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Fuori è Buio

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Blurb

Tredici racconti che si snodano nel mondo del fantastico, tra horror e fantascienza con tocchi di urban fantasy. Incontreremo alieni che conducono il telegiornale, un uomo afflitto da un mal di testa molto particolare, un artista americano che dipinge con i gessetti colorati opere d’arte dagli strani poteri. C’è un veterinario che custodisce un segreto terribile che lo porterà sulla soglia della follia, un bambino curioso che ficca il naso dove non dovrebbe, una divinità indù che sta preparando la distruzione di tutta l’umanità e non solo, una donna con il pollice verde il cui amore per le piante si spinge oltre ogni limite, un automobilista sfortunato che incappa negli abitanti di un piccolo paesino del sud che lo coinvolgeranno in una particolare processione. Questo e molto altro nei tredici racconti della raccolta FUORI È BUIO.

"Da Poe a Lovecraft a Samarango, molte sono le influenze in questa ben riuscita antologia, che l’autrice riesce ad intessere in uno stile suo, senza mai copiare, ma prendendo spunto e portando il brivido in casa nostra, in Italia." (THE HIPSTER)

"Vi consiglio vivamente di leggere questa giovane autrice, ha tanti assi nella manica e una capacità di stupire e coinvolgere che vale la pena di scoprire, pagina dopo pagina." (ANIMA D"INCHIOSTRO)

"L"ingegno dell"autrice nel mescolare mito, folkore, classici della letteratura con gli assolati paesaggi rende il tutto ancora più pauroso." (IL PORTALE DEI LIBRI)

"Ancora una volta, all’ambientazione orientale si sposa il riferimento alla più nota letteratura latina, con un epilogo stranamente confortante che non potrà non ricordare il mito di Pandora e che certamente dà prova della poliedricità delle influenze di questa giovane autrice." (LETTERATURA HORROR)

