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Dal fuoco

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Blurb

Comincia tutto con un incendio, durante la consegna di una partita di cocaina. Solo due persone sopravvivono, a stento: Beth Hoffman, agente speciale FBI, e Sven Myers, narcotrafficante. Da quel momento in poi inizia una specie di strano incubo: l'FBI abbandona il luogo dell'incendio, senza curarsi di controllare se ci siano sopravvissuti e Beth e Sven si ritrovano nel mezzo del nulla, a tre giorni di distanza dal paese più vicino, senza cibo e senza acqua. Confrontati con la concreta possibilità della morte, stanchi, spaventati e affamati, i due si trovano a fare fronte comune in più di un senso... anche perché l'operazione che li ha quasi uccisi ufficialmente non è mai esistita, Beth è stata bruscamente licenziata e la coca sequestrata è scomparsa nelle tasche di qualcuno...

"«Perché l’hai fatto, stanotte?» chiese Myers, di punto in bianco. «Mi detesti… perché?».

Lei guardò le fiamme salire guizzando verso il cielo.

«E perché tu l’hai fatto?» replicò.

Lui sorrise appena. «Hai un gran bel culo. Sei simpatica, tutto sommato. Eri attaccata a me, e ti andava. Non è una buona domanda. Un uomo ha sempre un motivo per farlo, il primo dei quali è: potevo. Ora la domanda è questa» continuò Myers. «Potrei? Di nuovo?».

Beth fissò in silenzio il suo volto stanco, la barba di due giorni, i capelli in disordine. Quell’assassino mezzo morto di fame e di fatica.

«Non credo» disse.

«Più tardi verrà freddo e ne avrai voglia» sbuffò lui. «E io mi volterò dall’altra parte e ti dirò: “troppo tardi”». Si passò una mano sulla faccia, in un gesto di stanchezza. «See, magari avessi quell’autocontrollo. Però devi ammettere che sono più onesto di te, in questo campo».

Beth rise sottovoce. «Proprio non concepisci che non ti trovi così attraente? Sven, questa non è Los Angeles e io non sono una delle tue ragazze».

Lui le lanciò un’occhiata pensierosa. «No, questo è un cazzo di bosco e tu sei l’unico essere umano nel raggio di chilometri». Si alzò e si andò a sedere dietro di lei. Le circondò la vita con le mani e le appoggiò la testa su una spalla. «E no, non sei una delle mie ragazze» mormorò. «Visto che passerò in prigione i prossimi vent’anni, sono contento che tu non sia una di loro».

«Stai giocando sporchissimo» gli fece presente lei.

«Voglio venire a letto con te fortissimo» spiegò lui."

CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

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1.
1. Alto e leggermente troppo magro, ma dotato di una certa grazia da gatto male addomesticato, Sven Myers correva davanti a tutti lungo il corridoio. Le fiamme serpeggiavano fuori dalle porte degli uffici come serpenti a sonagli pronti a mordere, allungando le proprie dita adunche e scintillanti come se volessero strappare gli abiti dai corpi delle persone in fuga. Beth Hoffman stava subito dietro a Myers, anche se respirare le diventava di secondo in secondo più difficile. Le sembrava che l’aria fosse troppo solida per entrare davvero nei suoi polmoni, e allo stesso tempo che invece che aria fosse napalm. A ogni respiro sentiva l’interno del torace andare in fiamme, ma sapeva che se avesse mollato sarebbe morta. Il fuoco, intorno a loro, provocava un frastuono ruggente e spaventoso, punteggiato dal boato dei crolli e dai terrorizzanti risucchi dei grisù. Seguiva Myers senza guardare nient’altro, perché se lo avesse fatto sarebbe semplicemente morta per il terrore. Saltava quando lui saltava, si abbassava quando lui si abbassava e cercava di appoggiare i piedi dove li appoggiava lui. Lo faceva in modo automatico, senza pensare, spinta solo dal terrore. Dietro di lei Mark Foreman e Justin Ross inciampavano e si accalcavano come animali impazziti. A un tratto vide Myers che accelerava ancora, le lunghe gambe che si tendevano come quelle di un centometrista al traguardo, le braccia che pompavano e poi si protendevano in avanti come se volesse afferrare qualcosa. Beth accelerò a sua volta. Sentì che qualcosa dentro al suo corpo si era spezzato, forse i suoi polmoni avevano ceduto o forse un arto, ma non ci fece caso. Dietro di lei risuonò lo schianto micidiale del soffitto che cadeva e l’ululato d’orrore di Mark e Justin. La prima tentazione fu quella di voltarsi a guardare, ma poi vide Myers che si limitava ad accelerare ancora e si gettò di nuovo al suo inseguimento. Non era una convinzione razionale, ma pensava che finché gli fosse rimasta dietro aveva ancora una probabilità di sopravvivenza. Il calore le prosciugava il sudore dalla pelle nel momento stesso in cui si formava e le sembrava di correre in un incubo di fuoco. L’aria rovente deformava ogni cosa e il fumo stendeva un velo grigio tra lei e Myers. A un tratto gli finì addosso. Cozzò contro la sua schiena e quasi cadde a terra. Da sopra alla sua spalla vide il muro di fiamme che sbarrava loro il cammino. Il ruggito del fuoco… il ruggito era spaventoso. Sembrava quello di un leone infuriato che urlasse contro di loro. Myers, ansimando per la fatica, continuava a fissare il muro di fiamme come se ne fosse affascinato. Vedeva la morte arrivare? Si era arreso? Beth lo sentì tendersi come una corda. Un attimo dopo saltava. Lo vide entrare nel fuoco come in un incubo, i suoi abiti neri che rilasciavano una nuvola di vapore. Saltò dietro di lui, nelle fiamme, verso… +++ Quando riaprì gli occhi ogni traccia di luce sembrava scomparsa. Giaceva a terra, abbandonata contro una parete in una posa grottesca, il sedere e i piedi nell’acqua. L’acqua non era fredda come avrebbe dovuto essere. Era tiepida. Sopra di lei sentiva ancora il ruggito dell’incendio. Per quanto tempo aveva perso conoscenza? Dov’era? Pian piano i suoi occhi iniziarono a scorgere qualcosa. Era accasciata contro il muro di un condotto sotterraneo. Il soffitto era basso, l’aria fumosa, da un punto qualche metro più avanti provenivano dei bagliori di fiamme. In mezzo al corridoio scorreva un rivolo d’acqua. Tiepida. Si rese conto che era l’incendio a scaldarla. L’incendio che avanzava. Dov’era Myers? L’aveva lasciata lì? L’aveva abbandonata come aveva abbandonato Mark e Justin, di sopra? Intuiva che dovevano essere caduti da un buco, un cedimento del pavimento probabilmente, e che erano finiti da qualche parte sotto alla Infotech Solutions. Era andato tutto storto. Tutto storto. A quell’ora lei avrebbe dovuto essere su un elicottero, lontana da lì, lontana da tutto. Più tardi avrebbe bevuto una tazza di caffè, prima della deposizione ufficiale, mentre i suoi colleghi le battevano pacche sulle spalle e le facevano i complimenti. Invece era in una specie di fogna, con un incendiò enorme sopra che rischiava di farle crollare il soffitto in testa da un momento all’altro, o di intossicarla. E Myers era scappato. Provò a muovere un piede. Le sembrò che il dolore le attraversasse ogni