Capitolo 1-3

2432 Words
«Hai infranto il protocollo e hai gettato tutti nel panico per un maledetto spuntino? Brutto…» Agguantò il pacchetto dalle mani di Leo, ma King gli afferrò il polso, e l’espressione di Bowers da furiosa si fece sbalordita. King assottigliò lo sguardo. «Non è questo il modo di gestire la cosa.» Tolse con delicatezza il pacchetto dalla presa di Bowers e lo restituì a Leo, senza mai distogliere lo sguardo da quello dell’agente. «Perché non fa cinque minuti di pausa e mi permette di parlare con Leo?» «Bene,» esclamò Bowers con stizza. «Da adesso sarà il suo mal di testa.» Bowers se ne andò via infuriato prima che King avesse l’opportunità di rispondere. Di certo non era così che si era aspettato andassero le cose. Poi si girò, e notò che tutti li stavano guardando. Guardavano Leo, precisamente. Più che altro gli rivolgevano delle occhiatacce. La pelle chiara del giovane uomo bruciò per l’imbarazzo, gli occhi fissi sui piedi. «Tornate al lavoro,» tuonò King alla stanza, lo sguardo arrabbiato e intenso. Tutti si affrettarono a ubbidire, scattando via per rimettersi a fare ciò che avevano interrotto. «Wow. Loro… non hanno neanche chiesto chi sei, lo hanno fatto e basta. Eri un ufficiale, vero?» «Maresciallo di livello 1.» Leo annuì. «Io… ehm… mi dispiace per tutto questo.» «C’è un posto dove possiamo fare due chiacchiere?» chiese King; doveva parlare con Leo lontano da tutti quegli occhi indiscreti. Sperava di metterlo a proprio agio. L’ansia di Leo era chiara dal modo in cui il giovane spostava il peso da un piede all’altro e tamburellava le dita contro la gamba. «Sì, certo.» Leo indicò con la testa oltre le spalle di King; superarono file su file di postazioni di lavoro, dove gli analisti erano raggruppati davanti a parecchi monitor. Ogni postazione sembrava essere stata colpita da un piccolo uragano: c’erano vari laptop sparsi e più fili di quelli che King avesse mai visto in vita sua, vari pezzi di hardware e pile di manuali. Quel posto aveva l’aspetto di qualsiasi altro cyber-centro di comando governativo allestito ad hoc; una parete era coperta da grossi schermi che monitoravano chissà cosa, e un’altra era piena di server. Una postazione di lavoro singola era collocata all’estremità più lontana della stanza, contro la terza parete, e King suppose che fosse quella di Leo, visto che era l’unica libera. L’illuminazione fornita da alte lampade a fluorescenza che pendevano dal soffitto era debole, e l’ambiente era perlopiù rischiarato da dozzine e dozzine di schermi. I muri e il pavimento erano dello stesso freddo cemento grigio dei corridoi all’esterno. Oltre il centro di comando c’era un’area inaccessibile da cui i soldati armati diedero un’occhiata a Leo; annuirono, lasciandolo passare, poi controllarono il nullaosta di sicurezza di King. Dopo essere stato identificato, proseguirono e girarono a destra alla fine del breve corridoio, quindi entrarono in una delle due sole porte presenti. All’interno, la stanza assomigliava a un tipico alloggio da caserma dell’esercito allestito per un’unica persona: un letto dalla struttura di ferro, che King conosceva fin troppo bene, un semplice comodino in legno, una scrivania abbinata e un armadio. Di fronte all’armadio c’era un bagno minuscolo. Il posto era spoglio, freddo e angusto con loro due al suo interno. Leo si sedette sul bordo del materasso, sembrando tragicamente fuori posto, piccolo e solo. Il comodino accanto al letto era occupato da una piccola lampada, un tablet, un paio di caricatori, una pallina nera e un Funko Pop di un tizio con i capelli marroni e gli occhi neri che indossava una maglia blu di una facoltà di scienze. «Chi è questo?» chiese King, sollevando