CAPITOLO V-1

2018 Words
CAPITOLO V Il giorno dopo, prima di mezzogiorno, aveva già comprato una scatola di colori, pennelli, un cavalletto. Pellerin era d'accordo di dargli lezione e Federico lo portò nel suo appartamento per controllare che non mancasse niente fra i suoi arnesi di pittura. Deslauriers era rientrato. La seconda poltrona era occupata da un giovanotto. Lo scrivano lo segnò a dito esclamando: «Guardalo, è lui in persona: Sénécal!» Il tipo non piacque a Federico. La sua fronte era allungata dalla foggia dei capelli, tagliati a spazzola. C'era qualcosa di duro e di freddo nei suoi occhi grigi; e la lunga redingote nera, tutto il suo modo di vestirsi facevan pensare al pedagogo e all'ecclesiastico. Chiacchierarono, all'inizio, dei fatti del giorno, fra le altre cose, dello Stabat di Rossini. Sénécal, interrogato, dichiarò che non andava mai a teatro. Pellerin apri la scatola dei colori. «È per te, tutta questa roba?» Disse lo scrivano. «Certo.» «Toh! Che idea.» E si chinò sul tavolo, dove il ripetitore di matematica stava sfogliando un volume di Louis Blanc che s'era portato dietro. Ne leggeva, a voce bassa, qualche brano, mentre Pellerin e Federico esaminavano insieme la tavolozza, la spatola, i tubetti di colore. Dopo di che passarono a discorrere del pranzo dagli Arnoux. «Chi, il mercante di quadri?» S'informò Sénécal. «Un bell'esemplare davvero!» «E perché?» Chiese Pellerin. Sénécal insistette: «Uno che batte moneta con turpitudini politiche!» E si mise a raccontare d'una famosa litografia, che rappresentava la famiglia reale dedita a occupazioni edificanti: Luigi Filippo con in mano un codice, la regina con un libro di preghiere, le principesse ricamavano, il duca di Nemours si allacciava la spada e il signore di Joinville mostrava una carta geografica ai fratelli più piccoli; sullo sfondo, campeggiava un letto a due piazze. Quell'immagine, intitolata Una buona famiglia, aveva fatto la delizia dei borghesi, ma irritato i patrioti, Pellerin, con un'aria piccata come se fosse stato lui l'autore, replicò che un'opinione vale l'altra; Sénécal protestò. L'arte doveva tendere esclusivamente alla moralizzazione delle masse; bisognava riprodurre solo i soggetti che spingono ad azioni virtuose; gli altri eran tutti nocivi. «Ma dipende dall'esecuzione!» Gridò Pellerin. «Posso arrivare a produrre dei capolavori...» «Nel qual caso, peggio per lei. Non si ha il diritto...» «Che cosa?» «Nossignore! Non avete il diritto di farmi interessare a cose che io riprovo. Che bisogno abbiamo di tante laboriose frivolezze dalle quali non si riesce a cavare il minimo profitto; di tante Veneri, per esempio, e di tutti i vostri paesaggi? Io non ci vedo il minimo insegnamento per il popolo! Mostrateci le sue miserie, piuttosto! Entusiasmateci ai suoi sacrifici! Santo Iddio, non sono i soggetti che mancano: la fattoria, il laboratorio...» Per la rabbia, Pellerin balbettava; credendo d'aver trovato un argomento, sbottò: «E Molière, non lo accetta?» «Perché no?» Disse Sénécal. «Lo ammiro come precursore della rivoluzione francese.» «Bah! La rivoluzione! Bella arte davvero, non c'è mai stata un epoca più penosa.» «Mai una più grande, signore.» Pellerin incrociò le braccia e, guardandolo fisso in faccia: «Mi ha l'aria d'una guardia nazionale, fatta e finita!» L'avversario, che era abituato alle discussioni, replicò: «Però non lo sono e le detesto quanto lei. Ma con principi come questi si corrompono le folle. Il che va tutto a vantaggio del governo, d'altra parte! Non sarebbe certo così forte senza la complicità di una massa di buffoni come quel tale.» Il pittore, esasperato dalle opinioni di Sénécal, si mise a difendere il mercante. Ebbe persino il coraggio di sostenere che Jacques Arnoux era un autentico cuor d'oro, devoto agli amici, affettuosissimo con la moglie. «Oh, oh! A offrirgli una bella somma, non si rifiuterebbe di farle far da modella.» Federico diventò pallidissimo. «Si direbbe che le abbia fatto un gran torto, signore.» «A me? Nient'affatto. L'ho visto una volta, con un amico, al caffè, ecco tutto.» Era vero, ma Sénécal si sentiva irritato, quotidianamente, dalla pubblicità de L'Art industriel. Arnoux rappresentava, ai suoi occhi, un mondo funesto alla democrazia. Repubblicano austero, sospettava di corruzione qualsiasi forma d'eleganza; d'altra parte, non ne aveva bisogno, ed era di un'onestà inflessibile La conversazione stentava a rianimarsi. Al pittore vennero ben presto in mente certi appuntamenti, al ripetitore i suoi allievi. Quando se ne furono andati, dopo un lungo silenzio, Deslauriers fece diverse domande su Arnoux. «Più