CAPITOLO 1: BUCO NELLA MEMORIA
CAPITOLO 1: BUCO NELLA MEMORIA
Il dottor Praxton sorrise cordialmente e indicò una sedia alla ragazza mora e alta. Le fissò addosso i suoi occhi grigi mentre lei si accomodava su una sedia di pelle imbottita, oltre la sua scrivania con ripiano in vetro. La assicurò che avrebbero iniziato presto. Sembrava sinceramente dispiaciuto quando si scusò con lei per non aver avuto la possibilità di rileggere gli appunti che aveva preso durante la loro ultima seduta, spiegando che l’incontro precedente gli aveva richiesto più tempo del previsto.
Il dottore aveva l’abitudine insana di puntare i suoi occhi su quelli della ragazza troppo a lungo, creandole disagio. Anche adesso i suoi occhi si soffermarono su di lei per diversi secondi prima di tornare alle sue carte. Guardare negli occhi grigi di
Praxton la innervosiva sempre, inducendola a retrocedere e a distogliere lo sguardo. Alcune volte abbassava gli occhi consapevolmente, fissandosi le mani per evitare di affrontare direttamente il suo sguardo. Non riusciva a descriverlo, ma pensava di notare qualcosa di strano e familiare in quegli occhi, che non sembravano corrispondere alla sua persona e al suo atteggiamento gentile e professionale.
Le sedute con quel dottore sapevano essere estenuanti, dolorose ed imbarazzanti. E le avrebbe interrotte molto tempo prima se non avesse avuto una buona ragione per continuarle: lui pareva in grado di accedere ai suoi pensieri più reconditi, che lei da sola non riusciva a raggiungere. E ciò la sbalordiva. E la terrorizzava, anche. Si ricordava che dopo mezz’ora dall’inizio della loro prima seduta si era già sentita completamente nuda e vulnerabile, ma subito anche più pulita, proprio come un bambino sporco dopo un bel bagno.
Appena si sedette a sfogliare una rivista di moda che aveva preso dal tavolino, trattenne una risatina nel vedere tutte le pubblicità di intimo sexy con pose seducenti. Pensava che fossero mirate a suscitare timore reverenziale e ammirazione da parte dei meno dotati fisicamente, come lei. Si stupiva sistematicamente della compiacenza con cui le donne accettavano il ruolo che gli uomini avevano definito per loro, quello di giocattoli sessuali. E della loro totale dedizione a quel ruolo. Gli uomini le guardavano con lussuria, ci sbavavano sopra, le esibivano, ci giocavano, le schernivano, e poi, quando le loro tette e il loro culo iniziavano a cadere, queste povere donne dovevano accettare il loro destino, cioè essere gettate via per un giocattolo più attraente. Scosse il capo costernata pensando ai livelli ai quali le donne arrivavano pur di piacere al sesso opposto. E a come tutte le modelle alla moda delle riviste femminili fossero perfette testimoni di questo fatto triste.
Mentre il dottor Praxton continuava a rivedere i suoi appunti dell’ultima seduta, lei chiuse la rivista e la rimise sul tavolino. Si sentiva ansiosa, incapace di accettare il suo desiderio di parlargli di Alan, lo scopo principale della sua visita. Voleva essere rassicurata del fatto che qualunque cosa avesse rivelato su Alan non sarebbe mai uscita da quell’ufficio.
«La scorsa volta mi hai accennato ai tuoi problemi di sonno», esordì Praxton, alzando lo sguardo dalle sue note.
«Sì, riesco a dormire solo alcune ore, al massimo. Spesso mi sveglio nel cuore della notte e non riesco a riaddormentarmi.»
«Stai continuando a prendere i medicinali che ti ho prescritto, vero?»
«Sì.»
«Due compresse al giorno, una al mattino e una alla sera rigorosamente.»
«Certo, dottore», disse lei con la voce di una ragazzina annoiata, stufa dei rimproveri dei genitori.
«E durante il giorno ti senti mai assonnata?»