il pupazzetto. Il sorriso di Leo era timido. «Oh, ehm, è Peter Parker.» «Perché non Spider-Man?» Leo fece spallucce, le mani allacciate tra le ginocchia, le dita intrecciate insieme. «Mi piace che si ricordi il tipo che c’è dietro la maschera. Insomma, Peter è uno qualunque, sai? Sì, è un supereroe, ma in realtà è questo ragazzo nerd goffo, fissato con la scienza e asociale, con problemi di autostima, che cerca di fare la cosa giusta e di capirsi lungo il cammino. Non ha chiesto di essere un supereroe. Che gli venissero buttati addosso tutto quel potere e quella responsabilità. Sotto agli atti eroici c’è un tizio che sta cercando di cavarsela nella vita, e nonostante tutte le tragedie che ha affrontato, trova un modo per continuare ad andare avanti, facendo battute a raffica.» King rimise con delicatezza Peter Parker sul comodino. «Sembra il mio tipo di eroe.» Leo alzò la testa di scatto, le guance che si coloravano di un rosa adorabile. «Davvero?» «Quale supereroe avresti scelto per me?» King sorrise con aria d’intesa. «Captain America?» Leo si tolse dai jeans dei pelucchi immaginari. «Non sapevo che aspetto avessi, solo che eri un soldato. Mi ricordi più Oliver Queen che Steve Rogers. Non mi sembravi il tipo da supereroi.» «Oh?» King si sedette sul materasso accanto a Leo, assicurandosi di lasciare spazio sufficiente tra di loro. Leo sollevò lo sguardo per incontrare il suo, le sopracciglia aggrottate. «Perché tu sei quello vero.» Il cuore di King inciampò. «Prego?» «Un vero eroe.» Gli occhi di Leo si colmarono di tristezza. «Mi dispiace per qualsiasi cosa ti sia successa.» Le parole di Leo lo colsero di sorpresa. «Cosa ti fa pensare che sia successo qualcosa?» «Saresti ancora nell’esercito altrimenti, no?» «Forse.» «Cos’è successo?» King si alzò e infilò le mani nelle tasche; la domanda era un crudo promemoria del perché doveva tenere le distanze. Non solo a causa di chi era Leo, ma per quello che King aveva fatto o, piuttosto, per quello che non era riuscito a fare. Prima che potesse reindirizzare educatamente la conversazione sulla ragione per cui aveva chiesto a Leo di parlare in privato, l’altro balzò in piedi. «Mi dispiace. È una cosa personale.» «Tuo padre ti ha detto nulla di chi sono o del perché sono qui?» Leo annuì prima di tornare a sedersi sul bordo del letto, il ginocchio che dondolava su e giù. «Ha detto che eri un amico, il che significa che si fida di te. Posso contare sulle dita di una mano le persone di cui si fida, e due di queste siamo io e mia sorella. Ha detto che eri un soldato, che ora sei il comproprietario di un’agenzia di sicurezza e che saresti stato qui per aiutare. Non sono del tutto sicuro di cosa significhi. Aiutare con cosa?» King si appoggiò alla parete di fronte a Leo, le braccia incrociate sul petto. «Raccontami dei cracker Goldfish.» Leo lo guardò, sbattendo le palpebre. «Ehm, sono deliziosi.» La serietà con la quale lo disse colse King di sorpresa; rise fragorosamente. Leo sorrise con esitazione. «Cosa?» «Mi dispiace.» King scosse la testa. Cosa c’era in Leo che lo metteva così a suo agio? Era un sentimento che lo confondeva e che al momento non poteva permettersi, soprattutto con lui. «Perché ti dispiace? Perché ti ho fatto ridere?» «Perché tu eri serio.» «È vero,» concordò Leo. «Non devi essere dispiaciuto che io ti abbia fatto ridere. Hai un sorriso proprio bello, a proposito. Ti illumina gli occhi e ti fa formare delle rughette ai loro angoli.» King si impose di tornare di nuovo professionale. Avrebbe dovuto stare attento con Leo. E non tanto perché il giovane ignorava le difese di King, ma perché sembrava ignaro di esse. Era una cosa stranissima. Adesso non è il momento di pensarci. «Quello