CAPITOLO V-2

2042 Words
Lo stupore raddoppiò quando si seppe che veniva da casa Dambreuse. In realtà, il banchiere aveva appena acquistato da Martinon padre una grossa partita di legname; e dato che il buonuomo gli aveva presentato suo figlio, li aveva invitati a pranzo tutti e due. «C'erano molti tartufi?» S'informò Deslauriers. «E avrai abbracciato sua moglie, no, sicut decet, fra una porta e l'altra?» A questo punto, la conversazione s'imperniò sulle donne. Per Pellerin, le belle donne non esistevano: preferiva le tigri; e poi, la femmina della specie umana era, nella gerarchia estetica, una creatura inferiore. «Ciò che vi seduce è proprio quello che, da un punto di vista ideale, le degrada: voglio dire il seno, i capelli...» «Eppure,» obbiettò Federico, «dei lunghi capelli neri, e dei grandi occhi neri...» «Oh, sappiamo!» L'interruppe Hussonnet. «Troppe belle spagnole sulle aiuole! Parlate d'anticaglie? Sono qui per servirvi. Ma alla fin fine, siamo schietti, una puttanella qualunque è più divertente della Venere di Milo. Cerchiamo d'essere Galli, per la malora e stile Reggenza se è possibile. Scorri, buon vino; donne, sorridete. Dalla bruna alla bionda, e via! Non sei del mio avviso, ottimo Dussardier?» Dussardier non rispondeva. Tutti insistettero per conoscere i suoi gusti. «Ebbene,» diss'egli arrossendo, «io, io vorrei amarne una sola, sempre la stessa!» La cosa fu detta in modo tale che vi fu un attimo di silenzio, qualcuno sbalordito da tanto candore, altri, forse, riconoscendovi la segreta aspirazione del loro cuore. Sénécal posò sulla mensola la sua tazza di birra e dichiarò dogmaticamente che, dal momento che la prostituzione era una forma di tirannia e il matrimonio una cosa immorale, era meglio astenersi. Per Deslauriers le donne erano una distrazione, niente di più. Il signor de Cisy provava, verso di loro, timori d'ogni sorta. Cresciuto sotto gli occhi d'una nonna devota, trovava la compagnia di quei giovani attraente come un luogo di perdizione e non meno istruttiva della Sorbona. In effetti, non gli lesinavano le lezioni; e lui si mostrava pieno di zelo, al punto di voler fumare a dispetto delle tormentose palpitazioni che lo prendevano, poi, regolarmente. Federico lo circondava di premure. Ammirava i colori sfumati delle sue cravatte, il suo pastrano di pelliccia e soprattutto le sue scarpe, sottili come guanti e addirittura offensive per delicata lucentezza; giù, in strada, l'aspettava la carrozza. Una sera che se n'era appena andato, e fuori nevicava, Sénécal si mise a compiangere il suo cocchiere. Poi fece una tirata contro i guanti gialli e il Jockey Club. Teneva in maggior conto un operaio, lui, che quei signori. «Io, almeno, lavoro! Sono povero, io!» «Questo si vede,» era saltato su Federico, spazientito. Il ripetitore non gli avrebbe mai perdonato quell'uscita. Dato che Regimbart aveva detto di conoscere un poco Sénécal, Federico, per essere cortese con un amico di Arnoux, lo pregò di venire alle riunioni del sabato; e l'incontro fu gradevole per i due patrioti. Erano, tuttavia, assai diversi fra loro. Per Sénécal, che aveva la testa fatta a punta, non esistevano che i sistemi. Regimbart, al contrario, nei fatti non vedeva altro che i fatti. La sua preoccupazione principale era la frontiera del Reno. Pretendeva d'intendersi di artiglieria, e si faceva fare i vestiti dal sarto del Politecnico. La prima volta, quando gli furono offerti i dolci, alzò sdegnosamente le spalle dicendo ch'eran cose da donne; né si mostrò più grazioso