millimetro del corpo come una scossa elettrica. Provò di nuovo. Altro dolore, ma un po’ più tollerabile. Prese un respiro, tossì, prese un altro respiro e tentò di alzarsi. Si appoggiò con tutto il corpo contro alla parete; il vago e oscuro mondo in cui era precipitata le roteava furiosamente davanti agli occhi. Dopo qualche secondo cominciò a muoversi. Camminò cautamente nella direzione opposta a quella dello squarcio in cui era precipitata, tastando il terreno con i piedi, immersa nell’acqua fangosa fino alle caviglie. Il suolo era melmoso e man mano che si allontanava l’odore del fumo lasciava il posto a un fetore nauseante di marcio e di muffa. Poteva aver fatto sei passi quando la punta della sua scarpa incontrò un ostacolo. Era qualcosa di morbido e per un istante pensò di aver dato un calcio a un topo. Si rese subito conto che non era così. Nell’oscurità quasi totale riusciva comunque a intravedere un oggetto di una certa dimensione di traverso nell’acqua. Un corpo. Si abbassò lentamente e appoggiò un ginocchio nella melma. Tastando con le mani capì che si trattava di un uomo a faccia in giù nel rivolo melmoso. Lana calda e bagnata le si appiccicò ai polpastrelli. Pantaloni di tela. Costole, ossa, sotto ai vestiti. Capelli caldi e umidi, solo parzialmente bagnati. Li afferrò e tirò la testa fuori dal fango. Sapeva già di chi si trattava. L’aveva già riconosciuto al tatto, ma ora aveva una conferma. Era Myers. Non era scappato. Era morto. Probabilmente il grisù che li aveva fatti precipitare di sotto spaccando il pavimento lo aveva scagliato più lontano di lei. E a faccia in giù. Quanto tempo era rimasta priva di sensi? si chiese di nuovo. Accostò la faccia alla sua faccia e cercò di ripulirla dal sottile strato di fango che la copriva. Sapeva di non avere molto tempo prima che l’incendio consumasse completamente il pavimento della Infotech: il loro soffitto. Il loro? Perché aveva pensato al plurale? Myers era… Solo in quel momento si rese conto che dal collo dell’altro, vicino a dove lo aveva afferrato per sollevargli la testa, proveniva un lieve battito. Era vivo! Beth si avvicinò alla sua faccia per coglierne il respiro. Niente. Gli aprì la bocca e vi appoggiò sopra la propria. Il fango le restituì una sgradevole sensazione di marcio. Soffiò. Con una mano gli tappò il naso, che era tutto scivoloso, mentre con l’altra gli teneva la testa fuori dall’acqua. Soffiò ancora. E ancora. Il corpo di Myers fu scosso da un tremito e un fiotto di acqua e fango le finì in bocca. Beth sollevò la testa, sputando. Myers tossì, sgranando gli occhi. Vivo. Beth cercò a tentoni un punto dove afferrarlo. Trovò un braccio, una manica. Lo seguì fino all’ascella e cercò di sollevarlo in piedi. Myers continuava a tossire. «Dobbiamo allontanarci» sussurrò lei, cercando di sorreggerlo. «Sta per crollare tutto». Myers continuò a tossire, respirare e tossire, ma provò a muovere i piedi in avanti. Il tentativo fu così scoordinato che Beth rischiò di cadere a terra. Sbatté contro il muro, si puntellò a questo e riconquistò l’equilibrio. «Muoviti, dannazione!» sibilò, spingendolo avanti. Myers appoggiò una mano contro il muro e iniziò a trascinarsi in avanti. Continuava a tossire e respirava in modo irregolare. Ogni respiro gli provocava una sorta di penoso risucchio. Beth lo teneva stretto per una mano, il braccio di lui sopra le sue spalle, trascinandolo e sorreggendolo nello stesso tempo. Avanzarono nel buio per un tempo che le parve interminabile. Avanti e avanti, nell’oscurità quasi totale. L’acqua nella quale affondavano i piedi si fece via via più fredda, l’aria più respirabile, per quanto fetida e malsana. Adesso il sudore le si raffreddava addosso, i capelli gocciolavano per l’umidità. Il rumore dell’incendio non si sentiva più, in compenso c’erano strani suoni, come di gocciolii lontani. «Fe…» rantolò Myers. «Fermati… ti prego…». Beth ci pensò un istante. Erano abbastanza lontani dall’incendio? Erano relativamente al sicuro? Forse sì. Si fermò e sentì Myers che scivolava verso il basso. Sentì il tonfo di lui che cadeva nell’acqua, poi un muoversi disperato di piedi e di mani, mentre cercava di appoggiarsi contro il muro. Chissà dove cazzo era finita la pistola che Beth aveva nei pantaloni. Doveva averla persa quando era caduta. Il lato positivo era che anche Myers era disarmato. Lo sentiva respirare attaccato al muro. Tossì ancora e sputò qualcosa nell’acqua. «Merda» imprecò, con voce roca. Sentì come un rumore