Capitolo 2: L’Arrivo di Alberto

605 Words
Mentre la nebbia sembrava farsi più fitta e il silenzio dominava ancora il cimitero, a rompere la sacralità del luogo giunsero i primi rumori di passi nella ghiaia, nitidi e decisi. Un uomo avanzava lungo il sentiero principale, la figura snella e dritta, l’andatura determinata di chi è abituato a inseguire la verità tra polvere e segreti antichi. Era Alberto, l’archeologo. Alberto portava con sé una sensazione di movimento e vitalità che strideva con l’immobilità del cimitero. Aveva poco più di quarant’anni, i capelli neri pettinati con cura, occhi scuri e mobili che sembravano pesare e catalogare ogni dettaglio. Il suo volto era scavato da notti insonni passate sui testi e sulle mappe, ma era anche illuminato dall’entusiasmo febbrile di chi vive sospeso tra mistero e scoperta. Il suo abbigliamento, insolito per quel luogo, tradiva la natura del suo lavoro: pantaloni robusti da esploratore, scarponi infangati, borsa a tracolla piena di libri, strumenti e taccuini, una sciarpa polverosa stretta intorno al collo e guanti di cuoio consumati. Tenace e meticoloso, si distingueva per una certa testardaggine che si rifletteva nei suoi sguardi incrollabili. Si fermò sotto lo sguardo vigile delle statue, sollevando lo sguardo una volta al cielo lattiginoso, e si soffermò per qualche istante accanto all’ingresso principale, dove la cancellata rugginosa separava la città dei vivi da quella dei morti. Teneva in mano una lettera, ormai sgualcita nei bordi: autorizzazione ufficiale per le sue ricerche, sigillata con lo stemma dell’ente archeologico nazionale. Filippo, avvertito dai passi e dal nuovo odore straniero nella nebbia, comparve tra i cipressi. L’apparizione del vecchio custode non fu immediatamente amichevole. Stava ritto, quasi a bloccare il sentiero, una mano appoggiata al bastone, l’altra stretta attorno al cappello sdrucito. Filippo aveva l’aria di chi ne aveva viste tante e non nutriva simpatia per sconosciuti, soprattutto per coloro che si avventuravano là per motivi che lui reputava superficiali. Il loro primo scambio fu breve ma carico di tensione, come due cani da guardia che si annusano in cerca di segnali. — Buongiorno, — azzardò Alberto, mostrando la lettera e lo sguardo amichevole, — sono l’archeologo incaricato degli scavi. Filippo lo studiò a lungo, gli occhi che misuravano, cercando le intenzioni nascoste oltre quelle parole formali. — Qui non si scava senza rispetto, — rispose infine il custode, con voce bassa e ferma, — e a volte nemmeno con quello. Mentre parlavano, la nebbia saliva lenta intorno alle loro gambe, trasformando la realtà in visioni indistinte ai margini del campo visivo. Filippo indicò con cenni prudenti alcune zone, mettendo in guardia l’archeologo su quali tombe non dovessero essere toccate, elencando storie antiche tra superstizione e memoria. Alberto, però, tirava fuori i suoi taccuini, annotava, prometteva attenzione, ma nel suo sguardo si intuiva l’urgenza di qualcosa di più grande, di una scoperta che potesse trascendere le raccomandazioni di un vecchio custode. Il cimitero, sentendo la presenza dello straniero, sembrò cambiare sotto i loro occhi: suoni appena percepibili, ombre più dense tra le statue antiche e i cespugli. Gli uccelli rimanevano immobili sui rami, quasi anch’essi in ascolto. Filippo, infine, scelse di seguire Alberto nei suoi primi passi tra i vialetti per vigilare su di lui e su ciò che avrebbe fatto. Osservava ogni suo gesto, i movimenti febbrili delle mani, la sete di risposte che traspariva in ogni domanda. Presto sarebbe stato chiaro che l’arrivo di Alberto in quel microcosmo sospeso tra i mondi non era dovuto al caso. Con la sua presenza, aveva già smosso qualcosa sotto la superficie. La nebbia sembrava ispessirsi, e il cimitero, inquieto, aspettava che la storia dei vivi si intrecciasse pericolosamente con quella dei morti.
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