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L'alchimia del piacere, 1. Zolfo e mercurio

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Vivian Rivers ha lavorato duro per diventare quel che è, un medico del Presbiteryan Hospital di New York. Quando Jas Merrywater, suo mentore e vecchio amico di famiglia, le chiede di andare a visitare un suo paziente privato Vivian lo fa solo per l’affetto che li lega. Nella casa nei boschi in cui va ad assisterlo si aspetta di trovare un anziano disabile, ma si trova davanti un uomo giovane e affascinante... che è stato trapassato da un colpo di spada. Non solo: “l’incidente” è avvenuto quel pomeriggio, ma la ferita è già praticamente guarita. Vivian scoprirà così l’esistenza di un mondo che non aveva mai sospettato, fatto di esseri eccezionali e non esattamente umani. E il suo ruolo, in quel mondo, non è solo quello di spettatrice...

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CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

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"«Sei così soffice» mormorò lui, con un sorrisino.

«Sarebbe a dire?» feci io, sulla difensiva.

«La tua pelle. È così liscia. E sei morbida». Mi strofinò il mento sui capelli. «Sei stata gentile ad aiutarmi. Anche se non eri d’accordo».

Gli sfiorai il punto in cui fino a mezz’ora prima aveva una ferita fresca. «E non mi dirai chi sei».

«Mmm... Rahel è più o meno il mio nome. Awad no, ma non importa. Non è brutto. E sono...» un lieve sorriso «...se può aiutarti sono un esperto di arte antica. Il lavoro con cui pago le bollette eccetera. Ti dispiacerebbe voltarti a pancia in giù?».

«Eh? No, perché?».

Mi rivoltai sulla pancia e Rahel scostò il piumino, poi mi spostò il capelli dalla schiena in modo da vedere le mie due voglie al caffelatte. «Eccole qua» disse. Mi sfiorò la scapola destra e io sentii un brivido in tutto il corpo. Non un brivido sgradevole... come un solletico caldo. Poi sfiorò anche la sinistra e di nuovo sentii quella specie di brivido.

«È questo» disse lui. «Il motivo del lampo, dico. Sono ancora... mmh... in formazione, mi dispiace».

Mi baciò la schiena, in mezzo alle scapole. «Sì, mi dispiace, avremmo dovuto conoscerci tra un po’. Nello stesso tempo... non mi dispiace. Ho voglia di baciarti fino in fondo alla schiena. Ho voglia di... oh, sì».

Mentre parlava io avevo sollevato un po’ il sedere, inarcandomi e puntellandomi sulle ginocchia.

«Non ho più preservativi» mi comunicò inutilmente.

«L’ultimo l’hai vaporizzato. Se lo rifacciamo mi vaporizzerai le ovaie?».

Lui rise sottovoce e mi baciò di nuovo in mezzo alla schiena. «Decisamente no. In realtà penso che non succederà più niente di strano. Mmm... ne sono abbastanza sicuro, ma non totalmente».

Mi fece scorrere le mani sulla schiena, carezzevole e gentile. A quel punto era inginocchiato o seduto dietro di me, non lo sapevo, e io iniziavo ad averne davvero voglia. Di nuovo."