le volte successive. Non appena le idee attingevano ad una certa altezza, mormorava: «Ah no, niente utopie, niente sogni!» In fatto d'arte (benché frequentasse gli studi, dove a volte, per compiacenza, dava qualche lezione di scherma), le sue opinioni erano tutt'altro che trascendentali. Paragonava lo stile di Marrast a quello di Voltaire, e la signorina Vatnaz a Madame de Staël, a causa di una certa ode sulla Polonia dove “c'era del cuore”. Tutto sommato, Regimbart stava sullo stomaco a tutti, soprattutto a Deslauriers, anche per il fatto che il Cittadino era un amico intimo di Arnoux. In realtà allo scrivano sarebbe piaciuto frequentare quella casa, dove sperava di fare qualche utile conoscenza. «Quando mi ci porterai?» Chiedeva a Federico. Ma Arnoux era oberato dal lavoro, oppure doveva partire; e poi non ne valeva più la pena, la stagione dei pranzi stava per finire. Se fosse stato necessario rischiar la vita per il suo amico, Federico l'avrebbe fatto. Ma siccome teneva a mostrarsi nella miglior luce possibile, e sorvegliava linguaggio, maniere, abbigliamento al punto da non andare mai a L'Art industriel se non impeccabilmente inguantato, aveva paura che Deslauriers col suo frusto abito nero, i suoi modi da leguleio e i suoi discorsi presuntuosi potesse dispiacere a Madame Arnoux e così, magari, comprometterlo, abbassarlo agli occhi di lei. Poteva non far caso agli altri, ma lui, proprio lui, l'avrebbe messo in imbarazzo mille volte di più. Lo scrivano s'era accorto che Federico non aveva intenzione di mantener la promessa, e gli sembrava che il suo silenzio peggiorasse l'ingiuria. Avrebbe voluto guidarlo lui, lui solo, in tutti i sensi, e che la sua vita si sviluppasse secondo i loro ideali giovanili; la sua scioperataggine lo indignava come una disobbedienza, come un tradimento. Fra l'altro Federico, posseduto dall'idea di Madame Arnoux, parlava ogni momento del marito; e Deslauriers prese l'intollerabile abitudine di sfotterlo ripetendo quel nome centinaia di volte al giorno, alla fine d'ogni frase, come un tic da idiota. Se bussavano alla porta, rispondeva: “Avanti, Arnoux!” Al ristorante chiedeva che gli portassero del formaggio di Brie “tipo Arnoux”; e di notte, fingendo un incubo, svegliava il compagno urlando: “Arnoux! Arnoux!” Un bel giorno Federico, che non ne poteva più, gli disse con voce lamentosa: «Ma lasciami in pace con questo Arnoux.» «Giammai,» replicò lo scrivano. Lui sempre, lui dovunque! Che sia gelida o ardente l'immagine di Arnoux... «Sta' zitto!» Gridò Federico alzando il pugno. E poi, a voce bassa: «Lo sai ch'è un argomento penoso, per me.» «Oh, chiedo scusa, mio caro,» replicò Deslauriers inchinandosi profondamente. «D'ora in avanti staremo bene attenti a non urtare i nervi di madamigella. Ancora scusa! Ti chiedo mille volte perdono!» Lo scherzo, in quel modo, aveva avuto fine. Tre settimane dopo, una sera, Deslauriers gli disse: «L'ho vista che è poco, la tua signora Arnoux.» «Dove?» «Al Palazzo, insieme a Balandard, l'avvocato; è una donna bruna, no, di statura media?» Federico fece segno di sì. Aspettava che Deslauriers dicesse qualcosa. Al minimo accenno d'ammirazione, gli avrebbe aperto per intero il suo cuore, con sùbita tenerezza. Ma l'altro non apriva bocca. Alla fine, non resistendo più, gli chiese con aria indifferente cosa pensasse di lei. Deslauriers la trovava “non male, niente di straordinario però”. «Ah! Ho capito,» disse Federico. Venne agosto, il mese del suo secondo esame. Era opinione corrente che bastassero