«Non proprio. Mi sento nervosa, provo a sdraiarmi, a rilassarmi e a fare un pisolino, ma niente.»
«Hai perdita di appetito?»
«No.»
«E perdite di peso? Sembri dimagrita.»
«Ho perso mezzo chilo, forse. Ma vado a correre, quindi è normale.»
«Allora va bene. Devi proseguire con la tua cura, discuteremo del dosaggio nella prossima seduta.»
All’esterno il sole stava calando rapidamente. La luce soffusa che filtrava attraverso le veneziane dipingeva strisce d’ombra spesse sulle pareti bianche.
«Vorrei continuare da dove abbiamo interrotto durante la nostra ultima seduta. Mi avevi detto dei tuoi nonni, che ti hanno cresciuto da quando avevi undici anni, giusto?... Oggi vorrei che parlassi dei tuoi primi anni, e in particolare dei tuoi genitori. Puoi dirmi cosa ricordi di loro?»
Quei suoi occhi. Di nuovo sembravano penetrarla. Già dal primo incontro con lui aveva notato come si fosse subito fissato con i suoi piercing. Gli occhi del medico seguivano il bilanciere della sua lingua ogni volta che parlava. E da lì sfrecciavano verso il piercing d’argento nel naso. Il piercing non era così grande da attirare l’attenzione: era solo un piccolo anello carino collegato a una minuscola perla d’argento.
Gli occhi dell’uomo non si mossero dai suoi mentre aspettava che lei aprisse bocca. Notò che il lato sinistro del suo viso era coperto da strisce indistinte. Le dava un’impressione inquietante, come se la loro seduta si stesse svolgendo nella cella di una prigione. Inoltre, la luce nella stanza si era molto affievolita.
«Potrebbe accendere le luci, per favore? Mi sentirei più a mio agio... la luce debole mi deprime», disse mentre si sistemava sulla sedia e ascoltava il cigolio del cuoio sotto di lei.
«Certamente». L’uomo si alzò da dietro la scrivania, si avvicinò al muro e accese l’interruttore della luce.
Non si era mai resa conto di quanto fosse alto Praxton. Era più o meno quanto lei, poco meno di un metro e ottanta. E magro.
«Allora, parlami dei tuoi genitori...» disse, rimettendosi a sedere sulla sedia.
Ma lei non era venuta per parlare dei suoi genitori. Forse era la domanda tipica degli strizzacervelli: gli strizzacervelli avevano questa fissa dei genitori, come se i problemi di tutti potessero essere ricondotti alle cure parentali.
«Preferirei non approfondire il mio rapporto con i miei genitori: la loro storia non è un argomento comodo da discutere. In realtà, avevo un altro tema in mente...», disse, incrociando le mani in grembo e raddrizzando la sua corporatura esile come una studentessa desiderosa, ma ansiosa, in attesa di rivelare un segreto ben custodito.
Per una frazione di secondo, pensò di aver visto i suoi occhi vagare sui suoi seni, premuti contro la sua sottile camicetta di rayon. Le sue dita corsero automaticamente al bottone in alto, ma lo trovarono chiuso.
«Come desideri. E quale argomento sarebbe?»
«In primo luogo, presumo che tutto ciò che potrei dirle sia protetto dal segreto professionale...»
«Sì, è corretto. La tua storia medica, qualsiasi disturbo o condizione che potresti avere, e qualsiasi informazione correlata riguardante queste sedute di terapia: in breve, tutto ciò che mi riferirai durante i nostri incontri non sarà divulgato a nessuno senza il tuo permesso. Incluse, ovviamente, tutte le mie osservazioni su di te durante le nostre sedute.»
«Quindi, qualunque cosa le dica non uscirà da quest’ufficio?»
«Esatto. Lo scopo della riservatezza è garantire che i pazienti possano fidarsi dei loro medici: senza quella fiducia, i loro medici non potrebbero aiutarli molto. E, lo capisci, aiutarli significa avere accesso a informazioni private...»