avanti mi porterai da lui, eh, vecchio mio?» «Certo,» disse Federico. Poi pensarono a sistemarsi. Deslauriers aveva ottenuto, senza fatica, un posto di secondo scrivano nello studio d'un avvocato, s'era iscritto ai corsi di diritto, s'era procurato i libri indispensabili, e la vita che avevano tanto sognata ebbe inizio. Fu, per grazia della loro giovinezza, una vita incantevole. Dato che Deslauriers non aveva accennato ad accordi finanziari, neanche Federico ne fece parola. Pensava lui a tutte le spese, badava al guardaroba, s'occupava dell'andamento di casa; ma se bisognava fare una predica al portinaio, era lo scrivano che se ne incaricava, continuando a svolgere, come in collegio, la parte del protettore, dell'anziano. Dopo una separazione che durava tutta la giornata, si ritrovavano la sera. Ciascuno prendeva il suo posto accanto al fuoco e si metteva al lavoro. Ma non lasciavan passare molto tempo senza interromperlo. Erano confidenze interminabili, allegrie immotivate; discussioni, qualche volta, per una lampada la cui fiamma vacillava o un libro che non si trovava più: collere di un minuto che si placavano in scoppi di risa. Lasciavano aperta la porta del ripostiglio, e continuavano a chiacchierare da lontano, ciascuno nel suo letto. Al mattino uscivano a far due passi sulla terrazza, in maniche di camicia; sorgeva il sole, nebbie leggere scorrevano sul fiume, dal vicino mercato dei fiori giungeva un acuto brusio; e il fumo delle loro pipe s'alzava a volte nell'aria tersa che rinfrescava i loro occhi ancora gonfi di sonno e li riempiva, ad aspirarla, come di una vasta, diffusa speranza. La domenica, se non pioveva, uscivano insieme, e se ne andavano in giro per le strade tenendosi a braccetto. Molte volte, eran colpiti insieme da uno stesso pensiero; oppure, se si mettevano a parlare, non vedevan più niente di quanto li circondava. Deslauriers avrebbe voluto la ricchezza, che considerava uno strumento di dominio sugli uomini. Gli sarebbe piaciuto far muovere parecchia gente intorno a lui, sollevare molto rumore, avere tre segretari ai suoi ordini e dare un gran pranzo politico ogni settimana. Federico s'arredava un palazzo alla moresca dove vivere sdraiato su divani di cachemire, al mormorio d'una fontana, servito da valletti negri; e questi sogni diventavano, alla fine, così precisi, ch'egli si rattristava come se ne avesse perduto l'oggetto. «A che serve parlarne,» diceva, «dal momento che non avremo mai niente di tutte queste cose!» «Chi può dirlo?» Replicava Deslauriers. Malgrado le sue opinioni democratiche, lo spingeva a farsi avanti in casa Dambreuse. L'altro gli ricordava i tentativi già fatti. «E con questo? Ritornaci: ti inviteranno!» Verso metà marzo, con altri conti piuttosto salati, ricevettero quello della trattoria che mandava i pranzi. Non bastandogli il denaro, Federico si fece prestare cento scudi da Deslauriers; dopo quindici giorni, gli fece la stessa richiesta, e lo scrivano lo sgridò per le spese alle quali s'era lasciato andare presso Arnoux. In effetti, non aveva freni. Una veduta di Venezia una di Napoli e una terza di Costantinopoli nel bel mezzo delle tre pareti, soggetti equestri di Alfredo de Dreux un po' dappertutto, un gruppo di Pradier sulla mensola del camino, fascicoli di L'Art industriel posati sul pianoforte, e per terra, negli angoli, mucchi di disegni; tutto questo ingombrava l'appartamento al punto che si faceva fatica a posare un libro, a muovere le braccia. Federico sosteneva che gli erano indispensabili per la sua pittura. Lavorava da Pellerin, che però spesso era fuori, avendo per abitudine di presenziare a tutti i funerali e avvenimenti dei quali si sarebbero occupati i giornali; e Federico passava ore e ore completamente solo nello studio. La calma di quella grande stanza dove non si sentiva che il trotterellare dei topi, la luce che pioveva dal soffitto, e persino il ronfare della stufa, lo facevano scivolare, a tutta prima, in una sorta di benessere intellettuale. Poi i suoi occhi, distraendosi dal lavoro, indugiavano sulle crepe dei muri, sugli oggetti posati nello scaffale, lungo i torsi fasciati dalla polvere come da lembi di velluto; e in fondo a ogni pensiero - come un viaggiatore sperduto in mezzo a un bosco è ricondotto di continuo, da tutti i sentieri, al medesimo sito - ritrovava il ricordo di Madame Arnoux. Per andare da lei, si fissava dei giorni; poi, arrivato al secondo piano, davanti alla sua porta, esitava a suonare. S'avvicinavan dei passi, qualcuno gli apriva, e le parole “la signora non è in casa” erano una liberazione, come se gli togliessero un