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3710 Words
I Antonio Alberico II Malaspina, già marchese di Massa e signore di Carrara nel 1481 e Lucrezia d’Este figlia di Sigismondo d’Este non ebbero eredi maschi e volendo tagliare fuori dal governo del feudo Malaspina i nipoti, figli dell’odiato fratello Francesco, il marchese seguì la strada più difficile ma breve: chiese all’imperatore di approvare, in deroga alla legge salica, la successione di una delle sue quattro figlie. Carlo V intravide da subito nel piccolo stato dai confini strategici, dotato di porto e a guardia del Passo della Cisa, un alleato minore ma non trascurabile e acconsentì. La scelta doveva avvenire tra Eleonora nata nel 1493, Ricciarda nata nel 1497, Caterina Dianora nata intorno al 1500, che sarebbe in seguito diventata suor Lucrezia e Taddea nata nel 1505. In una lettera che Lucrezia scrisse alla parente Isabella d’Este fu chiaro il suo sgomento nell’avere avuto solo figlie femmine: “Illustrissima mia Madonna e Signora, promisi a vostra Celsitudine di advisarla di parto mio. Li notifico che, con mia disgrazia, ho accresciuto il numero delle figliole femmine che ultimamente mi parvero ormai troppe...”[1] Dai racconti delle donne di corte, la futura marchesa di Massa fu scaltra fin da bambina, di un’intelligenza eccezionale in grado di imparare velocemente e con grande facilità per poi dedicarsi a ciò che veramente le piaceva: seguire il padre a cavallo nella visita del feudo, osservare di nascosto l’allenamento dei soldati, assistere a delicate contrattazioni nella Sala dello Spino e nella Sala Picta, entrare di soppiatto dove le donne spettegolavano durante il ricamo. Era una vera peste, ma diventava una timida e altezzosa bambina in presenza dei genitori. Con le sue smorfie e moine riusciva a estorcere confidenze alle serve e si divertiva a mettere zizzania tra i membri della corte per poi guardare con soddisfazione l’effetto delle sue sortite. La volta che prese di nascosto la corrispondenza privata della madre col duca Alfonso d’Este la punizione fu molto severa, non tanto, però, da dissuaderla a continuare le sue attività illecite. Come tutti i bambini non si lasciava impressionare da nomi celebri, papi, principi e imperatori in visita allo stato dei Malaspina, si sbalordiva, piuttosto, all’arrivo dei giullari, burloni e nani che, dietro alla risata, raccontavano sempre la vera storia di corte, allora sì che la piccola Ricciarda rimaneva totalmente affascinata nel vederli rotolare al rombo dei tamburi. Di malavoglia suonava il liuto, lo faceva solo se costretta durante qualche ricevimento e, per accontentare i genitori, aveva imparato a memoria i versi del Petrarca che recitava sbattendo le ciglia e muovendo i riccioli castani, in realtà quelle parole non la toccavano minimamente, le piaceva piuttosto gustare le espressioni compiaciute degli invitati. Il castello nel corso dei secoli aveva subito invasioni, danneggiamenti, distruzioni per le continue contese tra Lucchesi, Pisani, Fiorentini e i Visconti di Milano, eppure proprio a un signore di Lucca, Castruccio di Castracani, fu fatto costruire il suo simbolo: il Maschio. Da quando Antonio Alberico II era divenuto signore della città, il castello Malaspina fu trasformato da costruzione a scopo difensivo a residenza signorile e sorse un sontuoso palazzo strettamente legato al nucleo medievale. Sull’arco marmoreo dell’entrata principale splendeva lo stemma dei Malaspina con lo scudo dentro cui sbocciavano i cinque rami di spino fiorito. La piccola Ricciarda adorava immaginare di essere la principessa di quel suo unico castello tra le montagne di marmo e il mare. La figlia del marchese correva tra i frutteti e i roseti del grande giardino; saltellava intorno ai pozzi o nel cortile delle cannoniere recitando, a volte con parole sbagliate, antiche filastrocche; curiosava