quindici giorni per prepararlo. Federico, sicuro del fatto suo, si sorbì in un colpo solo i primi quattro libri del Codice di procedura, i primi tre del Codice penale, parecchie parti di Istruzione criminale e un pezzo di Codice civile con le annotazioni di Poncelet. Il giorno prima dell'esame, Deslauriers gli fece fare un ripasso che si protrasse sino al mattino; e per mettere a profitto anche l'ultimo quarto d'ora, continuò a interrogarlo sul marciapiede, mentre camminavano. Dato che si svolgevano simultaneamente diversi esami, c'era parecchia gente nel cortile, fra gli altri, Hussonnet e Cisy; non si tralasciava mai d'assistere a quelle prove quando si trattava dei compagni. Federico s'infilò la tradizionale toga nera e insieme ad altri tre studenti entrò, seguito dalla folla, in una grande stanza, rischiarata da finestre senza tende e arredata con delle panche tutt'intorno, lungo le pareti. Nel mezzo, alcune sedie di cuoio circondavano un tavolo abbellito da un tappeto verde. Era questo tavolo a separare i candidati dai signori esaminatori, tutti quanti in toga rossa e mantelletta d'ermellino e, sulla testa, tocchi gallonati d'oro. Federico era il penultimo della serie, brutta posizione. Alla prima domanda: differenza fra una convenzione e contratto, diede dell'una la definizione dell'altro. Il professore, un brav'uomo, gli disse: «Non si agiti, signore, cerchi di riprendersi»; poi, dopo due domande facili, seguite da risposte senza rilievo, passò a una quarta. Federico era demoralizzato per l'inizio pietoso. Di fronte a lui, fra il pubblico, Deslauriers gli indicava a cenni che tutto non era ancora perduto; alla seconda interrogazione, sul diritto criminale, aveva fatto una figura discreta. Ma dopo la terza, che riguardava il testamento mistico, la sua angoscia era raddoppiata: l'esaminatore era rimasto impassibile, mentre Hussonnet giungeva le mani come per applaudirlo e Deslauriers, al contrario, si prodigava in alzate dì spalle. Alla fine, era arrivato il momento di rispondere in procedura. L'argomento della domanda era l'opposizione di terzo grado. Il professore, che s'era seccato sentendo esporre teorie contrarie alle proprie, gli disse in tono brutale: «E lei, signore, è dello stesso avviso? Come concilia lo spirito dell'articolo 1351 del Codice civile con un siffatto ricorso straordinario?» Federico, che aveva passato la notte senza dormire, si sentiva un gran mal di testa. Un raggio di sole, filtrando dalla fessura di un'imposta, gli batteva in pieno viso. In piedi dietro la sedia, esitava dondolandosi e tirandosi i baffi. «Sto sempre aspettando la sua risposta!» Incalzò l'uomo dal tocco d'oro. E, infastidito evidentemente dal gesto di Federico: «Non la troverà di sicuro dentro la sua barba.» Il sarcasmo provocò una risata nell'uditorio; il professore, lusingato, parve addolcirsi. Gli fece ancora due domande, sul rinvio e sul rito sommario, dopo di che chinò la testa in segno di approvazione; la cerimonia pubblica era finita. Federico tornò nel vestibolo. Mentre il bidello l'aiutava a sfilarsi la toga, per passarla subito a un altro, fu circondato dagli amici che finirono di frastornarlo con le loro opinioni contrastanti sul risultato dell'esame. Ma ben presto, e con voce sonora, fu proclamato dalla porta dell'aula che il terzo avrebbe dovuto... ripresentarsi! «Stangato,» disse Hussonnet, «andiamo via.» Davanti alla guardiola del custode s'imbatterono in Martinon, rosso e emozionato, con un sorriso negli occhi e l'aureola del trionfo