2 – AL TELEGIORNALEQuando ti sintonizzi sui vari telegiornali e senti tutto quello che accade nel mondo vieni inevitabilmente colto da una grande depressione, sfiducia e sconforto.
Anche da frustrazione, perché ti senti impotente di fronte a tanta crudeltà e squallore morale.
Incidenti, pazzi assassini, governi instabili retti da personaggi discutibili, disastri naturali, fame, povertà, barbarie di ogni tipo.
È inevitabile, ti deprimi.
Per lo meno era quello che capitava a me, prima che scoprissi la verità.
Ma preferisco raccontare le cose con ordine.
* * *
La voglia di studiare non è mai stata preponderante in me, ho finito il liceo scientifico arrancando, tra un’insufficienza rimediata all’ultimo secondo e qualche sospensione per il mio comportamento vivace, specie nei primi due anni di superiori.
La stessa estate in cui ho preso il sudato diploma ho cercato un lavoretto per cominciare a guadagnare qualche soldo e provare a rendermi indipendente dalla mia famiglia.
Troppe proibizioni, troppi veti su ogni ambito della quotidianità, ma soprattutto un continuo rimbrottarmi su tutto quello che facevo, su ogni passione o interesse che mostravo di avere e che non fosse preventivamente discusso e approvato.
Questo perché mio padre mi voleva plasmare a sua immagine e somiglianza. Secondo lui dovevo essere grato ad aeternum per il fatto di avere un genitore notaio e, di conseguenza, un futuro spianato.
Per come la vedevo io era solo un futuro prestabilito fin dalla nascita: in tutta la mia vita non sono mai stato libero di fare un bel nulla, mai stato incoraggiato a inseguire i miei sogni o avere la possibilità di commettere errori, anche banali.
Il vecchio ha montato una tragedia shakespeariana sul mio rifiuto di proseguire gli studi. Mi vedeva già ingabbiato nella facoltà di Giurisprudenza, in fila con altri figli di papà con il mio bel codice civile in mano e una ventiquattrore di cuoio nell’altra.
Mi veniva da vomitare al solo pensiero.
Una cosa era certa, non avrei mai fatto la sua stessa tragica fine di professionista dalla vita grigia e monotona. Ho cercato in ogni modo di inculcargli nel cervello questo basilare concetto.
I primi tempi mi ha osteggiato con violenza. Diceva che mi avrebbe diseredato, che questa mia decisione avrebbe provocato senz’altro la sua morte, che ero una vergogna per la famiglia e non facevo che metterlo ripetutamente in imbarazzo.
Parole dure, pesanti.
Dopo i primi due anni ha cominciato a cedere, è passato al mutismo, limitandosi a borbottare e a guardarmi con marcato disprezzo.
Finché un giorno non ha deciso di mollare, forse per stanchezza, dicendomi: «Fai come ti pare.» Il massimo che ci si possa aspettare da uno come lui.
In questi sette anni ho sgobbato parecchio e ho cambiato molti tipi d’impiego. Mi sono tolto una lunga sfilza di soddisfazioni che mi erano state negate.
Ho lavorato in una gelateria e ho appreso da un bravo pasticcere i segreti per fare un buon gelato cremoso. Ho fatto il commesso in un negozio di abbigliamento per donne e flirtato con molte clienti carine. Mi sono divertito un mondo a fare il dog sitter e a giocare con tanti adorabili cani.
Libero, spensierato e all’aria aperta.
Ho prestato la mia forza per un’impresa di pulizie e adesso so come far diventare brillanti e senza aloni i vetri delle finestre. È stato interessante, per un’intera estate, aiutare un giardiniere creativo a rinnovare il parco privato di un famoso medico della zona.
Chiedetemi pure come far fiorire sane e forti le vostre camelie o come potare un ulivo per irrobustirlo. Insomma, le ho provate davvero tutte. Se non altro per orientarmi nel mondo del lavoro, per riuscire a essere una persona versatile che si arrangia a fare di tutto. E per capire da solo cosa mi piacesse davvero.