impaurita nelle buie cantine della Rocca dove erano accatastati barili di sale, farina di grano, vasi di terracotta, botti di vino; scivolava nei lucidi saloni colpiti da lame di sole dove brillavano mobili intarsiati, scrigni dorati e argenterie ed era sempre tra i piedi dei fattori e dei soldati che entravano e uscivano continuamente. La festa della contrada di Bagnara era un evento imperdibile per i massesi, che facevano festa per parecchi giorni occupando ogni angolo del feudo. Taddea, la sorella minore di Ricciarda, mi raccontò che, in quei giorni, le figlie dei marchesi sgattaiolavano fuori dal castello, sostituivano i vestiti di velluto e merletti con qualcosa di più semplice preso in prestito dalle serve e si confondevano tra la gente per assistere alle parate, alle gare di animali, al teatro di strada. Taddea aveva pochi anni e tutti notavano quella bambina ben pettinata ma vestita goffamente con abiti che sollevava ogni momento tanto le stavano larghi. Fuori dall’umidità del castello il sole caldo e la vista del mare azzurro in fondo alla valle erano già festa, correvano a perdifiato giù per la strada del Monte della Fortezza a riempirsi di aria fresca e nuovi colori. L’incoscienza dell’età, che non fa avvertire la paura le spingeva oltre, non temevano di essere riconosciute, nessuno avrebbe potuto immaginare che erano le due marchesine, così conciate! Girovagavano tra la porta di Quaranta, il borgo di Bagnara e lo Zappello, su e giù per le salite, attraverso gli archi e le piazzette, tra i banchi di cibo lungo il canale. L’odore del fritto e dei dolci si mescolava a quello della frutta candita, della cipolla, dell’aglio e delle olive. Doveva essere un’orgia di odori e sapori. Lungo la via Communis, la strada principale dove sorgeva la casa del Comune e il banco del Diritto, gli speziali avevano sistemato i loro banchi di vendita ed esponevano, a sguardi esterrefatti, pozioni, sieri, pomate, erbe curative, cosmetici puzzolenti. Le bambine guardavano inebetite tutte quelle ampolle e boccette fumanti, mentre la gente impazziva a comprare di tutto: dal siero per avere più coraggio, al decotto contro la gotta, fino all’immancabile pozione d’amore. I massesi arrivavano sui muli da tutte le contrade, chi poteva permetterselo giungeva a cavallo e i più ricchi partivano con le carrozze dalle loro residenze di Lavacchio, Bergiola, Rocca Frigida. Il grande movimento di persone e il coro di voci che si levava erano un inno alla gioia. E poi c’erano le risse, Ricciarda e Taddea non erano mai riuscite a capire se le azzuffate agli angoli delle piazze fossero reali oppure delle messe in scena ben costruite. Dalle osterie uscivano grida, risate, musica di strumenti improvvisati, suoni, che attiravano e spaventavano le due sorelle che scappavano ridendo. A qualche angolo, i predicatori tentavano di catechizzare le persone minacciando i peccatori con punizioni divine e le piccole Malaspina già si vedevano all’inferno nel girone dei golosi. Tornavano la sera con lo sguardo colmo di meraviglia e la pancia piena di dolci e, non potendo raccontare tutto alla severa madre, si sedevano in disparte con le donne di corte. Ricciarda dipingeva la sua avventura in modo molto colorato, aggiungeva particolari inesistenti che, però, divertivano tantissimo. “Altro che i ricevimenti di corte!” mi disse molti anni dopo Taddea con lo sguardo ancora perso alla festa di Bagnara. Antonio Alberico II istituì erede dei feudi la figlia primogenita, Eleonora, che andò in sposa a Scipione Fieschi, conte di Lavagna e nobile genovese. Quel matrimonio ebbe breve durata poiché la giovane sposa morì nel 1515 lasciando vedovo il conte. Non nacquero figli ma, Alberico II era deciso a imparentarsi con i Fieschi a tutti i costi per il prestigio del nome e la posizione strategica dei loro domini. Il marchese di Massa ottenne, quindi, da