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1.
1. Ho delle curiose voglie al caffelatte su entrambe le scapole. Sono solo due macchioline a forma di fagiolo, niente di speciale. La cosa buffa è che siano simmetriche, tutto qua. Forse nel Medio Evo avrei avuto delle noie per i miei due nevi, ma il peggio che mi sia mai capitato è che qualcuno mi prendesse bonariamente in giro in spiaggia, da bambina. Dopo le superiori, in ogni caso, non ho più avuto molto tempo per andare in spiaggia. La facoltà di medicina mi assorbiva tutto il tempo. Poi l’internato. Poi, semplicemente, una professione che amavo e che mi lasciava ben poco tempo libero. Tutto questo per dire che alle mie voglie non pensavo più da un pezzo, quando iniziò la vicenda che avrebbe modificato la mia prospettiva sul mondo. Iniziò con una strana coincidenza. Non una coincidenza stranissima, intendiamoci, solo strana. Era una sera di inizio dicembre e stavo finendo il mio turno al pronto soccorso del New York-Presbiteryan di Lower Manhattan, l’ospedale in cui lavoravo. Era stata una giornata impegnativa: diversi incidenti stradali, due infarti, la solita collezione di ossa rotte e incidenti domestici, un ustionato, un caso di percosse e anche un ragazzo con un lungo taglio su una spalla. Sebbene la lesione fosse profonda e avesse intaccato epitelio e muscolo, non era grave. La suturai chiacchierando con il paziente, come faccio sempre. La gente si rilassa, se gli parli. Ci sono degli studi che indicano che instaurare un buon contatto umano con il proprio paziente alzi la sua soglia del dolore e migliori la sua prognosi. Insomma, questo per dire che parlavo sempre con chi curavo, se era cosciente. Il ragazzo con il taglio era stato accompagnato dalla polizia, ma non era un criminale, solo uno sfortunato passante. «Quindi? Si è trovato in mezzo a una rapina, mh?» dissi, lasciandogli modo di parlare, se voleva. Lui rise. Nonostante tutto, era di buon umore. Inoltre gli avevano già fatto un’iniezione di anestetico locale, quindi non sentiva dolore. «Una rapina? Beeeh, ‘gnora» disse, con accento strascicato del sud, «se quella era una rapina, io sono una ballerina». Era un ragazzone grande, grosso e anche un po’ sovrappeso: non sembrava una ballerina. «Davvero?» feci, continuando a suturare. Lo ascoltavo solo con mezzo orecchio. «Non so, ‘gnora, lei come li definirebbe due che si prendono a spadate nel mezzo di un parcheggio? Come in un cazzo di film sui templari, scusi per il francese». Inarcai un sopracciglio, divertita.«A spadate? Cioè, con una spada... o magari era un machete?». «Macché machete, ‘gnora. Pensa che non sappia riconoscere un machete? Erano spade, giuro su Dio. Spade lunghe tipo quelle dei templari, serio». Finii di suturargli la spalla e lo disinfettai. «Ci credo, ci credo». «Ma vedrà che ora vi arriva anche lo spadaccino numero due, quello che ci è quasi rimasto secco». Ci pensò un attimo. «Tranne che forse ci è rimasto secco, dopo tutto. Doveva vedere che squarcio! E tutto il sangue... quel tizio gli ha piantato la spada nel petto... oddio, magari su un fianco, non lo so. Forse l’hanno già portato dal suo collega giù dal frigo, eh?». Più tardi scambiai due parole anche con i poliziotti, che volevano una dichiarazione sulla ferita che avevo suturato. A quel che pareva due individui tra i trenta e i quaranta, entrambi bianchi, entrambi vestiti in modo decente e normale, avevano iniziato una sorta di duello con le spade in un parcheggio a poca distanza dalla Broadway. Ed erano spade vere, come avevo avuto modo di confermare io stessa. Uno dei due aveva avuto la peggio, ma i poliziotti non sapevano che fine avesse fatto, perché avevano seguito il loro testimone, lasciando la scena del crimine ai loro colleghi. Incuriosita, ammetto che prima di andare a casa passai dall’obitorio per chiedere se gli fosse arrivato un tizio ucciso da un colpo di spada, ma l’infermiere lo negò recisamente. Immaginai che fosse finito in un altro ospedale e non ne avrei più saputo niente. Un’altra folle storia in una città folle come nessun’altra al mondo. Presi la mia piccola ibrida e tornai a casa, a Brooklyn. Vivevo in una villetta monofamiliare