Amo l’arte, la pittura mi affascina, dipingere mi rende felice e in questo credo di essere molto bravo. Ho seguito alcune lezioni sulle varie tecniche pittoriche presso una scuola della mia città, imparando le regole di base e conoscendo i pittori più eclettici. Mi sono appassionato ai vari movimenti artistici, dal Medioevo alla Pop Art.
Da quando ho scoperto questa mia passione, mi è venuta l’idea di mettere dei soldi da parte per poter frequentare un prestigioso corso che si terrà il prossimo anno a Milano.
Proprio questo motivo mi ha portato ad accettare l’attuale lavoro.
Ho sempre pensato che fosse un incarico bizzarro, ma era ben pagato e tanto mi bastava.
* * *
Avevo letto l’annuncio scribacchiato a mano sopra un foglio rovinato, attaccato alla bacheca del circolo sportivo che frequentavo. Diceva: Cercasi corriere automunito per consegne private. Richiesta max discrezione. Compenso considerevole. Rivolgersi al numero 3134567709.
Mi colpì perché non riuscii a decifrare appieno quello che si ricercava.
Corriere per consegne private? Mai sentito.
Un compenso considerevole per fare il corriere?
Ma soprattutto era quel max discrezione a lasciarmi perplesso.
Il primo ridicolo pensiero fu che a quella gente serviva un galoppino per la droga. Era ovviamente un’idea sciocca, ma restava il forte dubbio che si trattasse di uno scherzo.
Fu la curiosità (è sempre la curiosità) a indurmi a telefonare. Composi il numero un pomeriggio piovoso, mentre ero a casa a oziare.
«Pronto?» gracchiò una voce maschile all’altro capo del telefono.
«Buonasera, chiamo per quell’annuncio che si trova affisso presso il circolo Forus.»
Attesi risposta.
L’uomo non reagì per qualche istante, sentii un bisbiglio in sottofondo.
«Sì, il corriere privato», rispose, tossendo come per prender tempo. Dopo essersi presentato come il signor Giorgio Franceschino, giornalista e conduttore del telegiornale sulla rete ammiraglia, si informò sulla mia età e volle sapere il mio stato civile. Appurato che fossi celibe, mi diede appuntamento per il giorno successivo nel parcheggio degli studi televisivi.
Quando riattaccai, i dubbi erano più che triplicati. Ero sempre più convinto si trattasse di un buontempone che non aveva nulla di meglio da fare che prendersi gioco delle persone.
Che razza di colloquio si poteva svolgere presso un parcheggio? E perché mai doveva essere uno dei giornalisti a prendere appuntamenti telefonici con gli aspiranti corrieri, lasciando addirittura il recapito del cellulare?
Mi sarei recato all’incontro solo per essere certo al cento per cento che si trattasse di una bufala, poi avrei staccato quello stupido volantino menzognero per non far sprecare tempo ad altri ragazzi volenterosi.
La vera sorpresa arrivò la mattina seguente quando, puntuale come un orologio, vidi venirmi incontro proprio il signor Franceschino in carne e ossa. Completo gessato, come soleva indossare, cravatta bordeaux e sorriso cordiale.
Mi accolse con gentilezza. Si scusò per il luogo dell’incontro, accennando ad alcuni problemi all’interno degli studi che non volle specificarmi.
Parlammo brevemente. Esaminò senza troppo interesse il mio curriculum e poi volle la conferma che non fossi sposato e non avessi figli.
Si interessò però eccessivamente alla mia turbolenta carriera scolastica. «Potresti definirti uno che a volte si caccia nei guai?» mi chiese con una certa insistenza nella voce.
Riflettei per qualche istante. Mi sfuggiva il nesso con il tipo di mansione che mi si offriva. «È capitato che per il mio temperamento esuberante fossi al centro di qualche tensione da bar», risposi con una certa prudenza, «ma le posso assicurare che al lavoro sono la persona più seria e responsabile del mondo.»
