I BARCELLONA-3

2709 Words
Questa parte del Cimitero, fabbricata, se così può dirsi, a città, appartiene alla classe media della popolazione; e confina con due vasti recinti, uno destinato ai poveri, nudo, piantato di grandi croci nere; l'altro destinato ai ricchi, più vasto anche del primo, coltivato a giardino, circondato di cappelle, vario, ricco, stupendo. In mezzo a una foresta di salici e di cipressi, s'innalzano da ogni parte colonne, cippi, tombe enormi, cappelle marmoree sopraccariche di sculture, sormontate da ardite figure d'arcangelo che levan le braccia al cielo; piramidi, gruppi di statue, monumenti vasti come case che sovrastano agli alberi più alti; e fra monumento e monumento, cespugli, cancellate, aiuole fiorite; e nell'entrata, tra questo e l'altro campo santo, una stupenda chiesuola di marmo, cinta di colonne, mezzo nascosta dagli alberi, che prepara nobilmente l'animo al magnifico spettacolo del di dentro. All'uscire da questo giardino, si riattraversano le strade deserte della necropoli, che paiono anche più silenziose e più triste che al primo entrare. Varcata la soglia, si risaluta con piacere le case variopinte dei sobborghi di Barcellona sparse per la campagna, come avantiguardie messe là ad annunziare che la popolosa città si dilata e si avanza. Dal Camposanto al caffè, è un bel salto; ma viaggiando se ne fanno anche di più lunghi. I caffè di Barcellona, come quasi tutti i caffè della Spagna, sono un solo vastissimo salone ornato di grandi specchi, con tanti tavolini quanti ce ne posson capire; dei quali è raro che rimanga libero un solo, neanco per una mezz'ora, in tutta la giornata. La sera son tutti pieni, affollati, da dover molte volte aspettare un bel pezzo per avere un posticino accanto alla porta; intorno a ogni tavolino, v'è un crocchio di cinque o sei caballeros, colla capa sulle spalle (un mantello di panno oscuro, munito d'un'ampia pellegrina, che si porta in vece del nostro pastrano); e in ogni crocchio si giuoca al domino. È il giuoco più in voga presso gli Spagnuoli. Nei caffè, dall'imbrunire sino a mezzanotte, si sente un rumore fitto, continuo, assordante, come il rumor della grandine, di migliaia di tessere volte e rivolte da centinaia di mani, che quasi bisogna alzare la voce per farsi sentire da chi vi è accanto. La bevanda più usuale è il cioccolatte, squisitissimo in Spagna, portato per lo più in piccole chicchere, denso come conserva di ginepro e caldo da scorticare la gola. Una di queste tazzine, con una goccia di latte, e una pasta particolare, che si chiama bollo (boglio), morbidissima, è una colezione da Lucullo. Fra un bollo e l'altro, feci i miei studii sul carattere catalano, discorrendo con tutti i Don Fulanos (nome sacramentato in Ispagna come il Tizio fra noi) che ebbero la bontà di non pigliarmi per una spia mandata da Madrid a fiutar l'aria della Catalogna. Gli animi, in quei giorni, erano molto eccitati dalla politica. A me occorse parecchie volte, parlando innocentissimamente d'un giornale, d'un personaggio, d'un fatto qualsiasi col caballero che m'accompagnava, o nel caffè, o in una bottega, o al teatro; mi occorse, dico, di sentirmi toccare la punta del piede e mormorare nell'orecchio:—Badi, questo signore alla sua destra è un Carlista.—Zitto, quello lì è un repubblicano.—Quell'altro là è un sagastino.—Questo accanto è un radicale.—Quello laggiù è un cimbrio.—Tutti parlavano di politica. Trovai un carlista arrabbiato in un barbiere, il quale, accortosi dalla mia pronunzia ch'ero un conciudadano del Rey, tentò, così alla larga, di tirarmi nel discorso. Io non dissi parola, perché mi stava radendo, e un risentimento del mio orgoglio nazionale ferito avrebbe potuto far correre il primo sangue della guerra civile; ma il barbiere insisté, e non sapendo per qual altra via venire all'argomento, uscì a dire con accento gentile: “Sabe Usted, caballero, si hubiera la guerra entre Italia y España, España no tuviera miedo (non avrebbe paura).”—“Ne sono persuasissimo,” risposi, badando al rasoio. Poi mi assicurò che la Francia avrebbe dichiarato la guerra all'Italia non appena avesse pagato la Germania; no hay escapatoria. Non risposi. Allora egli stette un po' sopra pensiero, e poi disse maliziosamente: “Cosas grandes van à acontecer (accadere) dentro de poco!” Piacque però ai Barcellonesi che il Re si fosse presentato a loro in atto confidente e tranquillo, e la gente del popolo ricorda la sua entrata in città con ammirazione. Trovai simpatia per il Re anche in alcuni che mormoravano a denti stretti:—no es español,—o come mi domandò un tale: “Pare a lei che starebbe bene a Roma o a Parigi un rey castellano?”