peso dal cuore. Accadeva che l'incontrasse, tuttavia. La prima volta, era in compagnia di tre dame; un altro pomeriggio sopraggiunse l'insegnante di calligrafia della signorina Marta. E poi, gli uomini che Madame Arnoux invitava ai suoi ricevimenti non le facevano mai visita. Federico decise di non tornarci più, per discrezione. Non mancava mai, invece, di presentarsi tutti i mercoledì, regolarmente, a L'Art industriel, per essere invitato ai pranzi del giovedì; e ci restava più a lungo di tutti, più di Regimbart, proprio fino all'ultimo minuto, facendo finta di guardare una stampa, di scorrere un giornale. Alla fine, Arnoux gli diceva: «È libero, domani sera?» Federico aveva già accettato prima che l'altro finisse di parlare. Sembrava che Arnoux cominciasse a volergli bene. Gli insegnava, l'arte di distinguere i vini, di preparare i punch, di cucinare le beccacce in salmì; Federico seguiva docilmente i suoi consigli, innamorato di tutto quanto avesse a che fare con Madame Arnoux: i suoi mobili, i suoi domestici, la sua casa, la sua strada. Quand'era a quei pranzi, non apriva mai bocca; la contemplava. A destra, vicino alla tempia, aveva un piccolo neo; le bande che le scendevan sulle guance erano più nere degli altri capelli, e sempre un poco umide, pareva, lungo i bordi; di tanto in tanto se le lisciava, passandoci due dita appena. Federico conosceva la forma delle sue unghie, una per una; s'incantava ad ascoltare il fruscio acuto della sua veste di seta quando sfiorava lo stipite d'una porta; fiutava di nascosto il profumo del suo fazzoletto. Il suo pettine, i suoi guanti, i suoi anelli erano per lui degli oggetti particolari, importanti come opere d'arte, animati, quasi, come persone; gli afferravano il cuore, e accrescevano la sua passione. Con Deslauriers non aveva avuto la forza di tacere. Quando tornava dalla casa di lei, lo svegliava come per sbaglio per potergliene parlare. Deslauriers, che dormiva nel ripostiglio accanto al sifone dell'acqua, cacciava un lungo sbadiglio. Federico si sedeva ai piedi del suo letto. Parlava del pranzo, dapprima, poi gli raccontava mille particolari insignificanti nei quali aveva scorto qualche segno di disprezzo o di favore. Una volta, ad esempio, lei aveva rifiutato il suo braccio per prendere quello di Dittmer, e Federico se ne desolava. «Bah! Che sciocchezze!» Un'altra volta, gli aveva detto “amico mio”. «Vacci di buon animo, dunque!» «Ma se non ho il coraggio,» protestava Federico. «Non pensarci più, allora. Buonanotte.» Deslauriers; si voltava dalla parte del muro e s'addormentava. Non ci capiva niente in quell'amore, che giudicava un'estrema debolezza d'adolescenti; e, sicuro che il loro reciproco affetto non fosse più sufficiente, gli venne in mente di riunire gli amici comuni una volta la settimana. Arrivavano il sabato verso le nove. Le tre tende di tela algerina eran tirate con cura; oltre alla lampada, erano accese quattro candele; in mezzo al tavolo, un vaso pieno di pipe era disposto fra le bottiglie di birra, la teiera, una fiasca di rum e un vassoio di dolci. Discutevano sull'immortalità dell'anima, confrontavano questo con quel professore. Una sera, Hussonnet introdusse un giovanottone con una redingote troppo corta di maniche e con l'aria imbarazzata. Era il ragazzo che avevano cercato di far rilasciare, l'anno prima, al posto di polizia. Dato che non era riuscito a riportare al padrone lo scatolone di merletti smarrito nella rissa, era stato accusato di furto, minacciato di denuncia; al presente, era commesso da uno spedizioniere. Hussonnet l'aveva incontrato, di mattina, all'angolo di una via; e ora se l'era portato dietro perché Dussardier, per riconoscenza, voleva vedere “quell'altro”. Tese a Federico il portasigari ancora pieno, conservato religiosamente nella speranza di poterlo restituire. I giovani amici l'invitarono a tornare. Non mancò di farlo. Simpatizzavano tutti. in dal principio, il loro odio per il governo aveva raggiunto l'altezza inattaccabile di un dogma. Solo Martinon aveva cercato di difendere Luigi Filippo. Gli altri lo seppellivano sotto i luoghi comuni dei giornali: l'imbastigliamento di Parigi, le leggi del settembre, Pritchard, lord Guizot ecc. Alla fine Martinon taceva, per paura di offendere qualcuno. In sette anni di collegio non aveva mai avuto un castigo, e anche alla Facoltà sapeva piacere ai professori. Portava, di solito, una spessa redingote color mastice, e soprascarpe di gomma; ma una sera comparve in abito da nozze: panciotto a scialle di velluto, cravatta bianca, catena d'oro.
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