che volevo dire è: raccontami cosa è successo. Come hai fatto a superare tutta la sicurezza, e perché?» «I brezel non sono cracker.» «No, infatti,» concordò King. «Insomma, è piuttosto ovvio. Non si somigliano affatto. Le consistenze sono diverse, e nonostante condividano la simpatica forma a pesce, hanno tutto un altro sapore. Inoltre i secondi hanno una carenza molto distinta di formaggio. Se avessi voluto dei brezel, avrei chiesto dei brezel. Si aspettano davvero che io creda che siano capaci di portare avanti un’operazione segreta altamente riservata da un sito segreto, che coinvolge molteplici agenzie di intelligence assieme all’esercito, ma non siano in grado di distinguere un cracker da un brezel?» «Senz’altro.» Leo lo sbirciò. «Comunque, mi hanno dato dei brezel.» «Quindi hai deciso di andare a cercare dei cracker Goldfish.» King fece segno verso il tablet sul comodino. «Riesci ad accedere alle piante dei piani di questo edificio?» «Pfft.» Leo afferrò il suo tablet e lo accese, poi inserì il codice di sicurezza seguito dalla scansione dell’impronta del suo dito. Digitò sullo schermo prima di girare il tablet e tenerlo sollevato verso King. Leo era riuscito non solo a eludere la sicurezza del bunker, ma anche del resto dell’edificio. Lui desiderava sapere come. Non voleva neanche pensare a quanto facilmente l’altro fosse riuscito a ottenere le piante dei piani dell’edificio, ovviamente senza neppure avvalersi della struttura segreta governativa. «Dov’è il distributore automatico con i tuoi cracker?» Leo digitò qualcosa sul tablet, prima di mostrarglielo. «Salottino degli impiegati. Tredicesimo piano.» Come diavolo…? «Sei arrivato fino al salottino degli impiegati del tredicesimo piano senza che nessuno ti vedesse? Come sapevi dov’era o che avevano i tuoi cracker?» «Beh, Harold, uno degli analisti del progetto e uno stronzo, è arrivato ieri pomeriggio mangiandoli perché, come ho detto, è uno stronzo, quindi sapevo che c’erano nell’edificio anche se lui non voleva dirmi dove. Insomma, chi non condivide quel tipo di notizia? Non è che volessi fregarmi tutti i cracker Goldfish. A lui nemmeno piacciono! Ma sa che sono i miei preferiti, quindi si è preso il disturbo di comprarli e mangiarli davanti a me. Chi fa una cosa simile? Uno stronzo, ecco chi. Non fidarti mai di un tipo che fa fermentare a casa il kombucha.» «Non so cosa sia,» borbottò King. «E non vuoi saperlo. Ehi, a ognuno il suo, giusto? Ma non devi essere un…» «Leo,» lo chiamò King con tono dolce ma fermo per farlo tornare all’argomento principale. «Giusto. Insomma, ho controllato gli occupanti di ogni piano, escludendo i contabili, gli avvocati, gli architetti, i broker e il dipartimento delle risorse umane di una qualche grossa catena di negozi – anche se loro avrebbe potuto avere dei cracker nei loro distributori, considerando i livelli di stress in quel posto – ma ho scommesso sul tredicesimo piano. Provano i videogiochi. È più probabile che abbiano snack divertenti a forma di animale o di qualche altra cosa.» «Non avresti potuto trovare un altro modo per controllare?» Qualcuno con le abilità di Leo avrebbe potuto scoprire facilmente dove scovare i cracker senza tirare a indovinare. Leo sembrò quasi offeso dalla sua domanda. «Certo. Pigiando qualche tasto avrei potuto tirare fuori l’elenco di tutti i distributori automatici dell’edificio e cosa contenevano.» «Allora perché non lo hai fatto?» Leo lo guardò storto. «Solo perché posso, non significa che dovrei.» Le sopracciglia di King scattarono in alto. Quello non se l’era aspettato. Tranne il suo amico Jack, aveva conosciuto un sacco di tizi esperti di computer che avrebbero colto al volo l’occasione di