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1 – MARCO E WANDA
1 – MARCO E WANDANella parte vecchia della città le strade diventano vicoli. I vicoli, an­gusti e tortuosi passaggi che serpeggiano lungo ca­denti costruzioni cariche di ricordi. Ti verrà voglia di camminare lungo i marciapiedi del viale centrale che, in ogni stagione, gode dell’ombra e della prote­zione di filari di seco­lari alberi sempreverdi. Continuando a passeggiare, proprio dietro un angolo, sco­prirai il bel­lissimo parco cittadino. Nel mezzo del prato, tra arrugginite panchine, si erge maestoso un salice che sembra fatto apposta per riparare le anziane signore sedute sotto di esso. Con i loro vestiti fio­rati e le ampie falde dei cappelli color glicine le vedi intente a chiacchierare di amabili frivolezze. Nessun rumore turba la quiete di questo luogo ameno. Qui non arriva nemmeno lo strepito del traffico tanto che puoi tran­quillamente bearti dei suoni della natura: il fruscio delle foglie mosse da un vento gentile, il mor­morio dell’acqua della grossa fontana decorata da puttini, il melodioso canto dei nu­merosi uccelli che volteggiano indisturbati tra le fronde di ospi­tali rami. Mentre attraversi il parco, osservi innamorati sdraiati sull’erba che si sussurrano parole d’amore, mamme che spin­gono passeggini con sguardo fiero e soddisfatto, ragazze che fanno jogging a ritmo di musica. Quindi vedi venirti incontro i tuoi amici. Sono tutti eccita­ti, pare ci sia un artista americano che disegna con i gessi co­lorati. Ed è proprio nel parco, nella pista dove di solito si fa skateboard. Sembra anche che le opere di questo misterioso pittore d’oltreoceano abbiano poteri magici: se le fissi intensamente puoi entrarci dentro e vivere quello di cui l’artista è stato testim­one. E adesso sta allestendo una mostra tutta per voi. Allora corri insieme ai tuoi amici e ridi tra te e te. Possibile che siano ancora così creduloni? Sarà divertente vedere le loro facce deluse nel ren­dersi conto che è solo una trovata per rimediare qualche spicciolo. Il pittore è un ragazzo biondo con un’incolta barbetta ispida, porta un piercing sul naso e ha una bandana rossa che gli tiene raccolti in una coda i lunghi capelli arruffati. È concentrato a finire un disegno. È davvero molto bravo, lo devi ammet­tere. Le sue opere sono disposte come una specie di percorso. Non sono solo di­pinte: ognuna contiene degli oggetti posti sopra di esse e un titolo che le con­traddistingue. I tuoi compagni si sparpagliano, mentre tu vieni attirato da un dise­gno che ti dà uno strano senso di disagio, anche se non sai spiegarti il perché. Si vede raffigurato un lungo viale grigio pieno zeppo di foglie morte, in un angolo c’è una ciocca di capelli bianca e ti viene istintivo chinarti. Allora la raccogli e… * * * Marco era un ragazzino grazioso, lineamenti delicati, cor­poratura lon­gilinea, folti capelli color grano e due grandi occhi verde smeral­do. Tutti in famiglia erano orgogliosi di lui. Frequentava la se­conda media con ottimi profitti, aveva molti amici e in casa era educato e ser­vizievole con sua madre che stravedeva per lui. Ma la signora Graziella ignorava che il suo adorato gioielli­no avesse un piccolo vizietto. In effetti, considerati i tempi, poteva essere ritenuto un peccato veniale quello di cui si mac­chiava il ra­gazzino perfetto. Marco e la sua famiglia vivevano in un quartiere residenzia­le, poco trafficato, di conseguenza tranquillo e silenzioso. Le costruzio­ni che do­minavano le lunghe strade alberate erano colorate vil­lette a un piano, ognuna con un piccolo giardino recintato da una bassa staccionata. In una di queste abitazioni, qualche metro dopo la casa di Marco, proprio vicino alla fermata dello scuolabus, viveva una dolce e tenera vecchietta. Questa esile signora dai capelli canuti e dalle sot­tili sopracciglia brizzolate parlava in uno stretto dialetto sardo, tanto che il biondo ragazzino faticava spesso a capire cosa dicesse. Non riusciva neppure a comprendere se si rivolgesse a qualcuno in particolare o semplicemente lasciasse cadere le parole al vento, come spesso fanno le persone anziane quando ormai nessuno ha più tempo e pazienza per ascoltare ciò che hanno da dire. Ed è uno sbaglio, perché se prestassimo maggiore attenzio­ne a ciò che ci viene detto, a volte non ci troveremmo in situa­zioni sconvenien­ti. Spinto da chissà quale tipo d’idea malsana, Marco aveva deciso di tormentare la povera e indifesa vecchina. Ogni giorno, andando e tornando da scuola, suonava al suo citofo­no, costringendo la pove­retta ad alzarsi, pur sapendo quanta fatica le costasse muoversi. A volte, in qualche apice di meschinità, strappava le belle rose ram­picanti che la donna con tanto amore aveva fatto cre­scere in un angolo del suo curato giardino. In altre occasioni buttava sul prato della villetta carta straccia, bucce di banana, avanzi di merendine. Per questo motivo il cortile dell’anziana si riempì di antipatiche for­miche. Durante le operazioni di vandalismo, Marco era sempre stato