Nel pomeriggio finì per addormentarmi, infatti la sera, quando mi risveglio mi ritrovo con ancora le cuffiette infilate nelle orecchie e la musica accesa. Mi passo una mano fra i capelli disordinati e scendo le scale, mio padre dovrebbe ormai essere tornato dalla sua presunta commissione.
"Papà cosa sono queste cose?" gli chiedo trovandolo seduto sul divano a leggere un giornale con i suoi occhiali, osservando delle borse e vari oggetti appoggiati accanto al divano.
"Sono di Sheryl, passerà il finesettimana da noi, spero non ti disturbi" mi dice con un sorriso e per quanto mi possa disturbare non riuscirei mai a dire di no a mio padre.
"No, non disturba"
"Meno male, non vorrei creare discussioni fra noi" mi dice baciandomi sulla fronte prima di sparire in cucina, lascio un sospiro e mi butto a peso morto sul divano.
"Abby ho usato il tuo bagno per farmi una doccia, ti da fastidio?" mi dice colei che passerà il resto della settimana in casa mia, con indosso un accappatoio rosa confetto.
"No" rispondo riportando lo sguardo sul mio telefono.
"Tuo padre mi ha detto che ti piace molto il pollo con la salsa barbecue, sono molto brava a prepararla, se ti va, posso fartela per cena" aggiunge, senza togliersi dalla faccia quel sorriso tanto perfetto.
"Mio padre si è dimenticato di dirti che mi piace solo ed esclusivamente quella che preparava mia madre" le sorrido falsamente, mi alzo in piedi ed esco di casa, lasciando chudersi la porta con un tonfo.
Mi infastidisce questa sua mania di essere sempre carina e gentile nei miei confronti, se ho accettato di averla in casa è per non creare ulteriori litigi con mio padre, non per lasciarle fare la mammina di turno.
Cammino respirando a fondo l'aria fresca della sera, fuori è buoio e per una volta mi sono ricordata di portare il mio adorato parka con me. Mi fermo in un parco che non sta molto lontano da casa mia e mi stendo sull'erba umida, guardando il cielo stellato sopra di me.
Socchiudo un'occhio e porto un dito in aria, contando tutte le stelle che i miei occhi riescono a vedere. "Ne ho contate tredici mamma, queste nuvole coprono la maggior parte, credo che fra non molto pioverà" dico ad alta voce, guardando verso l'alto.
"Mi manchi tanto, manchi tanto amche al papà, solo che non lo dà a vedere" sospiro. "Se mi senti, mandami un segnale" le dico, come faccio sin da quando ero piccola.
"Ora parli anche da sola?" dice una voce dietro di me, per quanto possa odiarlo, la sua voce sarei capace di riconoscerla sempre.
"Che ci fai qui?" gli domando senza distogliere lo sguardo dal cielo. Si posiziona davanti a me coprendo la mia visuale. Riesco a vederlo solamente grazie alla luce della luna che gli illumina il viso. Indossa ancora la divisa da lavoro, ormai ho capito che si cambia a casa, mi sto davvero chiedendo se le maniche della camicia piegate fin sopra al braccio non gli facciano freddo.
"Passavo di qui per tornare a casa e ho sentito qualcuno di familiare fare discorsi strani, cosa fai?" mi domanda guardandomi curioso.
"Conto le stelle" rispondo. Molto silenzioso mi imita, coricandosi sul prato nella mia stessa identica posizione. Alza un dito verso il cielo e lo sposta, come se le toccasse una ad una.
"Io ne ho trovato ventisei, tu?" mi domanda voltandosi verso di me, i suoi capelli sono scompigliati e i suoi occhi scuri sono visibilmente stanchi.
"Niente, è un gioco che facevo con mia mamma quando ero piccola. É impossibile che tu ne abbia trovato tredici in più di me" protesto.
"Invece si che è possibile, sei tu che non hai guardato abbastanza. Perciò ho vinto" mi dice soddisfatto, con quel suo sorriso insopportabile che fa nei momenti così.
"Hai imbrogliato!" ribatto, mi allungo con il braccio e raccolgo una ghianda caduta dall'albero poco distante da noi e gliela lancio sopra, beccandolo proprio sulla fronte.
Inevitabilmente scoppio a ridere, talmente tanto, da dovermi tenere la pancia. La sua espressione sorpresa è stata troppo buffa.
"Sei una selvaggia!" esclama e approfittando del momento mi da una paca sul sedere. Sgrano gli occhi e immediatamente inizio a dargli pugni e calci, indispettita.
"E tu un pervertito" rispondo con lo stesso tono, eppure, ad ogni mio colpo rimane indifferente come se lo stessi accarezzando.
"Se ammetti che preferisci me a Chesley ti lascio andare" mi dice bloccandomi i polsi al terreno.
"No" rido, scuotendo la testa. Mi dimeno sotto di lui cercando di liberarmi, ma come se non bastasse, mi ferma anche le gambe.
"Anzi no, non serve neanche che tu lo ammetta, è palese che preferisci me a lui" continua con la sua ipotesi, soffiandomi sul viso.
"Perché? Sentiamo" domando curiosa di sentire le sue strane idee.
"Sono sicuro che con lui non hai mai riso in questo modo, poi sono più bello, e bacio divinamente, non c'è paragone" risponde.
"E soprattutto sei più presuntuoso, magari non ho riso in questo modo, ma lui è sicuramente più simpatico di te!" gli dico facendo la linguaccia.
Solamente quando sentiamo qualcosa bagnarci la pelle smettiamo di fissarci, solamente per alzare gli occhi e capire che fra non molto diluvierà.
Si alza da terra, lasciandomi finalmente andare, e per la prima volta da quando l'ho conosciuto ha fatto qualcosa di carino, ovvero, porgermi una mano per aiutarmi ad alzarmi.
"Su andiamo" mi dice stringendomi la mano inconsciamente, mentre mi trasporta fuori dal parco correndo. I lampi rompono il cielo, i tuoni suonano assordanti e la pioggia aumenta, bagnandoci tutti.
Ma il poco tempo che ho vissuto da, quasi, persona normale sembra essersi esaurito, perché la sfiga ritorna puntuale su di me e come una vera idiota scivolo a causa del marciapiede scivoloso.
In qualunque scena normale, lui avrebbe potuto aiutarmi con la sua forza a rimanere in piedi, ma la realtà è che sono talmente pesante da trascinare a terra anche a lui.
Mi guarda per qualche secondo, come per assicurarsi che sia viva, prima di scoppiare in una fragorosa risata. Mi sarei arrabbiata se non fossi senza forze, fradicia, in mezzo alla strada assieme a lui, così bello mentre ride, con quella camicia appiccicata al suo fisico perfetto.
Dieci minuti dopo, riusciamo ad arrivare sani e salvi a casa.
"Forse è meglio se vado a cambiarmi, ci vediamo" mi saluta senza togliersi quel sorriso ,che odio ma che allo stesso tempo adoro, dalla faccia.
"Brook" lo richiamo, quando era ormai dentro casa. Si volta, a un passo dalla porta e mi guarda, aspettando che dica qualcosa.
"A domani?" gli chiedo incerta, giocherellando con le dita.
"A domani" risponde, chiudendo la porta dietro di lui, lasciando l'odore del suo profumo su di me, la sua risata nella mia mente, e la senzasione di protezione sulla mia mano.