Capitolo 3

3055 Words
3 Sara Non grido. Non perché sia la cosa più intelligente da fare, ma perché non riesco a fiatare. Sono bloccata dal terrore, totalmente e completamente impietrita. Tutti i miei muscoli sono paralizzati, comprese le corde vocali, e i polmoni hanno smesso di funzionare. "Sto per toglierti la mano dalla bocca" mormora nel mio orecchio, con il respiro caldo sulla mia pelle sudata. "E tu rimarrai zitta. Chiaro?" Non posso fare altro che frignare, ma in qualche modo riesco ad annuire debolmente. Abbassa la mano, circondandomi il fianco con un braccio, e i miei polmoni scelgono quel momento per ricominciare a funzionare. Senza volerlo, mi lascio sfuggire un respiro affannoso. La lama spinge immediatamente più in profondità nella mia pelle, e mi blocco di nuovo, quando sento il sangue caldo che mi scorre lungo il collo. Sto per morire. Oh Dio, morirò qui, nella mia cucina. Il terrore è una cosa mostruosa dentro di me, e mi trafigge con aghi di ghiaccio. Non ero mai stata così vicina alla morte prima d’ora. Solo un centimetro più a destra e— "Ho bisogno che mi ascolti, Sara." La voce dell’intruso è delicata, mentre preme il coltello nella mia gola. "Se collaborerai, uscirai viva da qui. Altrimenti, del tuo corpo non rimarrà che un cadavere. A te la scelta." Viva? Una scintilla di speranza squarcia la foschia del panico nel mio cervello e mi rendo conto che ha un debole accento. È qualcosa di esotico. Medio Oriente, forse, o Europa dell’Est. Stranamente, quel dettaglio mi aiuta a concentrarmi un po’, fornendo alla mente qualcosa di concreto a cui aggrapparsi. "C-che cosa vuoi?" Le parole escono con un sussurro tremante, ma è un miracolo che io riesca a parlare. Mi sento come un cervo davanti ai fari di un veicolo, sbalordita e sopraffatta, con il processo cognitivo lento e bizzarro. "Solo alcune risposte" dice, ritirando leggermente il coltello. Senza quella fredda lama d’acciaio sulla pelle, una parte del mio panico svanisce, e mi soffermo su altri dettagli, come il fatto che il mio aggressore è muscoloso e più alto di me di almeno venti centimetri. Il braccio intorno al mio fianco è come una fascia d’acciaio e il suo grande corpo non smette di spingere sulla mia schiena, senza alcun segno di delicatezza. Sono di media altezza per essere una donna, ma sono esile e minuta, e se lui è così muscoloso come sospetto deve pesare quasi il doppio di me. Anche se non avesse il coltello, non riuscirei a scappare. "Che genere di risposte?" La mia voce è un po’ più ferma stavolta. Forse è qui solo per derubarmi e tutto quello che gli serve è la combinazione della cassaforte. Sa di pulito, profumando di detersivo per la biancheria e pelle sana, quindi non è un tossicodipendente o un senzatetto. Un ladro professionista, forse? Se è così, rinuncerò volentieri ai miei gioielli e al denaro d’emergenza che George ha nascosto in casa. "Voglio che mi parli di tuo marito. In particolare, voglio sapere dove si trova." "George?" La mia mente si svuota, mentre una nuova paura mi attanaglia. "C-che cosa... perché?" La lama preme. "Sono io quello che fa le domande." "T-ti prego" lo supplico. Non riesco a riflettere, né a concentrarmi su altro che non sia il coltello. Delle lacrime calde mi rigano il viso, e sto tremando. "Ti prego, non—" "Rispondi alla domanda. Dov’è tuo marito?" "Io—" Oh Dio, che cosa gli dico? Dev’essere uno di loro, il motivo di tutte le precauzioni. Il cuore mi batte così forte che sto per andare in iperventilazione. "Ti prego, io non... non ho—" "Non mentirmi, Sara. Ho bisogno di sapere dov’è. Ora." "Non lo so, te lo giuro. Per favore, siamo..." Mi si incrina la voce. "Siamo separati." Stringe il braccio intorno al mio fianco e il