di mattoncini rossi, con davanti un rettangolo di prato e una fila di alberi sul marciapiede. Lasciai la macchina nel vialetto e, prima di entrare in casa mia, andai a suonare ai Merrywater, nella villetta accanto. Conoscevo Jason e Dana Merrywater da tutta la vita e per me erano stati un po’ come genitori in seconda. Jason era un medico, ormai in pensione, ed era stato grazie a lui che avevo deciso che cosa volevo fare da grande. Poi, quando entrambi i miei genitori erano morti, la loro presenza mi era stata di conforto. Quando ero tornata a vivere in quella casa, lo confesso, in parte l’avevo fatto per averli di nuovo accanto. Venne ad aprirmi Dana, con addosso una pesante vestaglia rosa. Al di sotto era completamente vestita, lo vedevo dai pantaloni, ma alla sua età e con il freddo che c’era non potevo biasimarla per aver aggiunto uno strato extra al suo abbigliamento. «Oh, tesoro. Per fortuna sei passata. Jas stava per telefonarti» disse, facendomi entrare. Mi preoccupai. «Sta bene?». Lei emise la risatina chioccia che conoscevo e amavo. «Oh, che sciocchina! Certo che sta bene». Si fece seria. «No, è un’altra faccenda». La seguii fino al salottino sul retro. Jas era seduto in poltrona davanti al camino, con in mano un bicchiere di rum e soda e addosso una vestaglia marrone. «Vivian, per fortuna» disse, quando entrai. Si alzò un po’ a fatica. Era ancora perfettamente lucido, ma l’artrite non gli lasciava scampo. Ed era anziano, davvero, davvero anziano, ormai. Assomigliava a una susina rinsecchita e marrone, mentre Dana sembrava una pesca un po’ avvizzita. Adesso nessuno ci faceva più caso, ma quando si erano sposati essere una coppia interrazziale non era una passeggiata. «Devo parlarti di una cosa» disse Jas. «Be’, chiederti un favore... un grosso favore, in realtà». «Va bene» dissi io, aiutandolo a risedersi. Ero sollevata che stesse bene, ma anche un po’ preoccupata per il suo tono. «È un paziente privato» mi spiegò lui. «Un mio vecchio paziente. Lo seguo... oh, da un sacco di tempo. Non può farsi visitare in un ospedale». Aggrottai appena la fronte. «Se non è assicurato non è...» iniziai a dire. Era tutta la vita che Jas visitava e operava gratuitamente pazienti non-assicurati e io avevo cercato di seguirlo in questa buona abitudine. «No, no. Non è per questo» tagliò corto lui, tuttavia. «Non può farsi visitare in un ospedale perché... non può. Sarebbe pericoloso per lui. Deve mantenere un basso profilo, diciamo». Jas diede un colpo di tosse e bevve un sorso per ripulirsi la bocca. O, comunque, era come la metteva sempre lui. «Be’, te ne renderai conto da sola, se accetti di vederlo. Sta male. Ha bisogno che qualcuno vada da lui e si occupi del suo... problema». Dana dovette interpretare correttamente la mia espressione perplessa perché rise e mi posò una mano sulla spalla. «Tesoro, non è un criminale!». «Oddio, no, non pensavo che Jas...» Lui ridacchiò. «Oh, ai miei tempi qualche criminale l’ho curato, non ti credere. Ma erano altri criminali, attivisti politici. Questo paziente... è una brava persona. Bravissima, in realtà. Non può farsi curare pubblicamente, questo è tutto. Capirai il motivo se lo vedrai». Mi strinsi nelle spalle. «Okay. Domattina...» «Dovresti andarci ora, tesoro» disse Dana. Jas sospirò. «Non te lo chiederei, se potessi evitarlo. Ma le mie mani...» «Ma certo. Ci vado ora, non preoccuparti. Dammi il nome e l’indirizzo». Jas me li diede. +++ Il signor Rahel Awad abitava in un paese lungo la valle dell’Hudson, a un’ora e mezza circa dalla città. Data la nottata gelida e il tempo che prometteva pioggia avrei fatto volentieri a meno di andarlo a visitare. Per di più, seguendo le indicazioni del navigatore mi ritrovai a percorrere una strada a tornanti in mezzo ai boschi che doveva essere stata asfaltata l’ultima volta diversi anni prima. Non il massimo per la mia ibrida da città. Insomma, ero un po’ irritata, lo ammetto. Ero anche piuttosto incuriosita, dato che la richiesta di Jas era davvero inconsueta. Dato il nome del paziente, durante il viaggio fantasticai un po’. Forse il signor Awad era un esule di qualche tipo. Un rifugiato politico di un regime mediorientale che