—domanda a cui si risponde:—“No entiendo de politica,”—ed è discorso finito. Ma i veramente implacabili sono i Carlisti. Dicon della nostra rivoluzione roba da cani in buonissima fede, essendo la maggior parte convinti, che il vero re d'Italia sia il Papa, che l'Italia lo voglia, e che abbia chinato il capo sotto la spada di Vittorio Emanuele, perché non c'era modo di far altrimenti; ma che aspetti l'occasione propizia per liberarsene, come ha fatto dei Borboni e degli altri. E può giovare a provarlo il seguente aneddoto che io riferisco, come l'ho sentito narrare, senza neanco un'ombra d'intenzione di ferire la persona che n'è attore principale. Una volta un giovane italiano, che io conosco intimamente, fu presentato a una delle più ragguardevoli signore della città, e ricevuto con una squisita cortesia. Erano presenti alla conversazione parecchi italiani. La signora parlò con molta simpatia dell'Italia, ringraziò il giovane dell'entusiasmo che mostrava d'avere per la Spagna, mantenne, in una parola, una viva e gioviale conversazione coll'ospite riconoscente per quasi tutta la serata. A un tratto gli domandò: “E tornando in Italia, in che città s'andrà a stabilire?” “A Roma,” rispose il giovane. “Per difendere il Papa?” domandò la signora con la più schietta franchezza. Il giovane la guardò, e rispose sorridendo ingenuamente: “No, davvero.” Quel no scatenò una tempesta. La signora scordò che il giovane era italiano, e suo ospite, e proruppe in una tale sfuriata d'invettive contro il Re Vittorio, il governo piemontese, l'Italia, risalendo dall'entrata dell'esercito in Roma fino alla guerra delle Marche e dell'Umbria, che il mal capitato straniero diventò bianco come un cencio di bucato. Ma fatto forza a sé stesso, non rispose parola, e lasciò agli altri italiani, ch'erano amici di vecchia data, la cura di sostener l'onore del loro paese. La discussione durò un pezzo, e fu accanita; la signora s'accorse poi d'essersi lasciata andare tropp'oltre, e fece capire che n'era dolente; ma una cosa apparve chiarissima dalle sue parole, ed è ch'ella era convinta, e con lei chi sa quante! Che l'unificazione d'Italia si fosse fatta contro la volontà del popolo italiano, dal Piemonte, dal Re, per avidità di dominio, per odio alla religione ec. Il basso popolo, però, repubblicaneggia, e come ha la reputazione di essere più pronto ai fatti di quello che non sia largo a parole, è temuto. Quando in Spagna si vuol sparger la voce d'una prossima rivoluzione, si comincia sempre dal dire che scoppierà a Barcellona, o che sta per scoppiarvi, o che v'è scoppiata. I catalani non vogliono esser messi a mazzo cogli Spagnuoli delle altre provincie; siamo Spagnuoli, dicono, ma, intendiamoci, di Catalogna; gente, vale a dire, che lavora e che pensa, e all'orecchio della quale è più gradito il rumore degl'ingegni meccanici che il suono delle chitarre. Noi non invidiamo all'Andalusia la fama romanzesca, le lodi dei poeti, e le illustrazioni dei pittori; noi ci contentiamo di essere il popolo più serio e più operoso della Spagna. Parlano in fatti dei loro fratelli del mezzogiorno, come i piemontesi parlavano una volta, ora meno, dei napoletani e dei toscani: «sì, hanno ingegno, immaginazione, parlan bene, divertono; ma noi abbiamo per contrapposto maggior vigore di volontà, maggiore attitudine agli studi scientifici, maggior istruzione popolare.... e poi.... il carattere....» Intesi un catalano, un uomo chiaro per ingegno e dottrina, lamentare che la guerra d'indipendenza avesse troppo affratellato le diverse provincie di Spagna, ond'era seguìto che i catalani contraessero una parte dei difetti dei meridionali, senza che questi acquistassero nessuna delle buone qualità dei catalani. Siamo diventati, diceva, mas ligeros de casco, più leggeri di testa, e non se ne sapeva dar pace. Un bottegaio al quale domandai che pensasse del carattere dei castigliani, mi rispose bruscamente che, a suo avviso, sarebbe una gran fortuna per la Catalogna, che non ci fosse strada ferrata tra Barcellona e Madrid, perché il commercio con quella gente corrompe il carattere e i costumi del popolo catalano. Quando parlano d'un deputato parolaio, dicono:—Eh! Già... è un andaluso.