Mi fermò alzando una mano. «Non ne dubito. Quindi ti è capitato di rimanere coinvolto in risse?»
«Stupide scazzottate tra ragazzi che hanno fatto il pieno di birra, tutto qui.»
Un sorriso teso gli si stampò sul viso dai tratti affaticati. «Il lavoro è tuo. Cominci domani, ore otto e trenta. Qui c’è scritto tutto quello che devi sapere.» Mi allungò un foglio stampato al computer. «Lo stipendio è di duemila euro al mese. Avrai un anticipo di mille euro. Domani, alla fine del turno, ti consegnerò l’assegno.»
Lanciai un’occhiata all’edificio della Rai. La facciata ricoperta di vetri rifletteva i raggi del sole creando un abbagliante riflesso, quasi lo stabile fosse incandescente.
Non una persona era uscita dall’ingresso principale, il parcheggio brulicava ancora di macchine.
«Grazie mille», risposi, imbarazzato ma molto contento.
Non mi sembrava vero: duemila euro! In soli due mesi avrei potuto pagare il corso di pittura a Milano. Semplicemente perfetto.
Quando feci ritorno a casa non potei fare a meno di riesaminare mentalmente l’intero colloquio. Era tutto assurdo, ancor più di quanto avessi immaginato.
Il mio curriculum quasi snobbato, l’interesse morboso sulla mia vita personale, la chiacchierata nel piazzale gremito di vetture.
Il silenzio.
Una quiete sepolcrale era rimasta sospesa sulle nostre teste per tutto il tempo.
Possibile che gli studi televisivi del telegiornale fossero così immobili?
Alla fine preferii non pormi ulteriori domande alle quali, comunque, non avrei saputo fornire adeguate risposte.
Che ne sapevo, in fondo, di come funzionavano certe cose. Meglio studiarsi il planning che mi aveva consegnato il famoso giornalista.
Vi erano riportati tutti i giorni della settimana e ognuno di essi era suddiviso in diverse fasce orarie. Alle otto e trenta, come mi aveva annunciato Franceschino, iniziava il primo turno. Avrei dovuto recapitare sette cornetti semplici e tre litri di latte scremato.
Sorsero nuovi interrogativi: facevo il corriere o il barista?
Mi sarebbe stato consegnato poi un plico da portare entro le nove e trenta presso gli uffici della Rai in una sede distaccata, ma comunque abbastanza vicina agli studi del telegiornale.
Le giornate erano scandite da varie mansioni tra cui la consegna di cibo a orari stabiliti e il deposito di vari pacchi tra i molti uffici e gli studi televisivi. Tutto questo senza mai entrare negli edifici, ma sempre aspettando all’esterno il commesso di turno incaricato alla ricezione di quanto portavo di volta in volta.
Alle diciotto in punto finiva il turno, con varie pause di anche due ore tra una consegna e l’altra.
Era vietato danneggiare i plichi in alcun modo, aprirli o smarrirli, così minacciava il contratto che avevo firmato o procedimenti penali sarebbero stati avviati nei miei confronti.
Era altresì proibito ritardare o non recapitare l’esatta richiesta alimentare inoltrata di giorno in giorno tramite SMS.
Davvero un lavoro particolare, ma mi concentrai sui duemila euro mensili e sull’anticipo di mille euro già alla fine del primo turno.
* * *
La giornata successiva cominciai ottimista il nuovo lavoro, feci tutto con rigore e puntualità, in modo ineccepibile. Alla consegna mattutina mi accolse un ometto basso dagli unti capelli corvini che si presentò come Massimo il tuttofare.
Lui avrebbe ritirato le colazioni e lui mi avrebbe affidato i plichi, davanti alla porta che dava sul retro del grosso palazzo a specchi.
Con il passare dei giorni si faceva sempre trovare sul posto al mio arrivo. Schiudeva appena appena l’uscio, quel tanto che bastava a farsi dare le vivande e mi porgeva, con mano instabile, il pacco.