sulla fronte. Aveva appena sostenuto, senza incidenti, il suo ultimo esame. Non gli restava che la tesi; fra quindici giorni si sarebbe laureato. La sua famiglia conosceva un ministro, una “bella carriera” gli si schiudeva davanti. «Intanto ti dà dei punti, quello là,» disse Deslauriers. Niente è più umiliante che vedere degli sciocchi riuscire dove abbiamo fallito. Federico, rabbioso, replicò che se ne infischiava. Le sue mire erano più in alto. Vedendo che Hussonnet stava per andarsene, lo prese da parte per dirgli: «Di questo, non una parola con loro, eh? Si capisce.» Non era difficile mantenere il segreto, dato che Arnoux, il giorno dopo, partiva per la Germania. La sera, tornando a casa, lo scrivano trovò l'amico singolarmente mutato d'umore: piroettava, fischiettava; di fronte allo stupore dell'altro, Federico dichiarò che non sarebbe andato a casa da sua madre, e avrebbe passato le vacanze lavorando. Alla notizia della partenza di Arnoux, la gioia s'era impadronita di lui. Avrebbe potuto presentarsi in casa loro con tutta tranquillità, senza timore che le sue visite venissero interrotte. La convinzione d'essere assolutamente sicuro gli avrebbe dato coraggio. Finalmente, niente l'avrebbe tenuto lontano, niente L'avrebbe separato da lei! Qualcosa di più forte d'una catena di ferro lo tratteneva a Parigi, una voce interiore gli gridava di restare. C'erano alcune difficoltà. Le superò scrivendo a sua madre, le confessava senza perifrasi il suo insuccesso, provocato da certi cambiamenti nel programma, dal caso, da un'ingiustizia; e poi tutti i grandi avvocati (Federico ne citava i nomi) erano stati respinti a qualche esame. Ma contava di ripresentarsi a novembre. Non avendo tempo da perdere, per quell'anno non sarebbe andato a casa; e chiedeva, in aggiunta al denaro del trimestre, duecentocinquanta franchi per le ripetizioni di diritto, utilissime. Il tutto infiorato da sfoghi dì rimorso, rammarichi, moine e proteste d'amor filiale. La signora Moreau, che l'aspettava per il giorno dopo, fu doppiamente rattristata. Tenne nascosta la disavventura del figlio, e gli rispose “d'andare a casa comunque”. Federico tenne duro; ne nacque un dissidio. Ciononostante, alla fine della settimana ricevette il denaro del trimestre e la somma destinata alle ripetizioni, che gli servì per l'acquisto di un paio di pantaloni grigio perla, di un cappello di feltro bianco e di una giannettina con l'impugnatura d'oro. Quando fu in possesso di tutta questa roba: «Non sarà mica un'idea da garzone di parrucchiere, quella che m'è venuta?» Cominciò a domandarsi. E fu preso da una terribile incertezza. Per sapere se dovesse andare o no da Madame Arnoux, gettò in aria per tre volte una moneta. Ogni volta il presagio fu favorevole. Dunque, era il destino a decidere. Montò in carrozza e si fece portare in rue de Choiseul. Salì con impeto la scala, s'attaccò al campanello: nessun suono. Era sul punto di svenire. Tirò da capo, con furia, il pesante cordone di seta rossa. Un carillon risuonò, si spense a poco a poco, e poi silenzio, di nuovo. Federico ebbe paura. Incollò l'orecchio alla porta: nemmeno un alito! Guardò dal buco della serratura e non scorse, nell'anticamera, che due fusti di canna tra i fiori della tappezzeria. Stava già per andarsene, poi si ricredette. Diede, questa volta, uno strappo discreto, leggero. La porta s'aperse e sulla soglia, tutto spettinato, col viso paonazzo e l'aria scocciata, Arnoux in persona comparve.
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