coltello va più in profondità. "Vuoi morire?" "No. No, non voglio. Ti prego..." Tremo ancora di più, con le lacrime che scorrono in modo incontrollabile. Dopo l’incidente, ci sono stati giorni in cui credevo di voler morire, quando il senso di colpa e il dolore dei rimpianti erano travolgenti, ma, ora che la lama è sulla mia gola, voglio vivere. Lo voglio davvero. "Allora, dimmi dov’è." "Non lo so!" Le ginocchia minacciano di piegarsi, ma non posso tradire George in questo modo. Non posso esporlo a questo mostro. "Stai mentendo." La voce del mio aggressore è ghiaccio puro. "Ho letto i tuoi messaggi. Sai esattamente dov’è." "No, io—" cerco di pensare a una bugia plausibile, ma non riesco a trovarla. Il panico è acre sulla mia lingua, mentre le domande mi invadono la mente in preda alla frenesia. Come ha potuto leggere i miei messaggi? Quando? Da quanto tempo mi controlla? È uno di loro? "Io—io non so di cosa stai parlando." Il coltello preme ancora più in profondità e chiudo gli occhi, con il respiro che lascia il posto ai singhiozzi. La morte è così vicina che la sento, la percepisco... con ogni fibra del mio essere. È il sapore metallico del mio sangue e il sudore freddo che mi scorre lungo la schiena, il ruggito del mio cuore nelle tempie e la tensione nei muscoli tremolanti. Tra un altro secondo, mi taglierà la vena giugulare, e morirò dissanguata, proprio qui, sul pavimento della mia cucina. È questo che merito? È così che devo espiare i miei peccati? Digrigno i denti per evitare di parlare. Per favore, perdonami, George. Se è di questo che hai bisogno... Sento il mio aggressore sospirare, e l’istante successivo il coltello è sparito e mi ritrovo piegata sul ripiano. La mia schiena colpisce il granito duro, e la testa cade di peso all’indietro nel lavandino, con i muscoli del collo che urlano dal dolore. Ansimando, scalcio e cerco di dargli un pugno, ma è troppo forte e veloce. In un lampo, salta sul ripiano e si sistema sopra di me, bloccandomi col suo peso. Mi lega i polsi con qualcosa di solido e indistruttibile prima di stringerli con una mano, e, nonostante i miei tentativi di dimenarmi, non posso fare niente per liberarmene. I miei talloni scivolano inutilmente sul ripiano liscio e i muscoli del collo bruciano, dovendo tener sollevata la testa. Sono impotente, indifesa, e un nuovo tipo di panico mi pervade. Ti prego, Dio, no. Tutto tranne lo stupro. "Proveremo qualcosa di diverso" dice, e mi mette un panno sul viso. "Vediamo se sei davvero disposta a morire per quel bastardo." Ansimando, giro la testa da una parte all’altra, cercando di liberarmi del panno, ma è troppo lungo e riesco a malapena a respirare. Sta cercando di soffocarmi? È questo il suo piano? Poi, la manopola del rubinetto cigola e capisco tutto. "No!" Mi dimeno con tutte le forze, ma mi stringe i capelli con la mano libera, tenendomi sotto al rubinetto con la testa piegata. Lo shock iniziale dell’acqua non è poi così male, ma, dopo qualche secondo, essa mi entra nel naso. Mi si chiude la gola, i polmoni si bloccano e tutto il corpo protesta, mente soffoco. Il panico è istintivo, incontrollabile. Il panno è come una zampa umida stampata sul mio naso e sulla bocca, chiudendoli. Ho l’acqua nel naso, nella gola. Sto soffocando, annegando. Non riesco a respirare, non riesco a respirare... L’aggressore chiude il rubinetto e mi toglie il panno dal viso. Tossendo, mando giù un po’ d’aria, singhiozzando e ansimando. Tremo tutta e vedo delle macchie bianche. Prima che io possa riprendermi, mi rimette il panno sul viso e riapre il rubinetto. Questa volta è ancora peggio. Le narici mi bruciano per l’acqua e i polmoni protestano per la mancanza d’aria. Ansimo e soffoco, annego e