papa Leone X il permesso di dare in sposa al vedovo Scipione la sua seconda figlia, Ricciarda e per ottenere ciò sborsò alcune migliaia di scudi. Dal primo matrimonio della Malaspina con il conte Scipione Fieschi, suo cognato e vedovo della sorella, nacque Isabella. Poco dopo la nascita della creatura passai dal ruolo di educatrice per i pargoli di sangue blu a quello di dama di compagnia di Ricciarda ed ebbi modo di dedurne che i capricci erano all’incirca gli stessi. Isabella venne al mondo nel castello di Massa, qui battezzata e nello stesso luogo educata per i primi anni. Ebbe come tutrice sua nonna donna Lucrezia ma fu allevata dalle balie. Nei primi mesi dalla sua nascita vi fu una parata di ambasciatori, uomini di Stato e di Chiesa a far visita alla famiglia e ai genitori. Quel pomeriggio di fine febbraio le serve si davano da fare per alimentare il fuoco del grande camino di marmo, io mi stringevo infreddolita nello scialle e ascoltavo il malumore di Ricciarda, che inveiva contro il marito senza moderare i termini. La Malaspina riusciva a raggelare ulteriormente quell’inverno già sotto zero. Sfoggiava con grande vanità una mantella di zibellino e un manicotto della stessa pelliccia, si muoveva impettita e un po’ goffa, mostrava un’eleganza eccessiva per quella semplice occasione e pareva più adatta a un ricevimento reale. Da mesi acquistava abiti a credito da un mercante di Venezia, Messer Cristoforo Pavan, con cui il marito intratteneva affari. Lo mandava a chiamare spesso ma ultimamente, da quando cioè Venezia era sempre più vicina alla politica francese sotto l’occhio sospettoso dell’Impero, era più difficile portare avanti le trattative con la città veneta. Per togliersi il marchio della nobildonna di provincia, Ricciarda aveva iniziato la sua scalata sociale sperperando i denari del marito e attingendo a piene mani dalle casse del suo feudo, viveva in un lusso sfrenato. “È nelle mani di Adelina, con lei non piange,” disse in risposta a una richiesta del marito, riferendosi alla figlia e senza alzare gli occhi dai documenti che gli aveva sottratto e che teneva tra le mani. “Stavo dando un ultimo sguardo alle carte da sottoporre al notaio De Viviano,” accennò un sorriso tirato, Scipione la guardò con ostilità. “Ho pensato, mio caro, a una piccola modifica sulle imposte del feudo di Roccatagliata.” Feci per allontanarmi, ma Ricciarda mi fece segno con la testa di rimanere: un suo cenno avrebbe fermato un battaglione. “Moglie mia, ho già controllato gli atti con gli altri funzionari.” “Il feudo è molto grande, marito mio.” Sorrisi, proprio non ce la faceva a non usare il sarcasmo. “Va dall’Alta Val Fontanabuona fino alle Valli Trebbia verso il Parmense, sono certa che non vi sarà sfuggito che all’interno della proprietà v’è anche il terreno de la Cerretta e questo fornisce molte risorse per il legname e parecchi pascoli. Penso sinceramente che le nove casate da voi investite potranno benissimo far fronte a una piccola tassa extra, in fondo si tratta di un introito in più, marito mio, non potete non essere d’accordo.” Gli prese una mano e la avvicinò alla sua guancia, mi stupii che non utilizzasse anche lo sguardo languido. Poi come d’improvviso parve ricordarsi della figlia. “Isabella, anima mia, vieni dalla mamma.” Dopo settimane di agonia per forti dolori allo stomaco e al fianco Antonio Alberico Malaspina di Fosdinovo, marchese di Massa e di Carrara della diocesi di Luni spirò, aveva ottantasette anni. Fu ricordato come un buon padrone, amato dal suo popolo e temuto dalle altre Signorie. Due giorni prima di morire, il marchese dettò il suo testamento nel castello di Massa alla presenza di testimoni e del notaio Pandolfo Ghirlanda di Carrara. Dalla stesura di quelle disposizioni dipese la sorte dei Malaspina e poi dei Cibo Malaspina. Secondo il documento, l’erede universale doveva