Capitolo 2

1608 Words
2 Stati Uniti, Oggi Sara "Sei sicura di non voler venire a bere qualcosa con me e le ragazze?" chiede Marsha, avvicinandosi al mio armadietto. Si è già tolta il camice da infermiera e indossa un abito sexy. Con il suo rossetto rosso brillante e i ricci biondi, sembra una versione più grande di Marilyn Monroe e, come lei, le piace divertirsi nei locali. "No, grazie. Non posso venire." Addolcisco il mio rifiuto con un sorriso. "È stata una giornata lunga e sono esausta." Ruota gli occhi. "Certo. Sei sempre esausta ultimamente." "È colpa del lavoro." "Sì, se lavori novanta ore a settimana. Se non ti conoscessi meglio, penserei che tu stia cercando di ucciderti di lavoro. Non sei più una specializzanda, sai? Non c’è bisogno di sopportare queste stronzate." Sospiro e prendo la mia borsa. "Qualcuno dev’essere reperibile." "Sì, ma non dovresti essere sempre tu. È venerdì sera, e hai lavorato ogni fine settimana del mese scorso, più tutti quei turni di notte. So che sei l’ultima arrivata e tutto il resto, ma—" "Non mi dà fastidio fare i turni di notte" la interrompo, avvicinandomi allo specchio. Il mascara che ho messo questa mattina mi ha lasciato delle macchie scure sotto gli occhi, e utilizzo una salvietta di carta umida per toglierle. Questo non aiuta molto a farmi sembrare meno stanca, ma suppongo che non importi, visto che sto per andare dritta a casa. "Già, perché tu non dormi" dice Marsha, arrivando dietro di me, e mi preparo spiritualmente, sapendo che sta per affrontare il suo argomento preferito. Pur avendo ben quindici anni più di me, Marsha è la mia miglior amica in ospedale, e non fa che dar voce alle sue preoccupazioni. "Marsha, ti prego. Sono troppo stanca per questo" dico, sistemandomi i capelli disordinati in una coda. Non mi serve una ramanzina per sapere che mi sto esaurendo. I miei occhi color nocciola sembrano rossi e assonnati allo specchio, e mi sento come se avessi sessant’anni invece di ventotto. "Sì, perché lavori troppo e dormi poco." Incrocia le braccia davanti al petto. "So che hai bisogno di distrarti dopo George e tutto il resto, ma—" "Ma niente." Girandomi, la guardo storto. "Non voglio parlare di George." "Sara..." Corruga la fronte. "Devi smettere di punirti per quello. Non è stata colpa tua. È stato lui che ha voluto mettersi al volante; è stata una sua decisione." Mi si chiude la gola e mi bruciano gli occhi. Con grande orrore, mi rendo conto che sto per piangere, e mi allontano per cercare di controllarmi. Solo che non posso nascondermi da nessuna parte; lo specchio è davanti a me e riflette tutto ciò che provo. "Mi dispiace, tesoro. Sono una stronza insensibile. Non avrei dovuto dirlo." Marsha sembra sentirsi davvero in colpa, quando mi raggiunge e mi stringe delicatamente il braccio. Faccio un respiro profondo e mi giro per affrontarla di nuovo. Sono esausta, il che non aiuta, con tutte le emozioni che minacciano di sopraffarmi. "Va tutto bene." Mi sforzo di sorridere. "Non è successo niente. Dovresti andare; probabilmente le ragazze ti stanno aspettando." E io devo tornare a casa prima che scoppi a piangere in pubblico, cosa che sarebbe una grossa umiliazione. "Va bene, tesoro." Marsha mi sorride, ma vedo la compassione nel suo sguardo. "Riposati nel fine settimana, ok? Promettimelo." "Sì, lo farò—Mamma." Ruota gli occhi. "Sì, sì, ho capito. Ci vediamo lunedì." Esce dello spogliatoio e aspetto un minuto prima di seguirla per evitare di incontrare le sue amiche nell’ascensore. Ne ho abbastanza della gente che prova compassione per me. Quando entro nel parcheggio dell’ospedale, controllo il telefono come faccio sempre, e il mio cuore salta un battito quando vedo un messaggio da parte di un numero privato. Fermandomi, passo un dito tremolante sullo schermo. Va tutto bene, ma devo posticipare la visita di questo fine settimana, dice il messaggio. I piani sono saltati. Tiro un sospiro di sollievo, e vengo subito assalita dal familiare senso di colpa. Non dovrei sentirmi sollevata. Queste visite dovrebbero farmi piacere, non dovrei considerarle uno spiacevole obbligo. Ma non posso farci niente. Ogni volta che vedo George, riaffiorano i ricordi di quella notte, e poi non dormo per giorni. Se Marsha pensa che io dorma poco, dovrebbe vedermi dopo una di quelle visite. Rimettendo il telefono nella borsa, mi avvicino alla macchina. È una Toyota Camry, la stessa che ho da cinque anni. Ora che ho ripagato i prestiti scolastici e ho accumulato alcuni risparmi, potrei permettermi di meglio, ma non ne vedo il motivo. Era George l’appassionato di auto, non io. Il dolore mi attanaglia, intenso e familiare, e so che è per via di quel messaggio. Beh, per quello e per la conversazione con Marsha. Ultimamente, ho avuto giorni in cui non ho pensato minimamente all’incidente, affrontando la routine senza la schiacciante pressione del senso di colpa, ma oggi non è uno di quei giorni. Era adulto, ricordo a me stessa, ripetendo ciò