piango. Non riesco a respirare. Oh, Dio, sto morendo; non riesco a respirare— Nell’istante successivo, il panno sparisce, e cerco disperatamente di mandare giù aria. "Dimmi dov’è e mi fermerò." La sua voce è un sussurro oscuro sopra di me. "Non lo so! Per favore!" Sento il vomito nella gola, e la consapevolezza che lo rifarà trasforma il mio sangue in acido. È stato facile fingere di essere coraggiosa con il coltello, ma non con questo. Non posso morire in questo modo. "Ultima possibilità" dice sottovoce il mio tormentatore, e il panno umido torna a coprirmi il viso. Il rubinetto ricomincia a cigolare. "Smettila! Ti prego!" Quell’urlo mi sfugge quasi senza accorgermene. "Te lo dico! Te lo dico." Chiude il rubinetto e mi toglie il panno dal viso. "Parla." Singhiozzo e tossisco troppo per poter formare una frase coerente, così mi solleva dal ripiano e mi appoggia sul pavimento, piegandosi per avvolgermi con le braccia. Questo potrebbe essere scambiato per un abbraccio rassicurante o il gesto protettivo di un amante. La sensazione è avvalorata dalla voce gentile e dolce del mio torturatore, quando mi sussurra nell’orecchio: "Dimmelo, Sara. Dimmi quello che voglio sapere e me ne andrò." "Lui—" mi fermo un attimo prima di rivelargli la verità. L’animale in preda al panico dentro di me vuole sopravvivere a tutti i costi, ma non posso fare questo. Non posso condurre questo mostro da George. "Si trova all’Advocate Christ Hospital" dico con voce strozzata. "Nel reparto di lunga degenza." È una menzogna e, a quanto pare, nemmeno buona, perché stringe le braccia intorno a me, quasi schiacciandomi le ossa. "Non prendermi per il culo." La dolcezza nella sua voce è scomparsa, sostituita da una rabbia feroce. "È andato via da lì—è andato via da mesi. Dove si nasconde?" Singhiozzo più forte. "Io... io non—" Il mio aggressore si alza in piedi, tirandomi su insieme a lui, e io grido e mi dimeno mentre mi trascina verso il lavandino. "No! Per favore, no!" Sono isterica quando mi solleva sul ripiano, e agito le mani legate, mentre cerco di afferrargli il volto. I miei tacchi tambureggiano sul granito, mentre si sistema sopra di me, bloccandomi nuovamente, e la bile mi sale nella gola, quando mi tira i capelli, piegandomi la testa all’indietro nel lavandino. "Basta!" "Dimmi la verità e mi fermerò." "Io—non posso. Ti prego, non posso!" Non posso fare questo a George, non dopo tutto quello che c’è stato tra noi. "Smettila, per favore!" Il panno bagnato è di nuovo sul mio viso e mi si chiude la gola dal panico. Il rubinetto è ancora chiuso, ma sto già annegando; non riesco a respirare, non riesco a respirare... "Fanculo!" Mi spinge bruscamente a terra, dove crollo singhiozzando e sbattendo il fianco. Solo che questa volta non ci sono braccia a stringermi, e mi rendo vagamente conto che si è allontanato. Dovrei alzarmi in piedi e correre, ma ho le mani legate e le gambe non mi reggono. Tutto quello che posso fare è rotolare pateticamente su un fianco, cercando di strisciare. La paura mi acceca, mi disorienta, e non riesco a vedere nulla nell’oscurità. Non riesco a vedere lui. Correte, incoraggio i miei muscoli sconnessi e tremanti. Alzatevi e correte. Respirando, mi aggrappo a qualcosa—all’angolo del ripiano—e mi tiro su. Ma è troppo tardi; è già su di me, con il braccio duro avvolto intorno al mio fianco, mentre mi afferra da dietro. "Vediamo se questo funziona meglio" sussurra, e qualcosa di freddo e appuntito mi colpisce sul collo. Un ago, mi rendo conto con un sussulto di terrore, e perdo conoscenza. Un volto danza davanti ai miei occhi. È un volto bello, addirittura stupendo, nonostante la cicatrice che gli sfiora il sopracciglio sinistro. Zigomi alti e obliqui, occhi