essere il primo figlio maschio di Ricciarda e, se fosse morto senza lasciare eredi, il patrimonio sarebbe passato al secondo figlio maschio; nel caso in cui Ricciarda non avesse avuto maschi, l’erede in questione sarebbe stato il primo figlio maschio di Taddea. Nonostante l’eccezione strappata all’imperatore, la legge salica restava in vigore e nascere maschio era prerogativa per governare, Ricciarda e sua madre Lucrezia, però, furono nominate a capo dei beni e dell’usufrutto del feudo fino a quando la marchesa non avesse avuto eredi. Antonio Alberico II aveva, inoltre, nominato dei commissari del feudo con il compito di controllare lo stato dei beni dei Malaspina e di mettere in atto il documento testamentario. Affidò quell’incarico al vescovo di Mondovì, Ottaviano Fieschi, Ercole d’Este suo cognato e al marchese Antonio Malaspina di Luxolo. Il 14 aprile 1519 fu convocato il Consiglio e chiamati i cittadini massesi. Erano presenti Silvestro de’ Benedetti, vescovo di Sarzana, e il Podestà di Massa, Pandolfo Ghirlanda, i quali annunciarono la morte del marchese e dichiararono come suoi eredi Lucrezia d’Este, governatrice, e Ricciarda col marito Scipione. Il corteo partì dalla porta del castello, scese composto e silenzioso. Era aprile ma faceva freddo e nuvole grigie minacciavano pioggia. L’odore del bosco e quello della legna bruciata salivano tra le mura umide, un silenzio assoluto regnava sul borgo disturbato solo dal verso degli uccelli. Ricciarda, noncurante della tristezza del momento, allungò il passo obbligando tutti noi a starle dietro a fatica. Le ero accanto e notai uno sguardo attento e guizzante mentre recitava a memoria le preghiere con un tono di voce troppo alto. Alla cerimonia funebre del marchese Malaspina parteciparono uomini di Chiesa, principi, signori, rappresentanti di comunità religiose destinatari di generosi lasciti. Prima dell’omelia di suffragio il duca Alfonso d’Este volle lodare le gesta di Antonio Alberico II Malaspina, accanto a lui stavano a testa bassa la moglie Lucrezia Borgia e il figlio Ercole; nell’altra ala della navata pregavano commossi i membri della famiglia Fieschi; non mancavano esponenti dei signori di Firenze, in primis Giulio de’ Medici che sarebbe poi diventato papa Clemente VII. La chiesa dei Santi Francesco e Pietro era gremita da una massa di persone vestite di nero, sembrava un’enorme nuvola scura e gli abiti di porpora dello Stato Pontificio spiccavano incredibilmente. Un’unica voce prima fievole e poi tuonante si levò dalle navate a recitare il Requiem Aeternam cui seguì il suono triste e penetrante dell’organo. La moglie del marchese, le sue figlie e il genero Scipione Fieschi stavano composti intorno alla bara del marchese di Massa issata su un catafalco sormontato da un baldacchino. Ogni qualvolta il portone si apriva entravano voci dalla strada e folate di vento facevano tremare la fiamma delle candele; l’odore acuto dell’incenso si mescolava a quello degli oli e delle essenze delle nobili signore intente a pregare con i volti immobili e scolpiti. Fuori c’era il popolo, i sudditi di Antonio Alberico II, riconoscenti per il suo governo retto e onesto. Pregavano anche loro, sussurravano il suo nome, avevano gli occhi lucidi. Loro sì che pregavano... loro sì che si commuovevano con ammirevole dignità... La vedova Lucrezia non versò una lacrima, il volto scarno e pallido dalle folte sopracciglia e gli occhi infossati non lasciava trapelare emozioni, pregava rigida con le mani congiunte sotto numerosi strati di stoffa nera. Guardava il nulla e pregava, non so se per assicurare l’anima del suo caro a Dio o se per chiedere a Lui la forza di amministrare il feudo tenendo lontano tutti quegli avvoltoi che continuavano a farle le condoglianze. Taddea piangeva sommessamente agitando le spalle sotto il velo, ricordo ancora lo sguardo severo che la