mettere in mostra le loro abilità. Leo era stato portato in un sito segreto per creare qualcosa per il loro governo, eppure non abusava del suo potere per dare un’occhiata agli snack dei distributori. King mise via quella piccola informazione per dopo. «Come sei arrivato lì senza che qualcuno ti vedesse?» «Una combinazione di scale e ascensori, tagliando attraverso il terzo, l’ottavo e l’undicesimo piano. Il terzo piano è in ristrutturazione, l’ottavo è libero in attesa che lo affittino e la compagnia con sede all’undicesimo piano oggi tiene l’annuale picnic degli impiegati. Si sono appena aggiudicati un grosso cliente. Buon per loro.» «Come hai ottenuto quell’informazione?» Il sorriso di Leo era ampio. «Tramite Google.» «Giusto. E come sei uscito dal bunker?» Leo scrollò le spalle. «Ho usato la porta.» «Tu…» King lo guardò di sbieco. «Che vuoi dire che hai usato la porta?» Leo fece saettare lo sguardo per la stanza prima che i suoi occhi si posassero di nuovo su King. «Uhm, ho aperto la porta e sono uscito.» Mosse le dita mimando il gesto del camminare. «Oh, c’erano delle scale. Le ho usate per salire. È questo che intendevi?» «Dov’era la sicurezza?» King aveva dovuto passare vari livelli di controlli di sicurezza per entrare nell’edificio, per non parlare di quelli nel corridoio, e Leo era uscito e basta? Leo fece spallucce. «Non ho visto nessuno. Forse erano impegnati?» Era impossibile. Avrebbe dovuto controllare i filmati della sicurezza. Era fuori discussione che il ragazzo avesse fatto una passeggiata lungo il corridoio e fosse salito di sopra senza aiuto o qualcuno che lo notasse. Prima le cose importanti. «Leo, sono qui per aiutarti in ogni modo, ma ho bisogno che tu ti fidi di me. So che ci vorrà un po’ di tempo perché succeda, ma sono sicuro che ci arriveremo.» Leo lo studiò. «Per cosa ti ha assunto mio padre, esattamente?» «Tuo padre non mi ha assunto. Gli faccio un favore personale.» L’altro sembrò confuso. «Non ti paga?» «È un amico che ha bisogno del mio aiuto. Non mi faccio pagare dagli amici.» «In che modo lo aiuti?» «Il governo fornisce un servizio di sicurezza giorno e notte. È compito loro tenerti al sicuro. È anche compito loro fare in modo che questo progetto venga completato a qualunque costo. Il loro interesse risiede nel progetto. A me interessi tu. Sono qui per te, non per loro. Mi assicurerò che tu abbia ciò che ti serve per svolgere il tuo lavoro, poi farti arrivare a casa sano e salvo.» «Quindi stai dicendo che loro sono Team Zio Sam e tu sei Team Leo.» King increspò le labbra. «Qualcosa del genere.» Il sorriso di Leo era accecante, e lui si ritrovò a ricambiarlo. Gesù, che diavolo stava succedendo? King controllò i lineamenti del proprio volto e si raddrizzò, allontanandosi dal muro e ignorando il fastidio che provò quando l’espressione gioiosa di Leo si affievolì. Qualcosa in quel giovane portava allo scoperto in lui un forte istinto di protezione, quello riservato alle persone che gli erano più vicine. Una reazione stranamente rapida, visto che lo aveva appena conosciuto. «Torniamo alla tua postazione di lavoro. Devo conoscere appieno la situazione prima di poter fare una valutazione completa. Parleremo di nuovo più tardi.» King non provava facilmente simpatia per le persone, se non affatto. Poteva essere gradevole e affascinante quando voleva esserlo. Il suo lavoro era gestire le persone. Sapere come farle sentire a proprio agio era istintivo, e rendeva più semplice il suo compito. Con Leo però era diverso. Si ritrovava semplicemente a reagire a lui, e ciò lo disturbava molto. Qualsiasi cosa fosse quello strano sentimento, doveva finire all’istante.
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