—Poi mettono in ridicolo il loro linguaggio poetico, la pronunzia sdolcinata, la gaiezza infantile, la vanità, l'effeminatezza. Quelli, per contro, parlano dei catalani come una signorina capricciosa, letterata e pittrice, parlerebbe d'una di quelle ragazze massaie, che leggono di preferenza la Cuciniera genovese che i romanzi di George Sand. Son gente dura, dicono, tutta d'un pezzo, che non ha il capo ad altro che all'aritmetica e alla meccanica; barbari, che farebbero d'una statua del Montanes un frantoio e d'una tela del Murillo un incerato; veri Beoti della Spagna, insopportabili con quel loro gergaccio, con quella musoneria, con quella gravità di pedanti. La Catalogna, infatti, è forse la provincia di Spagna, che conta meno nella storia delle belle arti. Il solo poeta, non grande, ma celebre, che sia nato in Barcellona, è Giovanni Boscan, che fiorì sul principio del secolo decimosesto, e introdusse pel primo nella letteratura spagnuola il verso endecasillabo, la canzone, il sonetto, e tutte le forme della poesia lirica italiana di cui era ammiratore appassionato. Da che dipende una grande trasformazione, come fu questa, di tutta la letteratura d'un popolo! Dall'esser andato a stare il Boscan a Granata, quando v'era la Corte di Carlo V, e aver conosciuto là un ambasciatore della repubblica di Venezia, Andrea Navagero, che sapeva a memoria i versi del Petrarca, e glieli recitava, e gli diceva:—Mi pare che potreste scriver così anche voialtri; provate!—Il Boscan provò; tutti i letterati di Spagna gli gridaron la croce addosso. E che il verso italiano non sonava, e che la poesia di Petrarca era una sdolcinatura da femminette, e che la Spagna non aveva bisogno di strascicar l'estro sulla falsariga di nessuno. Ma il Boscan tenne duro: Garcilaso della Vega, il valoroso cavaliere, amico suo, che ricevette poi il glorioso titolo di Malherbe della Spagna, lo seguì; il drappello dei riformatori s'ingrossò a poco a poco, divenne esercito, vinse e dominò l'intera letteratura. Il vero consumatore della riforma fu il Garcilaso; ma il Boscan ebbe il merito della prima idea, onde a Barcellona l'onore d'aver dato alla Spagna chi fece mutar il viso alla sua letteratura. Nei pochi giorni che rimasi a Barcellona, solevo passar la sera con alcuni giovani catalani, passeggiando sulla riva del mare, al lume della luna, fino a notte avanzata. Sapevan tutti un po' d'italiano, ed erano amantissimi della nostra poesia; così che per ore e per ore non si faceva che declamar versi, essi dello Zorilla, dell'Espronceda, del Lopez de Vega, io del Foscolo, del Berchet, del Manzoni; intercalati, con una sorta di gara, a chi ne diceva di più belli. È un sentimento nuovo quello che si prova dicendo versi dei nostri poeti in un paese straniero. Quando vedevo i miei amici spagnuoli tutti intenti al racconto della battaglia di Maclodio, a poco a poco scotersi, infiammarsi e poi afferrarmi pel braccio ed esclamare con un accento castigliano che mi rendeva più care le loro parole:—Bello! Sublime!;—mi sentivo rimescolare il sangue, tremavo; se fosse stato giorno, credo che m'avrebbero visto diventar bianco come la carta. Mi recitarono dei versi in lingua catalana. E dico lingua, perché ha una storia e una letteratura propria e non fu relegata allo stato di dialetto che dal predominio politico assunto dalla Castiglia che impose l'idioma suo come idioma generale dello Stato. E benché sia una lingua aspra, tutta parole tronche, ingrata, sulle prime, a chi abbia nulla nulla l'orecchio delicato, ha nondimeno dei pregi notevolissimi, dei quali i poeti popolari si valsero con ammirabile maestria, prestandosi essa particolarmente all'armonia imitativa. Una poesia, che mi recitarono, di cui le prime strofe imitano il rumore cadenzato d'un treno di strada ferrata, mi strappò un grido di meraviglia. Ma senza spiegazioni, anche per chi conosca la lingua spagnuola, il Catalano non è intelligibile. Parlan presto, coi denti stretti, senza aiutar la voce col gesto, così ch'è difficile cogliere il senso d'un periodo anche semplicissimo, ed è un gran ché se s'intende qualche parola di volo. Anche la gente del popolo, però, parla, quando occorre, il castigliano, stentatamente e senza grazia; ma sempre assai meglio che non si parli l'italiano dal basso popolo delle Provincie settentrionali d'Italia. Neanco le persone colte, in Catalogna, parlano perfettamente la lingua nazionale; il castigliano riconosce il catalano alla prima, oltre che alla pronunzia, alla voce, e sopratutto alla illegittima frase scarsa. Per questo uno straniero che vada in Spagna coll'illusione