«Ci sono eccezioni?»
Ricordava di aver sentito o letto qualcosa su certi pazienti che avevano pianificato, assistito o messo in atto dei crimini, e che non erano stati coperti dal segreto professionale.
«Beh, ci sono e non ci sono... dipende dal dottore...»
«Non capisco…»
Unì le mani e iniziò a strofinarsi l’indice contro il pollice, un’abitudine nervosa che Praxton doveva aver colto… lei se ne era accorta, dato che gli occhi del dottore erano subito balenati sulle sue mani.
«Se le autorità ritengono che un paziente abbia rivelato al suo medico di aver commesso un reato, o che stia per commettere un reato, possono cercare di costringere il medico a riferire informazioni rilevanti. Tuttavia, alcuni dottori non lo fanno comunque, perché credono che aiutare i loro pazienti abbia la priorità su tutto.»
«E lei», chiese con un leggero tremito nella voce, «dove si colloca?»
«I tuoi segreti sono al sicuro, con me. Metto al primo posto il benessere dei miei pazienti. E, se ti aiuta saperlo, lo antepongo anche alla legge.»
Gli angoli delle sue labbra si ripiegarono verso l’alto, formando un sorriso gentile e paterno per rafforzare il concetto che i fatti personali e privati della ragazza erano in mani sicure.
Lei inspirò profondamente e poi emise un piccolo sospiro impercettibile. Non aveva potuto dormire molto da quando Alan aveva cominciato a vaneggiare, spaventandola a morte. Finalmente, aveva qualcuno con cui parlarne.
«Dottore, c’è questo mio amico che è molto coinvolto nella politica.»
Non aveva voglia di entrare nel merito del loro vero rapporto, per cui scelse di riferirsi ad Alan chiamandolo amico.
«Non intendo la politica nel senso tradizionale… le sue idee sono più estreme. Si descrive come un anarchico. E devo ammettere che condivido certe sue convinzioni. Una in particolare...»
«Quale?», chiese lui con un sorriso confuso.
«Che i governi sono piuttosto inefficaci.»
«Perché lo pensi?»
«Perché spesso proteggono le persone sbagliate. Nel mondo non ci sono governi fatti dalla gente e per la gente, ma governi retti da pochi e per pochi. Se lei non è d’accordo con la visione di Alan e mia, non fa niente: quello che le sto dicendo è che ho bisogno della sua parola sulla riservatezza di queste informazioni.»
«Puoi stare tranquilla. Quello che mi racconterai rimarrà tra noi due.»
«Ok. Per prima cosa, deve sapere che sono stata un membro attivo di Anonymous, il gruppo di hacker attivisti. Sono sicura che ne avrà sentito parlare. Magari avrà anche sentito notizie su OpIsrael… che sta per Operazione Israele. La CNN se n’è occupata, qualche volta.»
«Non posso dire di sì… per favore, aggiornami tu.»
Lei ebbe uno strano senso di deja vu: che lui già sapesse di cosa si trattava, che ne avessero già parlato prima. L’idea che stava soltanto rivivendo un’esperienza precedente le fece provare un improvviso stordimento, e allo stesso tempo sentì il suo cuore battere forte.
Chiese al dottore di aspettare un attimo. Poi si mise la testa tra le ginocchia e tirò un paio di sospiri profondi per schiarirsi la mente. Magari era colpa direttamente delle medicine, o erano gli effetti collaterali delle stesse medicine. Attese che le sue vertigini finissero e che il suo battito cardiaco tornasse regolare.
Il dottore non disse una parola. Si accomodò in silenzio, apparentemente in attesa che lei da un momento all’altro si riprendesse.
Appena la ragazza sentì di essersi calmata, sollevò la testa, si schiarì la gola e continuò a parlare, con una voce flebile e roca, quasi senza fiato.