non poteva correre il rischio di farsi riconoscere da qualcuno. Forse era un iraniano fuggito dalla rivoluzione khomeinista. Non spiegava la sua assoluta necessità di non farsi visitare in un ospedale, ma era quanto meno una spiegazione. Anche il posto in cui abitava deponeva a favore di una specie di recluso in casa. Forse, ormai anziano, il signor Awad si era ferito nei boschi che circondavano la sua abitazione. In merito al suo “problema”, in effetti, Jas era stato parco di informazioni come sul resto. Mi aveva detto di portarmi il necessario per disinfettare, suturare e per qualche piccola procedura chirurgica d’emergenza, nient’altro. Probabilmente un taglio profondo o qualcosa del genere. Risalii la strada solo parzialmente asfaltata, fino a che i fari della mia macchina non illuminarono un vecchio cancello di ferro, aperto. Entrai in un cortile lastricato, sul quale incombeva una casa che, con quel tempo e quel buio, mi sembrò una dimora infestata. Era alta e stretta, in tipico stile gotico americano, con parte della facciata coperta d’edera e il tetto a punta. Al piano terra le due grandi finestre a bovindo erano illuminate, ma delle tende chiare impedivano di vedere all’interno. Spensi il motore, presi la mia valigetta e scesi dalla macchina. La temperatura era molto bassa e fui subito schiaffeggiata da un vento gelido e umido, del tipo di quando sta per cominciare un temporale con i fiocchi. Andai verso la porta d’ingresso, ma prima che potessi salire i tre gradini e suonare il campanello l’uscio si aprì, rivelando una figura snella e alta, stagliata in controluce. «Dottoressa Rivers?» chiese la persona sulla soglia, con un debolissimo accento straniero. «Grazie per essere venuta». Si fece da parte, lasciandomi entrare in un piccolo atrio dalla tappezzeria verdastra, e richiuse la porta alle mie spalle. L’interno della casa era gradevolmente tiepido e aveva un’illuminazione morbida. L’uomo che mi aveva fatta entrare doveva avere qualche anno più di me, ossia non raggiungeva la quarantina. Era alto e snello, con addosso dei pantaloni cargo e un maglione a coste di un marrone bruciato. I capelli erano molto lunghi, un po’ mossi, nerissimi, il viso affilato, le labbra sottili e il mento aveva una seducente fossetta in mezzo. «Sì, sono io. Sono qua per visitare il signor Awad». Immaginavo che quello che avevo davanti fosse un aiuto domestico di qualche tipo, o al massimo un parente. Anche se non aveva nulla di mediorientale, diciamocelo. Aveva la pelle chiara di un occidentale e gli occhi blu, motivo per cui propendevo per l’ipotesi che fosse un dipendente. «Sono io» rispose, tuttavia, l’uomo. Mi fece educatamente cenno di seguirlo verso l’interno. Il salotto in cui entrammo era arredato con dei mobili che rasentavano l’antiquariato, di legno massiccio, rossastro, molto belli. Oltre a uno scrittoio e a diversi mobiletti bassi, c’era un divano di pelle naturale e due poltrone abbinate, vecchie ma ben tenute. «Lei è... il signor Awad?» chiesi, perplessa. Il mio ospite camminava in modo un po’ rigido e non sembrava in ottima forma, ma non era nemmeno in una situazione di emergenza tale da giustificare l’intervento immediato di un medico. Iniziavo a essere un po’ irritata. Anzi, iniziavo a essere molto irritata e l’unica cosa che mi tratteneva dall’andarmene era la promessa fatta a Jas. E, lo ammetto, la bellezza un po’ trascurata di quel tizio. D’altronde è risaputo: le persone di aspetto gradevole vengono spesso trattate con più comprensione e cortesia delle altre. E Awad, lì, era di aspetto più che gradevole, con i suoi occhi blu e la figura snella. «Sì, sono io. Suppongo che si aspettasse una persona più anziana» disse, in tono educato, indicandomi le poltrone. «Mi perdoni se non mi siedo. Il motivo le diventerà chiaro molto presto». «In effetti mi aspettavo una persona più anziana, sì. Jason Merrywater l’ha definita un vecchio paziente». Awad annuì. «Mi cura saltuariamente da più di trent’anni, quindi presumo che sia una buona definizione. Sono... dispiaciuto che non stia più così bene. Non vuole togliersi la giacca?». Lo feci. Indossavo un pesante piumino sopra al maglione di cashemere che avevo