grigi come l’acciaio incorniciati da ciglia nere, una robusta mascella ricoperta da barba incolta—il volto di un uomo, mi rendo conto vagamente. I suoi capelli sono folti e scuri, più lunghi sopra che ai lati. Non è vecchio, ma non è nemmeno un adolescente. Un adulto. È accigliato, con i lineamenti che evidenziano rughe dure e sinistre. "George Cobakis" dice la bocca dura e scolpita. È una bocca sexy, con una bella forma, ma sento le sue parole come se provenissero da un megafono in lontananza. "Sai dov’è?" Annuisco, o almeno ci provo. Ho la testa pesante e il collo stranamente dolorante. "Sì, so dov’è. Pensavo anche di conoscerlo, ma mi sbagliavo. Si conosce mai qualcuno per davvero? Non credo, o perlomeno non conoscevo lui. Credevo di conoscerlo, ma non lo conoscevo. Tutti quegli anni insieme, e tutti pensavano che fossimo così perfetti. La coppia perfetta, ci chiamavano. Ci credi? La coppia perfetta. Eravamo il meglio del meglio, la giovane dottoressa e un talentuoso giornalista in ascesa. Dicevano che un giorno avrebbe vinto un premio Pulitzer." Mi rendo vagamente conto che sto blaterando, ma non riesco a smettere. Le parole mi escono in tutta la loro amarezza e il dolore. "I miei genitori erano così orgogliosi, così felici il giorno del nostro matrimonio. Non avevano idea di quello che sarebbe accaduto, di quello che sarebbe successo—" "Sara. Concentrati su di me" dice la voce da megafono, e percepisco un lieve accento straniero. Mi piace, quell’accento, mi fa venir voglia di allungarmi e di premere la mano su quelle labbra scolpite, per poi passare le dita su quella mascella dura e vedere se è ruvida. Mi piace la mascella ruvida. George spesso tornava a casa tutto ispido dai suoi viaggi all’estero, e mi piaceva. Mi piaceva, anche se gli dicevo di radersi. Era più attraente rasato, ma a volte mi piaceva sentire la barba, mi piaceva sentire quella ruvidità sulle cosce quando— "Sara, smettila" mi interrompe la voce, e il cipiglio su quel volto esotico e bello si fa più marcato. Stavo parlando ad alta voce, mi rendo conto, ma non mi sento imbarazzata, nient’affatto. Quelle parole non mi appartengono; escono di loro iniziativa. Anche le mie mani agiscono di loro iniziativa, cercando di raggiungere quel viso, ma qualcosa le ferma e, quando abbasso la testa pesante per guardare verso il basso, vedo una fascetta di plastica sui miei polsi, con la grande mano di un uomo sui miei palmi. È calda, quella mano, e mi tiene le mani sul grembo. Perché lo sta facendo? Da dove viene quella mano? Quando alzo lo sguardo, confusa, il suo viso è più vicino, con gli occhi grigi che mi scrutano. "Ho bisogno che tu mi dica dov’è tuo marito" dice la bocca, e il megafono si avvicina. È come se fosse proprio accanto al mio orecchio. Rabbrividisco, ma nello stesso tempo quella bocca mi intriga. Quelle labbra mi fanno venir voglia di toccarle, leccarle, sentirle sulle mie—aspetta. Stanno chiedendo qualcosa. "Dov’è mio marito?" La mia voce sembra rimbalzare dalle pareti. "Sì, George Cobakis, tuo marito." Le labbra sembrano tentatrici mentre formano le parole e quell’accento mi accarezza le viscere, nonostante il persistente effetto megafono. "Dimmi dov’è." "È al sicuro. È in un rifugio" dico. "Potevano trovarlo. Non volevano che pubblicasse quella storia, ma l’ha fatto. Era coraggioso, o stupido—probabilmente stupido, non è vero?