Frettoloso, si richiudeva la porta alle spalle dopo avermi liquidato con un «a dopo» detto a mezza bocca.
Andò avanti così per settimane. Passò il primo mese e i restanti mille euro mi vennero accreditati sul conto corrente. Tutto procedeva senza intoppi.
Fu una giornata ventosa e particolarmente buia che cambiò tutto.
Quel giorno sfortuna volle che la station wagon facesse i capricci e non si mettesse in moto. Scoprii che si era scaricata la batteria.
Colto dal panico, tornai a casa per prendere le chiavi dello scooter e mi precipitai a lavoro, purtroppo con un ritardo di cinque minuti.
Arrivato davanti al solito ingresso, notai che Massimo non era lì ad aspettarmi. Non era mai accaduto. Di sicuro era uscito per controllare se ci fossi o meno e, non vedendomi, era subito rientrato.
Pensai di aver perso il lavoro, mi avvicinai alla grossa porta nera e feci per bussare quando mi accorsi che l’uscio era accostato.
Rimasi titubante per qualche istante, poi allungai la mano e spinsi il pesante alluminio. Mi affacciai verso lo spiraglio aperto, un lungo e muto corridoio si stendeva per qualche metro. Decisi di entrare, magari sarei riuscito a rintracciare Massimo e a sistemare le cose. Dopotutto avevo tardato solo cinque minuti.
Con la busta dei cornetti e il latte che pesava sul braccio destro, mossi qualche iniziale passo incerto. Non si udiva un suono. Scrutai a fondo l’ambiente circostante, ai lati di questo grigio corridoio c’erano alcune porte, tutte chiuse.
«Massimo», chiamai piano.
La mia voce riecheggiò, minacciosa. Mi sentii stupido, perché mai tutta quella esitazione, tutto quel timore? Era pur vero che sia il signor Franceschino sia il contratto parlavano chiaro: mi era stato severamente proibito l’ingresso agli studi. Tuttavia dubitavo che qualcuno se ne sarebbe potuto accorgere.
Percorsi il corridoio con fare più baldanzoso e mi bloccai nel vedere una sorta di mappa attaccata alla parete dello stanzone in cui ero entrato. La esaminai con attenzione.
Al piano superiore si trovava lo studio del TG1, alla mia destra una lunga fila di scale in marmo si allungava verso l’alto. Sarei andato lì, avrei chiesto scusa e avrei tentato di tenermi il posto.
Sempre meglio che non presentarsi affatto.
Mi guardai intorno con un certo senso di smarrimento, gli studi televisivi non avrebbero dovuto pullulare di persone indaffarate? Perché l’entrata era rimasta incustodita se ci tenevano tanto a non far entrare estranei?
Salendo la prima rampa cominciai a sentire dei rumori, un vociare distante.
Finalmente avrei trovato qualcuno a cui chiedere informazioni.
Arrivato sul pianerottolo, mi trovai di fronte a postazioni di lavoro vuote. A pochi metri da me, una voce nota spiegava con chiarezza l’evolversi di un recente fatto di cronaca. Delle forti luci mandavano lampi colorati: stava partendo il servizio dell’inviato.
Mi avvicinai silenzioso dietro le quinte dello studio. Una fitta tenda blu nascondeva la mia visuale.
Non riuscii immediatamente a mettere a fuoco la situazione. La prima stonatura fu vedere un solo cameraman nella sala.
Il signor Franceschino era seduto alla postazione da cui mandava in onda un altro reportage. L’uomo delle previsioni meteo era in un angolo della grande stanza in attesa del suo turno e il signor Massimo sedeva in ginocchio in un lato buio, tanto che quasi non l’avevo scorto.
Così poca gente? Dov’erano finiti tutti?
Quando l’operatore si girò con tutta la telecamera per cambiare inquadratura, notai il suo viso: madido di sudore, l’espressione tesa all’inverosimile, e scosso da un certo affanno.
Mi venne spontaneo guardare l’uomo del meteo. Stesso viso turbato, il corpo rigido e fermo.