messo all’uscita del lavoro e iniziavo ad avere troppo caldo. «Venendo al suo problema...» Lui annuì. Sollevò lentamente un braccio. «Se potesse aiutarmi con il maglione, credo che mostrarglielo direttamente sarà più comodo, dottoressa». Lo aiutai. Dal modo in cui si muoveva ipotizzai che la lesione fosse sul torace o sul fianco sinistro. Non mi sbagliavo. Lo aiutai a sfilare il maglione dalla testa e osservai il suo busto. La cicatrice era nel quarto superiore sinistro, anteriormente. Una ferita da incisione circa dieci centimetri più in basso del suo capezzolo sinistro, cinque centimetri verso l’esterno, in corrispondenza della quinta e della sesta costa, della lunghezza di circa sette centimetri. Dato lo stato di cicatrizzazione potevo supporre che dall’evento traumatico fossero passati più o meno una trentina di giorni. Era... una strana ferita, mi trovai a pensare. Gli feci mezzo giro attorno e non trattenni un’esclamazione di stupore. Era una ferita in entrata. La ferita in uscita era sul dorso, più piccola, sempre da taglio. «Lei è stato infilzato con...» iniziai. «Con una spada» terminò lui. E prima che potessi stupirmi per la coincidenza del paziente che avevo visto solo poche ore prima, aggiunse: «Oggi pomeriggio». «Non...» iniziai io. Lui sospirò. «Non è possibile, certo. Osservi la mia sesta costola, per favore». Alla vista c’era una lieve depressione, ma... alzai una mano e sfiorai la sua gabbia toracica. Awad sobbalzò e io allontanai la mano. «Dolore?» chiesi. «Freddo» sorrise lui. Sorrisi anch’io e mi strofinai le mani tra loro fino a scaldarle. Poi tornai a percorrere il lieve avvallamento sul suo torace. Capire che cosa potesse essere successo era facile, in un certo senso. Impossibile ma facile. «È come se lei avesse subito questa ferita... questa brutta, bruttissima ferita, e i suoi tessuti si fossero saldati in modo inappropriato. La sua sesta costa...» «È rotta. Be’, era tranciata. Al momento si è saldata in un modo... sbagliato, è evidente. Non riesco a gonfiare del tutto i polmoni. Il polmone sinistro». Continuai a osservarlo, affascinata. Il suo torace era perfettamente definito, senza un grammo di grasso di troppo. Al di là della piacevolezza estetica, si vedevano benissimo i suoi fasci muscolari, che si erano adattati alla posizione dislocata della costa, creando quel lieve avvallamento. Ora... quello che vedevo non era possibile, era semplice. Per prima cosa se ti trafiggono la cassa toracica con una spada tendi a morire, ma anche ponendo che sopravvivi, la costa di Awad avrebbe dovuto impattare sulla sacca pleurica e questo avrebbe dovuto causare, be’, la sua morte. Ma anche ponendo che non l’avesse causata, il versamento di liquidi avrebbe dovuto impedire il funzionamento dei suoi polmoni e Awad avrebbe dovuto morire per asfissia. Ma anche, anche ponendo che non fosse successo, l’infezione e la setticemia sarebbero sopraggiunti a stretto giro di posta... uccidendolo. «Lei dovrebbe essere morto non meno di quattro volte, per questa ferita, signor Awad» gli dissi. Lui mi rivolse un lieve sorriso. «Mi perdonerà se non l’ho fatto». Sbuffai. «Be’, è evidente. A questo punto ho una notizia buona e una cattiva». Awad si limitò a guardarmi con i suoi occhi blu e un po’ sofferenti. «Quella buona è che la situazione si può mettere a posto con relativa facilità, quella cattiva e che le occorre comunque un’operazione chirurgica». Lui scosse la testa. «Impossibile. Ma supponevo che avrebbe detto qualcosa del genere». «Signor Awad... cerchi di capire. Non posso sottoporla a un intervento di questo tipo in casa sua. Serve un anestesista, almeno un infermiere, unità di plasma... senza parlare dell’ambiente sterile e di...» «Dottoressa Rivers, per favore» mi interruppe lui, in tono educato ma fermo. «Lei ha una voglia, è vero? Anzi due». «Eh?» feci. «Voglie. Sulla pelle». «Ma come...» «Il mondo è pieno di cose che non conosce, ma ora mi serve qualcosa che conosce benissimo: l’anatomia umana. Andremo al piano di sopra. Stenderò un telo di plastica sul mio letto. Andrò in bagno, mi praticherò un’incisione sul torace e romperò di nuovo questa maledetta costola. Non mi fa piacere, ma non ho