—e poi è accaduto l’incidente, ma potrebbero trovarlo lo stesso. Alla mafia non importa che sia un vegetale ora, un cetriolo, un pomodoro, una zucchina. Beh, il pomodoro somiglia più a un frutto, ma lui è un vegetale. Un broccolo, forse? Non lo so. Non ha importanza, comunque. È solo che vogliono farne un esempio, minacciare altri giornalisti coraggiosi come lui. È questo che fanno; è così che agiscono. Corrompono la gente, e quando si fa luce su questo—" "Dov’è il rifugio?" C’è una luce oscura in quello sguardo d’acciaio. "Dimmi l’indirizzo del rifugio." "Non so l’indirizzo, ma è all’angolo vicino alla lavanderia di Ricky, a Evanston" dico a quegli occhi. "Mi portano sempre lì in macchina, quindi non so l’indirizzo preciso, ma ho visto l’edificio da un finestrino. Ci sono almeno due uomini in quella macchina, e fanno sempre un ampio giro, a volte cambiando le auto. È a causa della mafia, perché potrebbe essere in agguato. Mandano sempre un’auto per me, e questo fine settimana non hanno potuto. I piani sono saltati, hanno detto. A volte succede; i turni delle guardie non si allineano e—" "Quante guardie ci sono lì?" "Tre, a volte quattro. Sono dei militari. O ex-militari, non lo so. Hanno quell’aspetto. Non so perché, ma hanno tutti quell’aspetto. È come la protezione dei testimoni, ma non lo è, perché ha bisogno di un’assistenza particolare e non posso lasciare il mio lavoro. Non voglio lasciare il mio lavoro. Mi hanno detto che avrebbero potuto trasferirmi, farmi scomparire, ma non voglio scomparire. I pazienti hanno bisogno di me, oltre ai miei genitori. Come farei con i miei genitori? Non li vedrei, né li chiamerei più? No, è assurdo. Così, hanno fatto scomparire il vegetale, il cetriolo, il broccolo..." "Sara, basta." Preme le dita sulla mia bocca, fermando il flusso di parole, e il volto si avvicina ancora di più. "Devi smetterla ora. È finita" mormora la bocca sexy, e io separo le labbra, succhiando quelle dita. Assaporo il sale e la pelle, e voglio di più, così avvolgo la lingua intorno alle sue dita, sentendo la rugosità dei calli e i bordi levigati delle unghie corte. Era da tanto che non toccavo qualcuno, e il mio corpo si scalda per quell’assaggio, per quello sguardo in quegli occhi d’argento. "Sara..." La voce accentata è più bassa ora, più profonda e più dolce. Non sembra tanto un megafono ora, più un’eco sensuale, come la musica fatta su un sintetizzatore. "Non andare oltre, ptichka." Oh, ma è quello che voglio. Voglio andare oltre. Continuo ad avvolgere la lingua intorno alle sue dita, e guardo quegli occhi grigi che si rabbuiano, con le pupille che si dilatano visibilmente. È un segno di eccitazione, lo so, e mi fa venir voglia di fare di più. Mi fa venir voglia di baciare quelle labbra scolpite, di strofinare la guancia su quella mascella ruvida. E i capelli, quei folti capelli scuri. Sono soffici? Voglio saperlo, ma non posso muovere le mani, così prendo le dita più in profondità nella bocca, facendo l’amore con loro con le labbra e la lingua, succhiandole come se fossero caramelle. "Sara." La voce è bassa e rauca, il volto carico di lussuria celata a stento. "Devi fermarti, ptichka. Domani te ne pentiresti." Pentirmi? Sì, probabilmente. Mi pentirò di tutto, di tante cose, e lascio andare le dita. Ma prima che io possa pronunciare una parola, le dita si allontanano dalle mie labbra, e il volto si allontana. "Non lasciarmi." Il grido è lamentoso, come quello di una bambina appiccicosa. Desidero quel tocco umano, quella connessione. La mia testa sembra un sacco di pietre, e mi fa male tutto, soprattutto vicino al collo e alle spalle. Ho anche i crampi alla pancia. Voglio che qualcuno mi accarezzi i capelli e mi massaggi il collo, che mi abbracci e mi dondoli come una bambina. "Ti prego, non andartene." Qualcosa di simile al dolore attraversa il volto dell’uomo, e sento nuovamente la fredda puntura dell’ago nel collo. "Ciao, Sara" mormora la voce, e perdo conoscenza, con la mente che vaga come una foglia al vento.
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