di sfregamento e pensò che forse stava cercando di togliersi il fango dalla faccia. Forse. Si sedette contro il muro accanto a lui e disse: «Dammi la mano». Lui emise una risata gorgogliante. «Che cos’è, una dichiarazione d’amore?». «Dammi quella cazzo di mano!» gridò Beth allungando il braccio verso di lui. Lo urtò con il gomito. «Ecco! Ecco la cazzo di mano!». Sentì qualcosa di viscido che le serrava le dita. «Puttana la miseria, hai ancora voglia di giocare a guardie e ladri?». Lei si limitò a stringere le sue dita tra le proprie. Myers respirò ancora, rumorosamente. «Senti…» disse alla fine, in tono conciliante. «Non riesco a respirare… non riesco a reggermi in piedi… non vedo un accidenti di niente e non so dove sono… secondo te dove posso scappare?». «Non lo so» rispose Beth «ma tu continua a non mollare la mia mano». Lui tossì ancora. «Siamo da qualche parte sotto alla Infotech…» disse lei, solo per coprire il rumore della sua tosse e del gocciolio dell’acqua. «No» rispose Myers. «No, non possiamo essere ancora sotto l’Infotech. Farebbe più caldo. Là sopra è tutto in fiamme, ricordi? Grazie ai tuoi preziosi amichetti». «Ormai saranno arrivati i pompieri» replicò lei, senza badare all’ultima frase. Che l’edificio fosse stato preso di mira con i razzi incendiari era qualcosa che non andava giù neanche a lei. «Sì, i pompieri… immagino…» Myers tossì ancora. «Anche se sono arrivati che cosa vuoi che facciano? Di certo non possono spegnere quella roba. Ma scommetto che non li hanno chiamati». Beth rimase in silenzio. Sì, questa possibilità esisteva. «In ogni caso non siamo più sotto l’Infotech. Impossibile. Secondo me siamo almeno un chilometro più a sud». «Ah sì? E su che cosa ti basi, Sherlock? Hai contato i tuoi passi?». Lui si limitò ad ansimare. «Ti senti bene?» chiese Beth, preparandosi mentalmente per una trappola. Lo sentì che le si accasciava contro, mezzo tossendo e mezzo sibilando. Merda, pensò, forse ha davvero dell’acqua nei polmoni. Gli appoggiò una mano sulla schiena e sentì che era scosso dalla tosse. Merda, pensò di nuovo. La sua mano adesso le stava artigliando il dorso. Beth si svincolò e cercò di posizionarlo su un fianco, sulla sottile striscia asciutta accanto al muro. Gli tappò di nuovo il naso e per la seconda volta in poco tempo gli soffiò di nuovo aria nei polmoni. Myers tossì ancora e sputò dell’acqua. Stavolta Beth riuscì a spostarsi in tempo. «Merda… oh, merda…» sussurrò, appoggiando una mano a terra e sollevandosi un po’. Ansimava. Però adesso non emetteva più l’orrendo suono gorgogliante che lo accompagnava da quando l’aveva rianimato la prima volta. «Riesci a respirare?» chiese Beth. «Sì, più o meno… adesso sì». «Bene. Allora alzati. Voglio trovare un’uscita». Lui rimase un secondo in silenzio, forse cercando di guardarla, nel buio. Ovviamente non poteva vederla. «Okay. Ascolta» disse alla fine. «Mi hai salvato. Va bene… sei una stronza. Una spia. Ma mi hai salvato la buccia, okay? Non scappo. Ti giuro che non scappo…» «Non so che cosa farmene dei tuoi giuramenti». «Ho sempre rispettato la parola data». «Stronzate». «Okay. Come vuoi. Non mi sento bene, chiaro? Sto male. Non sto mentendo. Ascoltami… possiamo camminare… un altro po’. Possiamo… cercare un posto asciutto… un… non lo so. Adesso è notte. Saranno le undici, massimo mezzanotte». Beth pensò alla cronologia degli eventi. Quando era scoppiato l’incendio potevano essere le dieci di sera. Aveva perso i sensi quando era caduta nella galleria, ma non poteva essere rimasta svenuta per molto. Quando aveva trovato Myers era ancora vivo e nessuno può rimanere vivo più di cinque o sei minuti, senza respirare. Quindi… sì, potevano essere le undici, forse qualcosa in più. «Finchè non sorge il sole non abbiamo nessuna possibilità di uscire di qui. Dietro c’è l’incendio… e anche se non c’è più l’incendio il soffitto sarà crollato». Anche questo era vero. «Non sappiamo dove arriva questo tunnel. Forse fino al cazzo di fiume. È probabile, no? È in lieve discesa… è verso sud…» «Va bene. Dove vuoi arrivare?». Myers sospirò. «Voglio dire… che, okay, camminiamo fino a un posto un po’ più asciutto. Poi fermiamoci. Fino a domattina». Un altro sospiro. «Per favore». Beth riflettè velocemente sulla proposta. Non che lei fosse in perfetta forma, anche se non c’era bisogno che Myers lo sapesse. La gamba sinistra le faceva un male dell’inferno e ogni muscolo del suo corpo doleva all’inverosimile. «Finché non c’è luce non possiamo