sorella Ricciarda le rivolse. Soffriva Ricciarda? Non saprei dirlo, si guardava intorno e scrutava con attenzione tutti i presenti, altre volte gli occhi lucidi e smarriti si posavano sulla bara del padre, a volte ancora pregava muovendo appena le labbra rivolta verso la statua della Madonna. Il vescovo recitò la messa, fu una lunga litania in latino, alla fine della liturgia si schiarì appena la voce, chiuse gli occhi e a mani giunte pregò con voce vibrante: “Angele Dei, qui custos es mei, me tibi commìssum pietàte supèrna illùmina, custodi, rege et guberna. Amen”. Scipione sorreggeva la moglie, anche se sembrava essere la mia signora a reggere il consorte ormai malato. Ero immobile, chiusa in una preghiera che non sentivo mia, lo sguardo vagava per la chiesa, poi chinai il capo per tornare a concentrarmi ma non ci riuscii, le due marchese parlavano in tono appena sussurrato. “Madre, penserà Scipione a pagare il vescovo per la cerimonia funebre.” “Grazie per la cortesia figliola,” rispose senza guardarla in faccia. “Comunica a tuo marito che per domani mattina ho convocato i conti Fieschi, il notaio e il camerlengo per definire alcune questioni territoriali, poi farò lo stesso con il duca di Ferrara.” “Spero non li facciate incontrare.” Ricciarda sollevò il velo, sembrava di cera. “Non temere, so quanto i genovesi detestino il duca e viceversa.” Ricciarda aveva preso il temperamento della madre. Massa sarebbe diventata la città delle donne e le marchesane avrebbero governato con intransigenza affrontando la spietata legge maschile della politica. Fu una settimana intensa di incontri con ambasciatori e signori degli stati legati al feudo massese. Il castello era anche la sede del governo e dei magistrati, al suo interno soggiornavano quasi tutti i funzionari escluso il podestà, Filippo Andreani, assistito sempre dal Cavaliere della Curia. Echeggiavano, nel cortile e tra le mura della Rocca, le voci dei soldati, le grida dei cocchieri, lo sferragliare delle ruote delle carrozze, gli ordini del fattore. Da subito le marchese obbligarono i consoli e consiglieri alla rinuncia ad alcuni privilegi in favore degli interessi marchionali. L’imposizione fiscale era il motivo principale delle proteste del Consiglio ma Lucrezia si muoveva come un’amministratrice consumata. La Cappella, la Sala della Spino e la Sala Picta erano le stanze dove le due marchese consumavano le giornate tra trattative, preghiere e rappresentanze. Sotto le volte della Sala dello Spino i paesaggi con le vedute di Genova e Firenze ricordavano che la vita politica malaspiniana girava intorno a quelle due città, mentre, nei medaglioni delle lunette, i ritratti di famiglia infondevano la fierezza delle radici apuane. Le marchese erano ben determinate a trovare una soluzione allo stagno finanziario che si era creato per l’aumento dell’oro e dell’argento americano e per i nuovi mercati nel mare del Nord, che stavano sostituendo quelli del Mediterraneo. Era necessario rivedere le trattative per l’esportazione e contrattare sui dazi e sulle varie imposte di trasporto. Scipione non partecipò alle mediazioni a causa della malattia che stava degenerando e lo consumava giorno dopo giorno obbligandolo a tornare nella sua Genova e a rimanere allettato. Il medico dei Fieschi, Edemondo Tassi, dopo ripetute visite ancora non trovava una cura capace di guarire il povero conte. L’uomo dimagriva a vista d’occhio, aveva forti dolori allo stomaco, tremava tutto e il pallore del suo volto era quasi inquietante. Non bastarono i salassi, i decotti di erbe miracolose o i cataplasmi, l’unica cosa che un po’ quietava il suo dolore era una tisana sedativa di papavero bianco e qualche bicchiere di liquore perché lo stordiva. Non si può dire che Ricciarda fu fissa al suo capezzale, la donna approfittò della sua assenza per studiare tutti gli affari che il marito