Massimo non era da meno, mi sembrò addirittura che stesse piangendo e forse pregando. Sì, era accucciato e pregava in silenzio.
Franceschino introdusse l’ultimo servizio, il cameraman spense la cinepresa e il sorriso sulla faccia del giornalista si dileguò. Lo stesso terrore dipinto sui volti di tutti gli astanti si impresse anche sul suo.
«Ti prego, non farci del male. Abbiamo fatto quello che ci hai detto», supplicò lamentosa la voce dell’anchorman.
Girai gli occhi, seguendo la traiettoria dello sguardo dell’uomo.
Quando riuscii a focalizzare cosa stava accadendo, dovetti fare un grande sforzo per non urlare.
Degli esseri alti due metri, dalla pelle viscida e bitorzoluta e con assassini occhi rossi, torreggiavano minacciosi sui presenti. Le creature emisero strani suoni metallici parlando tra loro. Mentre comunicavano in quella assurda lingua, dalle informi bocche fuoriusciva una copiosa saliva giallognola.
Il mostro più massiccio si rivolse poi a Franceschino, minacciandolo. «Non tollereremo più nemmeno una virgola fuori posto.»
Vidi il giornalista frenare le lacrime e cercare di ricomporsi per finire di presentare l’edizione del mattino.
Inorridito, feci lenti passi indietro, trattenendo il fiato nella speranza di non emettere il minimo rumore. Poi cercai di allontanarmi il più velocemente possibile.
Mentre mi precipitavo per le scale, avvertii alle mie spalle una presenza. Mi girai, pronto al peggio.
La figura grassoccia e sfatta di Massimo mi venne incontro. «Daniele, aspetta. Ti ho visto prima, dietro le quinte. Sei stato uno sciocco a disobbedire, non sai nemmeno cosa hai rischiato.»
Poi mi condusse al di fuori dello spaventoso edificio e mi raccontò tutto.
* * *
Era cominciato circa sei mesi prima, senza preavviso. L’invasione era avvenuta e la maggior parte della popolazione mondiale non si era accorta di nulla.
Quelli che avevo visto erano ostili alieni della stella Gemini 135 Alfa, appartenente a una galassia non ricordo a quanti miliardi di anni luce dalla nostra.
Non c’erano stati sbarchi clamorosi con navicelle ovoidali, niente raggi laser, niente Visitor o Alien.
Semplicemente gli Alfageminiani, forti della loro netta superiorità tecnologica e fisica, ci avevano invaso facendo fuori tutti coloro che avevano cercato di opporsi alla loro sovranità.
Il capo dello Stato era stato letteralmente sbriciolato da una loro arma ai protoni. I telegiornali di tutto il mondo, internet e la carta stampata erano controllati dagli alieni che imponevano ai giornalisti di diramare notizie false in modo da far rimanere nell’ignoranza la gran maggioranza dei terrestri e plagiarli a loro piacimento.
Il presidente degli Stati Uniti era caduto prigioniero e tenuto in ostaggio, gli islandesi erano stati sterminati tutti e l’isola era stata eletta base per le navicelle aliene. Molti animali, piante e minerali venivano portati sul loro pianeta. Innumerevoli uomini venivano catturati e usati per esperimenti.
I Geminiani erano attratti dalla nostra pelle, volevano riuscire a riprodurre il derma umano e farlo sopravvivere alle alte temperature di Gemini 135 Alfa.
I governi di Francia, Stati Uniti, Russia, Cina, Inghilterra e altre nazioni dotate di un arsenale atomico si erano viste portare via le testate nucleari. Tutte le armi erano state ritirate e sostituite con dei falsi. Gli alieni avevano capillarmente occupato tutti i posti di maggior prestigio.
La sera precedente, Franceschino aveva tentato di far arrivare un messaggio al premier inglese che, dalle ultime notizie arrivate, si era riuscito a nascondere con alcuni militari in un luogo super segreto.