di saper parlare la lingua con garbo, può, fin che sta in Catalogna, serbar la sua illusione; ma quando penetri nelle Castiglie, e senta per la prima volta quello scoppiettío di frizzi, quella profusione di proverbi, di modi, d'idiotismi arguti ed efficacissimi, che lo fan rimanere a bocca aperta, come l'Alfieri dinanzi a Monna Vocaboliera quando gli discorreva di calzette, addio illusioni! L'ultima sera andai al Teatro del Liceo, che ha fama di essere uno dei più belli d'Europa, e forse il più vasto. Era pieno zeppo di gente dalla platea alla piccionaia, che non ci sarebbe più capito un centinaio di persone. Dal palco in cui ero io, si vedevan le signore della parte opposta piccine come bimbe; e a socchiuder gli occhi, non apparivan più che tante strisce bianche, una ad ogni ordine di palchi, tremolanti e luccicanti come immense ghirlande di camelie imperlate di rugiada e agitate dal zeffiro. I palchi, vastissimi, sono divisi da un assito che s'abbassa dal muro verso il parapetto, lasciando scoperto tutto il busto delle persone sedute sulle prime seggiole; in modo che, all'occhio, il teatro par fatto tutto a gallerie, e n'acquista un'aria di leggerezza che fa un bellissimo vedere. Tutto sporge, tutto è scoperto, la luce batte in ogni parte, ogni spettatore vede tutti gli spettatori, le corsie son spaziose, si va, si viene, si gira a tutt'agio da ogni lato, si può contemplare ogni signora da mille punti, passare dalle gallerie ai palchi, dai palchi alle gallerie, passeggiare, far crocchio, bighellonare tutta la sera di qua e di là, senza urtar nel gomito anima viva. Le altre parti dell'edifizio sono proporzionate alla principale: corridoi, scale, pianerottoli, vestiboli da gran palazzo. Vi son sale da ballo ampie e splendide, nelle quali si potrebbe piantare un altro teatro. Eppure, anche qui dove i buoni Barcellonesi non dovrebbero pensare ad altro che a ricrearsi dalle fatiche della giornata nella contemplazione delle loro belle e superbe donne, anche qui i buoni Barcellonesi comprano, vendono, giocano, trafficano, come anime dannate. Nei corridoi è un andirivieni continuo di agenti di banca, di commessi d'uffizio, di portatori di dispacci, e un continuo vocìo da mercato. Barbari! Quanti bei visi, quanti begli occhi, quante stupende capigliature brune in quella folla di signore! Anticamente i giovani Catalani innamorati, per cattivarsi il cuore delle loro belle, si inscrivevano nelle confraternite dei flagellanti, e andavano sotto le loro finestre con una sferza metallica a farsi spicciare il sangue dalle carni, e le belle gl'incoraggiavano, accennando: “Batti, batti ancora, così, ora t'amo e son tua!” Quante volte avrei esclamato quella sera: “Signori, per carità, datemi una sferza metallica!” L'indomani mattina, prima del levar del sole, partii per Saragozza, e dico il vero, non senza un sentimento quasi di tristezza di lasciar Barcellona, benché ci fossi stato sì pochi giorni. Questa città, benché sia tutt'altro che la flor de las bellas ciudades del mundo, come la chiamò il Cervantes, questa città trafficante e magazziniera, disdegnata dai poeti e dai pittori, mi piacque e il suo popolo affaccendato m'ispirò rispetto. E poi è sempre tristo il partire da una città, comunque straniera, colla certezza di non averla a rivedere mai più! Gli è come dare un addio per sempre a un compagno di viaggio col quale abbiate passato lietamente ventiquattr'ore: non è un amico, e vi par d'amarlo come un amico, e ve ne ricorderete forse per tutta la vita, con un sentimento di desiderio più vivo che per molti di coloro a cui date il nome d'amici. Voltandomi a guardare ancora una volta la città dal finestrino del carrozzone del treno, mi vennero sulle labbra le parole di don Alvaro Tarfe nel Don Chisciotte:—Adios, Barcelona, archivo de la cortesia, albergue de los extrangeros, patria de los valientes, adios!—E soggiunsi mestamente:—Ecco lacerata la prima pagina dal roseo libro del viaggio! Così tutto passa... Ancora un'altra città, poi un'altra, poi un'altra... e poi... tornerò, e il viaggio sarà stato come un sogno, e mi parrà di non essermi neanco mosso da casa... e poi?... un altro viaggio... e di nuovo città, e di nuovo addii melanconici, e di nuovo un ricordo vago come d'un sogno... e poi? Guai se in viaggio vi lasciate cogliere da questi pensieri! Guardate il cielo e la campagna, e recitate dei versi, e fumate. Adios Barcelona, archivo de la cortesia!
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