trovare un’uscita. L’aria viene da qualche parte… magari c’è un tombino proprio sopra di noi, ma non lo vediamo. Fermiamoci» aggiunse Myers. «Okay» disse Beth. «Okay?» ripetè l’altro, incredulo. «Sì. Alzati. Troviamo un posto all’asciutto. Ma se provi a scappare…» «Non scappo. Non posso». «Okay. Dammi la mano». Sentì che le toccava un braccio e che poi scendeva fino alla sua mano. «Bene. Andiamo». +++ Le sembrava di aver vagato al buio per decenni, con i piedi che annaspavano nel fango, la mano viscida di Myers stretta nella sua e la gamba che le trasmetteva fitte di dolore ogni volta che faceva un passo. Alla fine aveva sentito che il muro sul quale appoggiava la mano si interrompeva. Probabilmente quello era un canale di scarico, dovevano esserci delle stanze ogni tanto, per le piene. Sentì sotto ai piedi un paio di gradini. Faticosamente, li salì, tirandosi dietro Myers. Percorrendo a tastoni l’intero perimetro della stanza si rese conto che doveva essere larga suppergiù quattro metri, lunga altrettanto. Il terreno era polveroso e umido, ma non bagnato. «Sdraiati qui, contro la parete» ordinò. Myers obbedì. Beth cercò di strappare una manica della sua camicia, senza riuscirci. «Che cosa vuoi fare?» chiese Myers. «Rimani sdraiato» rispose lei. «Sto per perquisirti». «Al buio?». «Sì». «Non ho armi». Beth iniziò a far scorrere le mani sulle sue caviglie. «Scusa se non ti credo. Un coltello mi verrebbe proprio comodo, in questo momento». «Sì, be’… anche a me». Lei gli tolse le scarpe e gli tastò i piedi. Poi perquisì l’interno delle scarpe. Niente. Risalì meticolosamente sù per le gambe. Niente, dannazione. Niente. Cosce, inguine, tasche anteriori. Niente. Torace, braccia, collo. Niente. «Sei contenta adesso?». «No». «Ti giuro che in bocca non ho niente. Per non parlare di altre parti. Guarda che non sono mica un prestigiatore». «Non intendevo quello. So che non hai niente, solo che non sono contenta». «Dimmi che cosa vuoi fare». «Stracciare una manica della mia camicia». Myers sospirò. «Non dovrei aiutarti. So già che cosa vuoi fare. Ma dammi quella manica». Beth gliela porse. Sentì tirare e la stoffa che si strappava. «Ecco. Legami». «Dammi il polso». Lui obbedì. Beth prese la striscia di stoffa e se la legò attorno ad un polso, poi legò l’altro capo al suo. Così, se avesse provato ad andarsene, l’avrebbe svegliata per forza. Non credeva di riuscire a stare sveglia. Non adesso che aveva smesso di camminare. Si sdraiò accanto a lui, approssimativamente alla stessa altezza, nell’angolo. Se avesse voluto andarsene avrebbe dovuto sfare il nodo e poi scavalcarla. Improbabile che non si svegliasse. Certo, poteva strangolarla… meglio non pensarci. Il suolo era polveroso e umido, ed erano legati in modo tale che non poteva cambiare posizione. Malgrado ciò chiuse gli occhi e si sentì assalire dalla stanchezza. Non che ci fosse differenza tra avere gli occhi chiusi o aperti. Il sonno le arrivò addosso a lente ondate. Si svegliò dopo quelli che le parvero pochi instanti, rabbrividendo. Il terreno le sembrava freddissimo, ora, e non c’era parte del suo corpo che non fosse decisamente intirizzita. Merda, pensò, prima il caldo e poi il freddo… che cosa manca ancora? «Sei sveglia?» sentì sussurrare. «Sì». «C’è un freddo fottuto, in questo posto». «Già, be’… me ne sono accorta anch’io». Lui rimase un secondo in silenzio. Beth sapeva perfettamente a che cosa stava pensando. Ci stava pensando anche lei, ma non si sarebbe mai piegata al punto di chiederlo. Lo avrebbe fatto lui. Myers era fatto così: il proprio benessere prima di tutto. «Senti, ti dispiace se ti abbraccio? Giuro che non intendo strozzarti nel sonno». Esatto. Beth non si era sbagliata. «Okay» disse. «E tieni le mani a posto, intesi?». Myers le appoggiò un braccio intorno alla vita e le si strinse contro. Infilò la testa vicino alla sua spalla. Beth poteva sentire il suo fiato caldo sul collo. Non poteva dire che non le facesse piacere. «Con tutto il rispetto, per me sei e rimani uno sbirro. Se ti tocco è solo perché emetti calore». «Ah, be’. Invece era il mio sogno d’infanzia dormire appiccicata a un assassino». «Dovevi essere una strana bambina». Beth sbuffò. Lui infilò una gamba in mezzo alle sue, facendola irrigidire. «Stai buona» le disse. Lei si rilassò leggermente, anche se si sentiva profondamente a disagio. Nell’arco di pochi minuti lo sentì che ronfava. Subito dopo si addormentò anche lei.

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