con­vinto che la signora Wanda non si fosse mai accorta che era pro­prio lui l’artefice di tali dispetti. Se i suoi genitori lo avessero scoperto, oltre a essere colpiti da una grossa delusione, di certo gli avrebbero inflitto una punizione. E in quanto a punizioni i suoi sapevano essere davvero duri. Bastava vedere come si comportavano con sua sorella maggiore, la ribelle. Marco non voleva correre il rischio di finire per settimane chiuso in camera senza Playstation e televisione, bandito da ogni attività ri­creativa con i suoi amici. * * * Passarono i mesi e le rosse foglie autunnali si trasformaro­no in secco fo­gliame invernale, adagiato pigramente ai lati della lunga strada albe­rata. Una notte fredda e senza stelle, Marco, steso nel letto, sentì raspa­re alla finestra. All’inizio fu un rumore sommesso che però crebbe d’inten­sità dopo alcuni secondi. Incuriosito ma anche seccato di do­versi alzare dal caldo piumone, il ragazzino si avvicinò agli in­fissi per cercare di capire l’origine del suono fastidioso. Scostò la tenda, aprì i vetri e si sporse per guardare. Ciò che vide gli fece fare un balzo indietro dallo spavento: la si­gnora Wanda era accovacciata sotto la finestra. Quando vide l’ovale grinzoso della vecchietta fissarlo, capì subito che la donna aveva scoperto le sue marachelle. L’anzia­na si alzò a fatica, aiutandosi con un vecchio bastone di legno. Marco, rimasto a bocca aperta, tentò di dire qualcosa alla donna ma fu preceduto dalla litania che lei cominciò a cantilena­re: «Vieni vieni a vedere cosa sta per accadere, sensi acuti da destare ossa forti per ballare, la vecchietta vuol giocare. Vieni vieni a vedere cosa sta per accadere.» Fu la prima volta che il ragazzino capì ogni singola parola soffiata dalla canuta signora dagli occhi di ghiaccio. Wanda gli voltò le spalle e con flemma se ne tornò in direzione di casa sua. Lui seguì per qualche istante ancora la schiena curva della vecchi­na, prima di sbattere la finestra e andarsi a rintanare sotto le coper­te con il cervello che turbinava come un aspira­polvere alla massima potenza. Per un attimo aveva temuto che la donna sarebbe andata dritta al campanello e avrebbe avvisato i suoi genitori dei dispet­ti subiti negli ultimi mesi. Allora sarebbero stati guai. Eppure non l’aveva fatto, si era limitata a rifilargli chissà quale strana nenia, di cui al momento non rammentava il contenuto. Che lo avesse voluto spaventare a modo suo per vendicarsi? Un siste­ma teatrale, ma era pur sempre una solitaria e anzia­na signora. Forse le era sembrato il modo più consono per punirlo. In fin dei conti era riuscita nel suo intento, quella visita not­turna aveva lasciato addosso a Marco un profondo senso d’inquietudine. * * * La mattina seguente il ragazzino si guardò bene dal passare davanti alla casa di Wanda. Preferì uscire qualche minuto prima e fare il giro dal retro, allungando di parecchio il tragit­to per arrivare alla ferma­ta dello scuolabus. Non era riuscito più a chiudere occhio, attento a ogni rumore capace di segnalare la presenza della bizzarra vec­chia. Temeva ancora avrebbe raccontato ai suoi genitori i danni che le aveva cau­sato. Si sentì molto stupido. Se poteva essere considerato di poco conto suonare il citofono e scappare, deturpare le rose e sporca­re il giardino, era stato un gesto eccessivo. Prese in considerazion­e l’idea di fare un salto quel pomeriggio a casa della donna per chiederle scusa, ma la scartò subito. Considera­ta la stranezza della signora Wanda, avrebbe potuto persino peg­giorare le cose. Era meglio mantenere un profilo basso e la­sciar calmare le acque. Presto lei se ne sarebbe dimenticata e la faccenda si sareb­be ri­solta. A cena mangiò con appetito, sua madre era un’ottima cuoca. Guardò il DVD che avevano noleggiato nel pomeriggio con la fami­glia al com­pleto e, finito il film, si sorprese a pre­gare il padre di far­gliene vedere un altro. Tutto pur di ritarda­re il momento di andare a dormire. Il signor Filippo inarcò un folto sopracciglio biondiccio, lancian­do un’occhiata perplessa al figlio, che di solito preferi­va rin­tanarsi in camera sua a giocare con quella dannata Playstation o chattare con i suoi amici. «È tardi, è il caso che tu vada a dormire o domani mattina non ti sveglierai per andare a scuola.» Rassegnato, Marco filò in camera sua, si spogliò, si mise il pigia­ma e decise che per quella notte avrebbe lasciato la luce accesa. Non di certo perché lui fosse un fifone, ma magari avrebbe potuto sco­raggiare un altro blitz notturno della sua vendicativa vicina. Cercò di rimanere sveglio, si mise perfino a leggere, ma dopo poco la stanchezza prese il sopravvento. * * * Aprì gli occhi di scatto, qualcosa l’aveva svegliato. Guardò l’orolo­gio: le 23:49. Un raspare sommesso si fece sentire fuori dalla fine­stra. Poi, come la volta precedente, il suono crebbe d’intensi­tà. Marco si alzò, terrorizzato dal fatto che quel rumore avreb­be potuto destare i suoi genitori. Aveva deciso: avrebbe af­frontato quella vecchia pazza, gliene avrebbe dette