo sappiamo. Ci sono state diverse esplosioni, e—" "Arrivo." "Peter, aspetta—" Riattacco e mi precipito fuori dalla porta. Ti prego, ti prego, ti prego, fa’ che sia vivo. Ti prego, fa’ che sia vivo. Ti prego, farò qualsiasi cosa, fa’ che sia vivo. Non sono mai stato religioso, ma man mano che l’elicottero militare si fa strada attraverso le montagne, mi ritrovo a pregare, supplicando e implorando per un piccolo miracolo, per una piccola grazia. La vita di un bambino è insignificante nel grande schema delle cose, ma significa tutto per me. Mio figlio è la mia vita, la mia ragione di vita. Il ruggito delle pale dell’elicottero è assordante, ma non è niente in confronto al baccano nella mia testa. Non riesco a respirare, non riesco a riflettere per la rabbia e la paura che mi soffocano dall’interno. Non so come sia morta Tamila, ma ho visto abbastanza cadaveri da immaginare il suo corpo nella mia mente, da immaginare con precisione i suoi bellissimi occhi vuoti e spenti, la sua bocca piegata e incrostata. E Pasha— No. Non posso pensarci ora. Non finché non ne sarò certo. Non sarebbe dovuto accadere. Daryevo non è vicino ad alcuna zona calda del Dagestan. È un piccolo insediamento pacifico, senza legami con i gruppi ribelli. Dovevano essere al sicuro là, lontani dal mio mondo violento. Ti prego, fa’ che sia vivo. Ti prego, fa’ che sia vivo. Il viaggio sembra durare un’eternità, ma alla fine attraversiamo la coltre di nubi e vedo il villaggio. Mi si chiude la gola, impedendomi di respirare. Vedo il fumo che sale da diversi edifici del centro e alcuni soldati armati. Salto giù dall’elicottero, non appena tocca terra. "Peter, aspetta. Serve un permesso" grida il pilota, ma sto già correndo, spingendo via la gente. Un giovane soldato cerca di sbarrarmi la strada, ma gli strappo l’M16 dalle mani e glielo punto contro. "Portami dai cadaveri. Subito." Non so se sia per l’arma o per il tono letale della mia voce, ma il soldato obbedisce, affrettandosi verso un capannone all’estremità opposta della strada. Lo seguo, con l’adrenalina che somiglia a un fango tossico nelle mie vene. Ti prego, fa’ che sia vivo. Ti prego, fa’ che sia vivo. Vedo i cadaveri dietro al capannone, alcuni disposti in modo ordinato, altri accatastati l’uno sull’altro sull’erba innevata. Non c’è nessuno intorno a loro; per ora, i soldati devono aver tenuto gli abitanti del villaggio alla larga. Riconosco subito alcuni cadaveri—l’anziano del villaggio che Tamila avrebbe dovuto sposare, la moglie del panettiere, l’uomo da cui una volta acquistai il latte di capra—ma non riesco a identificarne molti altri, sia per la portata delle ferite, sia perché non ho trascorso molto tempo nel villaggio. Ho trascorso pochissimo tempo qui e ora mia moglie è morta. Facendomi forza, mi inginocchio accanto a un esile corpo femminile, poggio l’M16 sull’erba e le tolgo il foulard dal viso. Un pezzo della sua testa è stato spazzato via da un proiettile, ma riesco a distinguere i suoi lineamenti abbastanza da poter dire che non si tratta di Tamila. Mi sposto sul cadavere della donna successiva, che presenta parecchie ferite da arma da fuoco sul petto. È la zia di Tamila, una donna timida di cinquant’anni che mi avrà rivolto meno di cinque parole negli ultimi tre anni. Per lei e il resto della famiglia di Tamila sono sempre stato uno straniero, un estraneo strambo e spaventoso proveniente da un altro mondo. Non riuscivano a capire la decisione di Tamila di sposarmi, condannandola addirittura, ma a Tamila non importava. Era sempre stata indipendente. Un altro cadavere femminile cattura la mia attenzione. La donna è distesa su un fianco, ma la delicata curva della sua spalla è dolorosamente familiare. Mi trema la mano quando la giro, e un dolore atroce mi dilania, quando vedo il suo viso. La bocca di Tamila è piegata, come immaginavo, ma i suoi occhi non sono vuoti. Sono chiusi, con le ciglia lunghe bruciate e le palpebre incollate dal sangue. Altro sangue le copre il petto e le braccia, facendo sembrare il suo abito grigio quasi nero. Mia moglie, la bellissima giovane donna che aveva avuto il coraggio di decidere del proprio destino, è morta. È morta senza mai lasciare il suo villaggio, senza vedere Mosca come aveva sognato. La vita le è stata strappata ancora prima di avere la possibilità di vivere, ed è tutta colpa mia. Sarei dovuto rimanere qui, avrei dovuto proteggere lei e Pasha. Dannazione, avrei dovuto sapere di questa fottuta operazione; nessuno sarebbe dovuto venire