«Ascolti...», fece un momento di pausa, per raccogliere i pensieri, «le notizie mainstream non raccontano l’intera storia, assolutamente. Dicono solo che Anonymous ha causato dei danni. Ma nulla o quasi sul perché. Niente sulle dozzine di cittadini palestinesi uccisi in un attacco su Gaza durato 8 giorni. No, tutto questo viene omesso. Invece, sull’attentato di Anonymous alla Borsa israeliana la CNN e la FOX ti fanno un rapporto dettagliato. Così come fanno i siti online del governo israeliano. Lì raccontano tutta la storia, per 24 ore al giorno. E ovviamente non fanno mai alcun collegamento tra le atrocità commesse da Israele e gli attacchi di Anonymous.»
«Capisco. Quindi, Alan è coinvolto nel cyber-terrorismo contro lo Stato d’Israele. Ma, secondo te, per una giusta causa.»
Per un istante la ragazza pensò che lui fosse irriverente: come se Alan fosse un nerd folle che affrontava lo Stato d’Israele. E Praxton doveva aver notato la reazione di lei, dato che aggiunse rapidamente ai suoi commenti: «Sembra una roba seria. C’è dell’altro?»
«Sì.»
A quel punto lei deglutì a fatica e all’improvviso sentì di dubitare della sua affidabilità. Era un ebreo e forse si era offeso per la sua posizione su Israele. Ma se ci aveva riflettuto su un minimo non doveva esserlo, perché anche lei era ebrea, e lui lo sapeva. Ma sapeva pure che non era una sionista.
Così decise di andare avanti. Lo vedeva da anni, e questo doveva pur valere qualcosa... doveva solo rischiare un po’.
«Un paio di settimane fa, Alan ha accennato all’abbandono di Anonymous e alla formazione di un gruppo suo. Ma è proprio il tipo di gruppo che sta pensando di formare che mi terrorizza.»
«Ah.»
«Sì… circa due anni fa ha iniziato ad interessarsi al MEAM. Si è anche schierato con il suo leader in alcuni forum su Internet. Ha sentito parlare del MEAM, vero?»
«Non tanto...»
Di nuovo, ebbe la sensazione che qualcosa non andasse bene, o, per dirla come gli ebrei, che fosse non kosher. Avvertì che lui o si stava trattenendo o probabilmente stava mentendo. Ma perché? Perché un terapeuta dovrebbe mentire ad un paziente? No, si stava sbagliando: lui non le aveva mai dato alcuna ragione per non fidarsi di lui.
«Ricordo vagamente di aver letto qualcosa sul MEAM in un giornale. Il MEAM era un’organizzazione terroristica che uccise alcuni amministratori delegati di alto livello coinvolti in affari sospetti. E forse pure degli innocenti. Giusto?»
«Corretto. Ad ogni modo, quando il leader del MEAM è stato ucciso in un’operazione dell’FBI, ho pensato che Alan avesse perso interesse per il movimento e i suoi obiettivi.»
Chiuse gli occhi per alcuni secondi e iniziò a massaggiarsi i bulbi oculari con il pollice e l’indice. All’improvviso le era venuto un leggero dolore nel lobo frontale. Quando riaprì gli occhi, l’immagine del dottore era completamente sfocata: era come osservarlo attraverso il fondo di un bicchiere d’acqua. Riusciva a malapena a distinguere la sua faccia. Sbatté le palpebre diverse volte finché la sua immagine tornò a fuoco.
«Perso interesse, hai detto?»
La sua domanda suonava puramente retorica, come se sapesse già dove lei stava andando a parare.
«Beh,» disse con una leggera smorfia, «secondo Alan l’affermazione che il MEAM abbia ucciso persone innocenti non è del tutto esatta. Alan crede che gli uomini d’affari vittime dell’attentato all’hotel fossero complici perché stavano sostenendo un’azienda coinvolta nel genocidio. Io ho pensato che ciò fosse pazzesco. Ma poi, l’altro giorno mi ha detto qualcosa di ancora più strano sull’attentato a Mickey Poore… conosce il politico che è stato ucciso due anni fa in una manifestazione politica nel Vermont?… Ecco, Alan mi ha detto di non ritenere il MEAM responsabile dell’attentato. A parer suo è l’FBI che lo ha fatto passare per colpevole.»