quattro, l’avrebbe anche minacciata se si fosse rivelato necessario. Determinato, si diresse alla finestra. L’aprì con impeto e guardò in basso, convinto di trovarsi faccia a faccia con la si­gnora Wanda. La sorpresa fu maggiore nel vedere, seduto di fronte a lui, un grosso gatto nero che, come vide la finestra aperta, fece un balzo agile e approdò sul davanzale. Due enormi occhi color giada lo fissarono, interrogativi. Marco notò che il gattone aveva un vistoso collare rosso dal quale penzolava, attaccato a uno spago, un foglietto arrotola­to. Gli venne naturale sfilarlo e aprirlo. Il contenuto gli gelò il sangue e gli paralizzò la lingua. Una tremo­lante scrittura riportava delle parole che Marco non poté non ricordar­e: “Vieni vieni a vedere cosa sta per accadere, sensi acuti da destare ossa forti per ballare, la vecchietta vuol giocare. Vieni vieni a vedere cosa sta per accadere.” Gli sembrò quasi di udire l’eco malvagia della voce di Wanda. Fu il miagolio del gatto a smuoverlo dal torpore che aveva agguantato ogni fibra del suo corpo. Quei freddi occhi gli trapanavano il cervel­lo, così con un gesto brusco diede una spinta al felino, facendolo cadere dal cornicione. L’animale atterrò sull’erba, producendo un rumore sordo, gli lanciò un miagolio di disappunto e veloce sparì nel buio della notte. Era davvero troppo, quella vecchia era una psicopatica e lui doveva trovare una soluzione per porre rimedio a queste sgra­dite visite notturne. Nemmeno a dirlo, non riuscì a chiudere occhio per tutta la notte. La mattina si trascinò come uno zombie in cucina per fare colazio­ne. Sentì lo sguardo indagatore del padre da sopra il giornale che fingeva di leg­gere. Per fortuna non gli fece nes­suna domanda sco­moda. La giornata passò tranquilla. Marco ebbe anche un mo­mento di ottimismo quando pensò che forse la vecchietta avrebbe desistito e quella notte non si sarebbe presentata. Tuttavia gli tornò in mente una frase della macabra fila­strocca: la vecchietta vuol giocare. La cosa gli diede i brivi­di. Dopo cena decise di barricarsi dentro. Per prima cosa prese tutti i lacci delle scarpe da ginnastica e li avvolse intorno alla maniglia degli infissi, stringendoli con nodi quadrupli. Poi, cercando di fare meno rumore possibile, spostò la scrivania davanti alla finestra. L’idea era quella di restare sveglio per vigilare, ma due notti con­secutive passate in bianco non gli permisero di attuare il suo piano. Il sonno però non fu affatto ristoratore ma tormen­tato da incubi or­rendi, uno dei quali lo fece svegliare zuppo di sudore. Stava sognan­do una specie di gatto gigantesco e rico­perto di frammenti di inte­riora che lo inseguiva. L’animale non miagolava ma cantilenava in tono minaccioso la filastroc­ca di Wanda la pazza. Con un senso di angoscia, il ragazzino gettò uno sguardo verso la fine­stra, ma tutto era come lo aveva lasciato. Nessun rumore si udiva nel si­lenzio, rotto solo da qualche ululato in lontananza. Controllò l’ora. Era mezzanotte passata, forse aveva scam­pato il perico­lo. Come aveva immaginato, la signora si era stu­fata di fare giochetti tetri. Fu allora che colse un movimento con la coda dell’occhio. Vide una sagoma in fondo alla stanza, vicino al grosso arma­dio a muro. Mise a fuoco la figura che incedeva claudicante verso di lui: Wanda. Marco aprì la bocca per gridare e richiamare l’attenzione dei genito­ri, non gli importava più nulla della punizione. Tut­tavia non fece in tempo a emettere alcun suono, quell’essere gli si av­ventò addosso con una velocità che non aveva nulla di umano. Dita d’acciaio strinsero la gola di Marco. «Vieni vieni a vedere, cosa sta per accadere», cominciò la vec­chia. «Sensi acuti da destare…» Con un lungo pugnale estrasse gli occhi del monello fuori dalle orbite, poi si dedicò alle orec­chie e alla lingua. «Ossa forti per ballare», continuò, infie­rendo con ferocia sul corpo del ra­gazzino. La voce lamentosa di Wanda echeggiò nella casa: «La vecchiet­ta vuol giocare.» * * * Ti senti scivolare all’indietro. Sei senza peso, senza volon­tà, non riesci a percepire nessun suono e nessun odore. Vor­resti gridare dopo aver visto ciò che è accaduto a Marco ma la tua bocca si apre muta come quella di un pesce. Di colpo ti ritrovi nel parco, la ciocca canuta fra le dita. La getti in terra con un colpo secco, ti guardi intorno, smarrito, battendo le palpebre. Il clima è cambiato repentinamente, ti viene da chiederti quanto tempo sia passato da quando sei entrato nell’opera. Potrebbe essere un secondo come un’ora. Sta cadendo una pioggia leggera che si fa sempre più fitta e insi­stente, quasi a creare una cortina di nebbia. Osservi il tuo respiro trasformarsi in nuvolette di vapore. L’acqua sta cancellando le opere dell’artista misterioso e pensi che in fondo sia un bene. Quest’esperienza ti ha inse­gnato che a volte è meglio farsi i fatti propri, essere persone discrete, rispettare le anziane signore… soprattut­to se sono delle streghe affamate di sangue.

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