qui senza informare la mia squadra. La rabbia prende il sopravvento, mescolandosi con il dolore e il senso di colpa, ma li respingo e mi sforzo di continuare a guardare. Ci sono solo cadaveri adulti disposti nelle file, ma c’è anche quel mucchio. Ti prego, fa’ che sia vivo. Ti prego, fa’ che sia vivo. Le gambe mi sembrano fiammiferi bruciati, mentre mi avvicino al mucchio. Ci sono arti staccati e cadaveri talmente danneggiati che è impossibile riconoscerli. Devono essere le vittime delle esplosioni. Sposto ciascuna parte dei cadaveri di lato, ordinandole una per una. Il fetore del sangue deteriorato e della carne carbonizzata impernia l’aria. Un normale uomo avrebbe già vomitato, ma io non sono mai stato normale. Ti prego, fa’ che sia vivo. "Peter, aspetta. Sta arrivando una squadra speciale, e non vogliono che tocchiamo i cadaveri." È il pilota, Anton Rezov, che mi si avvicina da dietro il capannone. Lavoriamo insieme da anni ed è un mio caro amico, ma se proverà a fermarmi, non esiterò ad ucciderlo. Senza rispondere, continuo con il mio macabro compito, esaminando meticolosamente ogni singolo arto e busto bruciato prima di metterlo da una parte. Molte parti del corpo dei cadaveri sembrano appartenere a degli adulti, anche se m’imbatto in alcune di dimensioni ridotte. Sono troppo grandi per essere quelle di Pasha, e sono abbastanza egoista da sentirmi sollevato per questo. Poi lo vedo. "Peter, mi hai sentito? Non puoi farlo ancora." Anton si allunga verso il mio braccio, ma, prima che possa toccarmi, mi giro, stringendo automaticamente la mano. Il mio pugno colpisce la sua mascella, e barcolla per il colpo, con gli occhi che gli girano nelle orbite. Non lo guardo cadere; ho già ripreso il mio compito, rovistando in mezzo al restante mucchio di cadaveri per raggiungere la manina che ho visto prima. Una manina avvinghiata intorno ad una macchina giocattolo rotta. Ti prego, ti prego, ti prego. Fa’ che ci sia stato un errore. Fa’ che sia vivo. Fa’ che sia vivo. Lavoro come un posseduto, con tutto il mio essere concentrato su un unico obiettivo: raggiungere quella manina. Alcuni dei cadaveri in cima al mucchio sono quasi interi, ma non ne sento il peso, quando li spingo da una parte. Non sento il bruciore dello sforzo, né l’odioso fetore della morte violenta. Mi piego, mi rialzo e li rimuovo, fin quando i resti dei corpi non sono disseminati intorno a me, e sono zuppo di sangue. Non mi fermo finché non scopro il corpicino nella sua interezza e non c’è più alcun dubbio. Tremando, affondo nelle ginocchia, con le gambe che non riescono a sostenermi. Per qualche miracolo, la metà destra del volto di Pasha è intatta, con la sua soffice pelle da bambino priva di graffi. Ha un occhio chiuso, la boccuccia semi-aperta e, se fosse stato disteso su un fianco come Tamila, l’avrei scambiato facilmente per un bambino addormentato. Ma non è sdraiato su un fianco, e vedo il buco provocato dall’esplosione che gli ha strappato metà del cranio. Gli manca anche il braccio sinistro, nonché la gamba sinistra sotto al ginocchio. Il braccio destro, però, è intatto, con le dita avvolte rigidamente intorno all’auto giocattolo. In lontananza, sento un urlo, un folle grido di rabbia disumana. È solo quando mi ritrovo a stringere il piccolo corpo al petto che mi rendo conto che quel potente grido proviene da dentro di me. Resto in silenzio, allora, ma non riesco a smettere di dondolare avanti e indietro. Non riesco a smettere di abbracciarlo. Non so per quanto tempo io rimanga così, ad abbracciare quel che rimane di mio figlio, ma è buio quando arrivano i soldati della squadra speciale. Non li combatto. Non avrebbe senso. Mio figlio è morto, e la sua luminosa luce è stata spenta prima ancora che avesse la possibilità di brillare. "Mi dispiace" sussurro, mentre mi trascinano via. Man mano che mi allontano, il freddo dentro di me cresce, con i resti dell’umanità che sanguinano dalla mia anima. Non ho più suppliche, nessuna implorazione, niente di niente. Sono vuoto, privo di speranze, calore e amore. Non posso tornare indietro nel tempo e abbracciare mio figlio, non posso restare come mi aveva chiesto. Non potrò portare Tamila a Mosca l’anno prossimo, come le avevo promesso. C’è solo una cosa che io possa fare per mia moglie e mio figlio, ed è questo il motivo per cui continuerò a vivere. Farla pagare agli assassini. Uno dopo l’altro. Risponderanno per questo massacro con la loro vita.

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