che dicono sempre tutti. È stato lui a decidere di mettersi al volante quel giorno. Razionalmente, riconosco la verità di quelle parole, ma, a prescindere dalla frequenza con cui le sento, non cambia nulla. La mia mente è bloccata, rivivendo quella serata più e più volte, e per quanto mi sforzi, non riesco a non pensarci. Basta, Sara. Concentrati sulla strada. Facendo un respiro per calmarmi, esco dal parcheggio e mi dirigo verso casa. Dista circa quaranta minuti dall’ospedale, che sembrano quaranta minuti di troppo in questo momento. Sto cominciando a sentire i crampi allo stomaco, e mi rendo conto che il motivo per cui sono così emotiva oggi è in parte dovuto al ciclo imminente. Essendo un’ostetrica e ginecologa, so meglio di chiunque altro quanto possa essere potente l’effetto degli ormoni e quando alla sindrome premestruale si uniscono lunghe ore e ricordi legati a George... Beh, è già un miracolo che io non stia a pezzi. Sì, è così. Sono solo stanca e ho gli ormoni in subbuglio. Devo tornare a casa e andrà tutto bene. Determinata a sentirmi meglio, accendo la radio, sintonizzandomi su una stazione che trasmette canzoni pop degli anni '90, e comincio a cantare insieme a Britney Spears. Non sarà la musica più seria, ma è allegra, e questo è esattamente quello di cui ho bisogno. Non mi lascerò andare. Stanotte, dormirò, anche a costo di dover assumere un Ambien per riuscirci. La mia casa si trova in un viale alberato senza uscita, appena fuori da una strada a due corsie che attraversa un terreno agricolo. Come molte altre nell’elegante quartiere di Homer Glen, nell’Illinois, è immensa—cinque camere da letto e quattro bagni, oltre a un seminterrato completamente rifinito. C’è un enorme cortile, e così tante querce che circondano la casa che è come se si trovasse in mezzo a una foresta. È perfetta per quella grande famiglia che voleva George e terribilmente vuota per me. Dopo l’incidente, ho pensato di vendere la casa e avvicinarmi all’ospedale, ma non sono riuscita a farlo. Ancora non ci riesco. Io e George abbiamo rinnovato la casa insieme, modernizzando la cucina e i bagni, decorando accuratamente ogni camera per creare un’atmosfera accogliente e confortevole. Un’atmosfera familiare. So che le probabilità di avere quella famiglia sono inesistenti ora, ma una parte di me è aggrappata a quel vecchio sogno, alla vita perfetta che avremmo dovuto avere. "Tre figli, almeno" mi aveva detto lui al quinto appuntamento. "Due maschi e una femmina." "Perché non due femmine e un maschio?" gli avevo chiesto, sorridendo. "Che cos’è successo alla parità di genere e tutto il resto?" "Credi che due contro uno sarebbe giusto? Sanno tutti che le femmine vogliono comandare, e quando ne hai due..." aveva scrollato le spalle in modo teatrale. "No, abbiamo bisogno di due maschi, per un maggior equilibrio in famiglia. Altrimenti, Papà è rovinato." Avevo riso, colpendogli la spalla, ma in realtà mi piaceva l’idea di due maschi che correvano per tutta la casa, facendo disastri e proteggendo la sorellina. Sono figlia unica, ma ho sempre voluto un fratello maggiore, ed è stato facile adottare il sogno di George come se fosse il mio. No. Smettila. Mi sforzo di scacciare quei ricordi, perché nel bene e nel male mi riportano a quella sera, e non posso permettermelo ora. I crampi sono peggiorati, e cerco di tenere le mani sul volante, mentre entro nel garage con tre posti auto. Ho bisogno dell’Advil, di una borsa calda e del mio letto, in quest’ordine, e se sono davvero fortunata, mi addormenterò subito, senza dover ricorrere all’Ambien. Sopprimendo un gemito, chiudo la porta del garage, digito il codice dell’allarme, e mi trascino in casa. I crampi sono così forti che non riesco a camminare senza piegarmi, quindi mi dirigo verso il mobiletto di medicine nella cucina. Non accendo nemmeno le luci; l’interruttore è troppo lontano dall’ingresso del garage, e poi, conosco la cucina abbastanza bene da potermi muovere al buio. Aprendo il mobiletto, trovo la bottiglietta di Advil toccandola, tiro fuori due pillole e le metto in bocca. Poi vado al lavandino, mi riempio la mano d’acqua e mando giù le pillole. Ansimando, afferro il ripiano della cucina e aspetto che il farmaco faccia effetto, prima di provare a fare qualcosa di audace come andare nella camera matrimoniale al secondo piano. Lo sento appena un attimo prima che accada. È impercettibile, solo uno spostamento d’aria dietro di me, un sentore di qualcosa di estraneo... una sensazione di pericolo improvviso. Mi si rizzano i capelli, ma è troppo tardi. In un attimo, mi ritrovo accanto al lavandino, e subito dopo una grande mano mi copre la bocca, mentre un grosso e forte corpo mi tiene bloccata contro il ripiano, tenendomi da dietro. "Non urlare" mi sussurra nell’orecchio una profonda voce maschile, e qualcosa di freddo e affilato spinge sulla mia gola. "Non vorrai che mi scivoli la lama."
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