«E che mi dici di questo nuovo gruppo che starebbe pensando di formare?»
«Sì… beh, non è stato molto chiaro su questo. Tranne una cosa che ha detto, e che mi ha fatto battere il cuore.»
«Cosa?»
«Ha detto che il MEAM faceva bene a prendere di mira gli amministratori delegati che commettono crimini contro l’umanità, sia favorendoli indirettamente sia sostenendoli direttamente. Ha detto che era l’unico modo in cui i ricchi bastardi potevano essere obbligati a pagare, perché i loro governi li proteggevano e in molti casi erano persino complici.»
«Complici?»
«Sì, complici per motivi egoistici.»
«Ricordo che una delle vittime del MEAM era un produttore di armi. È questo che Alan intende per complici?»
All’improvviso il dottore parve imbarazzato, come se avesse commesso un errore.
«Mi aveva detto di non aver mai sentito parlare del MEAM», rispose sbigottita la ragazza.
Poi aspettò qualche secondo che lui rispondesse.
«Non ne so molto. Solo qualcosina qua e là, che ora ricordo vagamente, letta sui giornali... perciò, il tuo amico ha intenzione di fare lo stesso del MEAM?»
«Non lo so. Forse... Alan dice che il MEAM avrebbe potuto evitare morti accidentali, e che il leader del MEAM era uno sciatto. Quando gli dico che la violenza non è mai la soluzione, s’imbroncia e mi risponde che devo vedere il quadro più ampio. Questo è ciò che mi spaventa: il suo fanatismo. Non so cosa fare...»
«Credi che sia pericoloso, allora?»
«Penso che stia pianificando qualcosa, ma non si confiderà con me. Quando gli ricordo il disastro creato dal MEAM, si comporta come se non capissi. E non credo che si fidi di me: si tiene sempre di più le cose.»
Poi disse quasi in lacrime: «E non sopporto quello che sta succedendo tra noi. Ecco perché le sto aprendo il mio cuore... spero che lei possa darmi una risposta.»
Si guardò le mani. Si era creata una macchia rossa sul dorso del pollice.
«Quindi, pensi che Alan potrebbe avere in programma di continuare quello in cui il MEAM ha fallito?»
«Spero di no. Ma se è così, come potrei fermarlo? Ho davvero bisogno di aiuto, cioè bisogno di aiutarlo, ecco. Gli voglio bene, ma temo per lui e per quello che gli passa per la testa.»
«Quindi, credi davvero che Alan stia pensando di uccidere qualcuno?»
«Non lo so! Sì! No! Forse!», gridò istericamente. «Senta, se vuole farlo io devo fermarlo. Anzi, noi dobbiamo fermarlo!»
«Va bene, ascolta... qualcosa faremo. Per favore, non agitarti troppo. Credi che accetterebbe di sottoporsi ad una seduta con me?»
«Non lo so... forse... ma deve essere una sua iniziativa. Non posso costringerlo a vederla», disse, asciugandosi una lacrima solitaria che si era raccolta sulla coda dell’occhio.
«Se accetterà di vedermi, non posso prometterti che lo potrò dissuadere… ma farò del mio meglio. Da quello che mi hai detto, ha bisogno di un aiuto professionale, il prima possibile.»
«Grazie dottore.»
Poi, con voce paterna, Praxton disse: «Politica a parte, Alan ha bisogno di capire, come hai già detto tu, che uccidere non è mai una risposta.»
«Spero solo che capisca che è nel suo interesse incontrarla.»
«Anch’io.»
«Grazie, dottore», disse, con una sincera gratitudine.
«Bene, e ora parliamo di te... considerando lo stress cui sei sottoposta, vorrei che aumentassi il dosaggio a tre compresse da 200 mg al giorno.»