Draven, l’extraterrestre in comando agli studi Rai, aveva massacrato senza pietà la moglie e le figlie del giornalista davanti ai suoi occhi.
Quasi tutti gli impiegati dell’edificio erano stati trucidati e sostituiti con dei cloni sintetici, per non destare allarme tra i famigliari.
Ma una notizia era riuscita a filtrare attraverso uno dei plichi che avevo consegnato la sera prima: in Alaska era stata in grado di atterrare un’altra navicella aliena. Non era dei Geminiani ma degli Zatoriani, un popolo simile a noi che viveva in pace nel nostro Pianeta già da millenni. Pareva ci volessero aiutare, stavano organizzando dei gruppi di resistenza protetti dalla loro potenza militare.
«Scappa. Cerca uno Zatoriano e unisciti a loro», mi disse. «È l’unico modo che hai per sopravvivere.»
«Massimo, scappa anche tu, che aspetti?» supplicai, indicando il piazzale deserto.
L’uomo abbassò la testa. «Non posso. Hanno detto che se non mi presento più o faccio anche solo una mossa falsa uccideranno mio figlio. Non posso.»
Senza aggiungere altro mi voltò le spalle e ritornò dentro al suo carcere extraterrestre.
Scappai, sconvolto. Misi in moto lo scooter e mi allontanai il più possibile, senza una meta precisa.
Solo quando la benzina finì, fui costretto a fermarmi e riordinare le idee.
Mi echeggiarono nella mente le parole di Massimo.
Dovevo trovare uno Zatoriano.
* * *
Il primo ostacolo fu allontanarmi da casa con una scusa plausibile. Non me l’ero sentita di coinvolgere i miei genitori in quel delirio e, con ogni probabilità, mi avrebbero ritenuto pazzo per poi farmi internare in qualche ospedale psichiatrico. Il corso d’Arte fu il pretesto. Finsi di essere stato notato da un famoso pittore che mi aveva offerto uno stage nella sua galleria parigina. A Parigi ci andai con tutt’altro scopo, era da lì che Massimo mi aveva detto di cominciare a darmi da fare. Ci vollero mesi di ricerca, gli Zatoriani erano ben mimetizzati tra noi e avevano centrali operative in posti assurdi.
Alla fine, fu un alieno di Zator a riconoscermi.
Ero appena arrivato nelle isole Scilly quando un uomo dai lineamenti scolpiti e gli occhi più limpidi che avessi mai visto mi fermò. Nel momento in cui posò la sua grande mano su di me provai un immediato senso di abbandono, di pace. Piansi per quasi mezz’ora senza riuscire a frenarmi. Ero diventato l’ombra di me stesso, accasciato al suolo per il grosso peso che da mesi portavo sulle spalle in totale solitudine.
Una volta, a Parigi, avevo incontrato un umano che faceva parte della resistenza. Tra loro si chiamavano i Guerriglieri. Mi disse lui dove trovare gli Zatoriani.
Morì per darmi questa informazione. Fu durante un’irruzione di Geminiani nella base del Nucleo di Resistenza Tre, dove ero stato accolto per rifocillarmi prima di continuare il viaggio. Non scorderò mai il suo sguardo poco prima di essere catturato e darmi la possibilità di scappare. Se quell’uomo non mi avesse fatto scudo con il suo corpo, ora sarei stato cibo per vermi.
Quegli occhi prostrati e speranzosi allo stesso tempo mi perseguitano ogni notte.
Adesso faccio parte anche io dei Guerriglieri. Ho iniziato un duro addestramento, il mio fisico è stato spinto fino al limite ed è andato oltre. Ci sono momenti in cui non riesco nemmeno a ricordarmi di un prima, di quel periodo della mia vita in cui gli unici pensieri erano le incomprensioni con mio padre o flirtare con le ragazze carine.
Ora tutto quello che desidero è uccidere.
Tra un mese atterreranno più di mille astronavi di Zator in Alaska. Tra trenta giorni la guerra per la nostra salvezza avrà inizio.