alternative. Lei la metterà nella posizione giusta. Velocemente, molto velocemente, prima che io inizi a guarire. Sull’incisione può metterci un cerotto, se la fa stare meglio. Mi fascerà. Questo è tutto». Feci un passo indietro. «Lei è pazzo» borbottai. «Forse» sospirò lui. «Adesso non ha importanza. Pazzo o non pazzo, è quello che farò. Lei può aiutarmi efficientemente a non lesionarmi in modo troppo grave o può scappare via urlando. La scelta è sua». Detto questo si voltò e, senza aggiungere altro, iniziò a salire cautamente le scale. +++ Non sono una persona impressionabile. Se sei un chirurgo e lavori in un pronto soccorso non puoi esserlo. Nel corso della mia carriera avevo visto ferite orribili ed estesissime, mutilazioni, cancrena, ustioni, desquamazioni e chi più ne ha più ne metta. Avevo suturato squarci e spezzato e ricomposto ossa, avevo asportato organi pronti per la donazione e chiuso gli occhi a innumerevoli pazienti. Avevo sentito le grida di dolore di chi arrivava dopo un incidente sul lavoro, con l’intestino a penzoloni o un arto spiaccicato... Quello che Awad si fece da solo, se osservato in modo obiettivo, non fu cruento la metà di alcune delle lesioni che avevo visto. Ma, appunto, se lo fece da solo e fu quella la cosa impressionante. Entrò in un bagno del primo piano, lasciandomi in una camera da letto dai mobili antichi e di legno rossastro a guardare il telo di plastica che aveva steso sul materasso. Mi legai i capelli, mi sfilai il maglione, mi tirai su le maniche della camicia e mi lavai le mani con il disinfettante in gel. Poi mi infilai un paio di guanti in lattice. Awad gridò. Cioè, sentii il suo grido di dolore, attraverso la porta del bagno, e fu un grido... forte, che denotava profonda sofferenza, ma non più acuto di alcune delle grida che avevo sentito. Pochi minuti dopo barcollò fuori dalla porta gocciolando sangue e si stese cautamente sul telo a faccia in su. Aveva fatto esattamente quello che aveva minacciato di fare. Si era inciso con un bisturi lungo la sesta costa, aveva divaricato con le dita i lembi della ferita, aveva afferrato la propria stessa costa con le mani e l’aveva rotta di nuovo. Agii velocemente. Misi la costa in posizione, spostandola leggermente e provocando un secondo grido di Awad, per poi riaccostare i lembi della ferita, disinfettare profusamente e suturare. Durante tutta l’operazione Awad continuò a respirare veloce, perfettamente cosciente, sudato e con una smorfia di dolore in viso. «Tra poco sarà tutto finito» gli dissi, nel mio migliore tono rassicurante. «Posso farle un’iniezione di antidolorifici, se vuole». «Non è... necessario...» riuscì a dire lui. Coprii la ferita con un tampone e la incerottai. Iniziai a fargli un bendaggio stretto, per impedire che la sua costa fratturata si dislocasse di nuovo. «Dovrebbe essere a posto. Lasci che le dica...» Lui sorrise appena e mi posò una mano su un polso. Era sporco di sangue fino ai gomiti. Erano sporchi il telo sotto di lui, i suoi pantaloni e il pavimento. «No, via». Sospirai pesantemente. Mi sfilai i guanti e li buttai in un sacchetto per i rifiuti biologici. Andai in bagno cercando di non calpestare il suo sangue sul parquet. Inzuppai un asciugamano e tornai indietro per pulirgli almeno le mani e le braccia. «Tra dieci minuti... lo farò io». «Lei tra dieci minuti dormirà, spero. O comunque se ne resterà fermo». Awad sorrise lievemente. «Tra mezz’ora avrò una cicatrice rosa scuro. E starò piuttosto bene, mi creda. Si fermi a controllare, se vuole». Non volevo, ma ero anche curiosa. Da un lato ero arrabbiata con quel tizio cocciuto e irresponsabile, dall’altro ero pronta a credergli, almeno su alcune cose. E mi chiedevo perché avesse tirato fuori le mie voglie-fagiolino. E chi gliene avesse parlato, anche se l’unico che mi veniva in mente era Jas. Stavo pensando che forse, tutto considerato, la mia curiosità non era molto prudente quando iniziai a sentire il suono della pioggia sui vetri della finestra. Non avevo nessuna intenzione di guidare giù per quella strada buia in mezzo a un temporale, quindi sarei rimasta lì, almeno per un po’.

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