«Bene. E, dottore, se Alan accetta di chiedere il suo aiuto, preferirei non venire con lui: non voglio che senta che gli sto facendo pressione.»
«Sì, hai ragione. Probabilmente sarebbe meglio se tu non fossi presente.»
Esausta dopo quasi un’ora con il dottore, era più che pronta a terminare la seduta. Il dolore alla fronte le suggerì di prendere un analgesico mentre tornava a casa.
Il dottore le chiese se le sarebbe piaciuto sdraiarsi sul divano per qualche minuto. Dal momento che non aveva programmato altri incontri, l’area della reception sarebbe rimasta vuota. Lei acconsentì e lui la accompagnò alla porta.
* * *
Quando aprì gli occhi, la stanza era completamente buia. Il suo intero corpo si tese quando all’improvviso capì il luogo familiare in cui si trovava. Si alzò lentamente a sedere, fissando intorpidita il cielo color inchiostro fuori dalla finestra. Pochi minuti prima, era sdraiata sul divano nell’area della reception fuori dall’ufficio del dottor Praxton! Stare lì era impossibile, a meno che non fosse stata in qualche modo teletrasportata dal suo ufficio. Cercò disperatamente di ricordare di essere salita in macchina e di essere tornata a casa, ma la sua mente non rispondeva.
Accese la lampada da tavolo e guardò l’orologio. Segnava le sei e quarantacinque. Ma come poteva essere?... Ciò significava che aveva lasciato lo studio del dottor Praxton quasi due ore prima. Il suo cuore iniziò a battere all’impazzata. Come poteva aver perso il conto di tutto quel tempo? Affondò le unghie nel bracciolo del divano. Aveva bisogno di calmarsi. Aveva già sperimentato vuoti di memoria in precedenza, ma erano brevi e di solito era in grado di ricordare quanto successo poco tempo prima. Nulla di paragonabile a quel momento: era una situazione spaventosa. Cristo, forse aveva un tumore al cervello! Avrebbe chiesto al dottore di prenotarle una TAC.
Sentendosi totalmente spaesata, si alzò dal divano e camminò barcollando verso la cucina, quasi perdendo l’equilibrio. Tenendosi all’isola della cucina, riuscì a stabilizzarsi. Guardinga, si diresse all’armadio sopra il lavandino, dove trovò il suo flacone di pillole. Il medico le aveva detto di aumentare il dosaggio a tre compresse al giorno. Merda. Quante ne aveva prese? Ricordava di averne assunta una al mattino dopo colazione, ma non riusciva a ricordare se avesse preso anche la dose pomeridiana. Il flacone era quasi pieno. Aveva ricevuto la ricetta appena due giorni prima, ma non c’era modo per lei di sapere quante ne avesse prese, a meno che non contasse le pillole rimaste nel contenitore.
Così lo svuotò e si mise freneticamente a contare le pillole. Ne mancavano sei. Ciò significava che ne aveva saltata una, quella dopo essere tornata a casa.
Si sentiva distrutta. La sua mano tremava mentre afferrava una pillola dal bancone e se la infilava in bocca. Riempì rapidamente un bicchiere d’acqua a metà e lo ingoiò. Doveva rimettersi in sesto. L’ultima volta che aveva sperimentato vuoti di memoria era stata mesi prima. Da quando aveva ripreso le sedute con il dottor Praxton era stata bene. Forse avrebbe dovuto aspettare l’esito della TAC, o magari avrebbe dovuto programmare più incontri con il dottore, spiegargli cosa le era successo e poi vedere cosa lui aveva da dire al riguardo.
Lasciò la cucina e andò in bagno. In piedi davanti allo specchio, iniziò a bagnarsi il viso con l’acqua fresca. Quando alzò la testa dal lavandino e guardò nello specchio, fu colta dal panico. Proprio dietro di lei, sopra la sua spalla destra, c’era Alan con un’espressione fissa che le fece gelare il sangue.