aveva intrapreso e capire dove avrebbe potuto mettere voce. Il fedele camerlengo Pietro Gassani comunicò a Lucrezia che il popolo aveva bisogno di certezze e di risposte. “Donna Lucrezia, i massesi si lamentano continuamente per la scarsa irrigazione, dicono che le attrezzature agricole sono medievali; il costo del sale è troppo alto; gli affitti insostenibili e che, nonostante le gelate di questo inverno che hanno distrutto i raccolti, le tasse sono aumentate; i telai di Forno, Carrara e Antona lavorano poco e la produzione di canapa è pressoché ferma… ah e le botteghe di manifattura non possono ordinare niente perché l’importazione è bloccata,” disse il Gassano (come tutti lo chiamavano) scorrendo lentamente una lista che si era scritto. “Basta così. Dite loro che anche per noi i prezzi sono insostenibili, non è possibile in un simile momento abbassare le tasse o spendere denaro in attrezzature nuove, che sia riparato quanto abbiamo e ripristinato il vecchio sistema di irrigazione. Adesso mandate a chiamare il mio agente Tommaso Carlo Bavastro e il podestà Pandolfo Ghirlanda, bisognerà chiarire come sfruttare al meglio il fiume Frigido per i traffici di commercio. Tranquillizzate i massesi che non appena la situazione economica si sarà ristabilita staremo meglio tutti.” Già, intanto le tasse vanno nella Cassa Marchionale, pensai amaramente. Furono tempi di lutti e difficoltà: l’anno successivo la morte del padre spirò anche il conte Scipione Fieschi e Ricciarda rimase vedova. Con la scomparsa dei due uomini che reggevano i suoi patrimoni la mia signora temette il crollo del potere Malaspina, già immaginava politici, uomini di Stato e di Chiesa pronti ad avventarsi sui suoi beni. Illusi. Il testamento del conte ligure venne disposto a Sestri Levante il 15 febbraio 1520. Nelle sue memorie chiese di essere sepolto nella chiesa di San Francesco a Massa nel monumento in cui fu tumulato Antonio Alberico II Malaspina. Tra i vari lasciti, di cui duemila ducati al figlio naturale Ludovico, a Ricciarda cedette, oltre ai numerosi beni, altri appezzamenti in Lunigiana e alcune dimore; il nobile dispose anche qualche donazione ai suoi sudditi di Montoggio. Il compito di dette elargizioni venne mandato a donna Ricciarda, al Reverendissimo Ottobono e all’Illustre Sinibaldo, suoi fratelli. Alla morte del conte l’educazione della figlia Isabella passò al fratello Sinibaldo, come da volontà di Scipione, presso la famiglia Fieschi a Lavagna. La piccola sarebbe cresciuta come una dei figli legittimi dello zio e fece da subito parte integrante della famiglia Maria della Rovere ebbe un gran da fare, alla numerosa figliolanza si unì Isabella. La potestà della figlia di Ricciarda non fu un’imposizione, ma un desiderio di Sinibaldo e donna Maria. La vedova fu incapace di gestire tutto quel patrimonio in decadenza, i lussi delle ville e i debiti del marito e io vissi con loro quel periodo di disagio. Seguii la famiglia Fieschi prima a Pontremoli poi nelle dimore tra Montoggio, Lavagna e Genova. Ho bellissimi ricordi del periodo vissuto a Montoggio, il castello era sobrio all’esterno e lussuoso all’interno. Nelle ampie stanze erano sistemati scrittoi in noce lucidissimi, vasi di alabastro, cassapanche intarsiate e letti a baldacchino, i corridoi traboccavano di opere d’arte e magnifici candelabri per fare luce, le sale più importanti erano riscaldate da imponenti camini e a ogni parete spiccavano ritratti di famiglia e statue di personaggi a me sconosciuti. Fuori da quelle strette finestre si levava il canto della natura con i suoi corsi d’acqua, i suoni della valle, l’odore del bosco. [1] Lettera custodita presso l’Archivio di Stato di Mantova riportata in L. Staffetti, Cure domestiche di una Marchesana di Massa, in «Per i Confini della Lunigiana», 13, 1929, pp. 66-68.
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