II SARAGOZZA
A poche miglia da Barcellona, si cominciano a vedere le rocce dentellate del famoso Montserrat, uno strano monte che, a prima vista, fa balenare il sospetto d'un'illusione ottica, tanto è difficile a credere che la natura possa aver avuto un sì stravagante capriccio. Immaginate una serie di sottili triangoli che si toccano, come quei che fanno i bambini per rappresentare una catena di montagne; o una corona a becchetti distesa pel lungo come la lama d'una sega; o tanti pani di zucchero disposti in fila, e avrete un'idea della forma che presenta da lontano il Montserrat. È un insieme di coni immensi che s'alzano I' uno accanto all'altro, e l'un sull'altro, o meglio un solo gran monte formato di cento monti, spaccato di su in giù fin quasi al terzo della sua altezza, in modo che presenta due grandi cime, intorno alle quali si aggruppano le minori; nelle parti alte, arido e inaccessibile; nelle basse, popolato di pini, di querce, di corbezzoli, di ginepri; rotto qua e là da grotte smisurate e da spaventevoli burroni, e sparso di romitaggi biancheggianti sulle bricche aeree e nelle gole profonde. Nella spaccatura del monte, fra le due cime principali, sorge l'antico convento dei Benedettini, dove Ignazio di Lojola meditò nella sua giovinezza. Cinquantamila tra pellegrini e curiosi si recano anno per anno a visitare il convento e le grotte, e il giorno otto di settembre, vi si celebra una festa a cui concorre una moltitudine innumerevole di gente da ogni parte della Catalogna.
Poco prima di arrivare alla stazione dove si scende per salire al monte, irruppe nel mio carrozzone una frotta di ragazzi, accompagnati da un prete, alunni d'un collegio di non so che villaggio, che andavano a fare una scampagnata al convento del Montserrat. Eran tutti catalani, bei visetti bianchi e rosei, con grandi occhi. Ognuno aveva un canestrino con dentro pane e frutta; qualcuno un album, altri un canocchiale: parlavano e ridevano tutti insieme, e si avvoltolavano sulle panche, e facevano un casa del diavolo infinito. Per quanto tenessi l'orecchio teso, e mi stillassi il cervello, non riuscii a capire una parola del maledetto linguaggio che cinguettavano. Intavolai conversazione col prete. “Mire Usted” mi disse dopo le prime parole, accennandomi uno dei ragazzi; “aquel niño sabe de memoria toda la Poética de Oracio; quell'altro là risolve dei problemi d'aritmetica da far stordire; questo qui è nato per la filosofia;” e via via, mi segnalò le doti di ciascuno. A un tratto s'interruppe, e gridò: “Beretina!” Tutti i ragazzi cavaron di tasca la berrettina rossa catalana e gettando alte grida d'allegrezza, se la misero in testa, chi tutta indietro che gli cascava sulla nuca, chi tutta avanti, che gli copriva la punta del naso; e il prete a far degli atti di disapprovazione; e allora quei che l'avevan sulla nuca a tirarsela sul naso, e quei che l'avevan sul naso a tirarsela sulla nuca; e lì risa, esclamazioni, e battìo di mani. Mi avvicinai a uno dei più monelli, e così per celia, certo che sarebbe stato come dire ai muri, gli domandai in italiano: “È la prima volta che vai a fare una passeggiata al Montserrat?” Il ragazzo stette un po' pensando, e poi rispose adagio adagio: “Ci so-no già sta-to altre volte.”—“Ah! Caro bimbo!” Gli gridai con una contentezza difficile a immaginarsi; “e dove hai imparato l'italiano?” Qui il prete prese la parola per dirmi che il padre di quel ragazzo aveva vissuto parecchi anni a Napoles. Mentre io mi volto verso il mio piccolo catalano per attaccar discorso, un maledettissimo fischio, e poi un maledettissimo grido di:—Olesa,—che è il villaggio dal quale si va al monte, mi taglia la parola in bocca. Il prete mi saluta, i ragazzi si precipitano fuori, il treno riparte. Io misi la testa fuor del finestrino per salutare il mio piccolo amico: “Buona passeggiata!” gli gridai, e lui spiccicando le sillabe: “A-di-o!” Qualcuno ride a sentir rammentare queste bazzecole: eppure sono i più vivi piaceri che si provin nei viaggi!
Le città e i villaggi che si vedono nell'attraversar la Catalogna alla volta dell'Aragona, son quasi tutti popolati e floridi, e circondati di case industriali, di opifici, di edifizi in costruzione, onde in ogni parte si vedono sorgere di là dagli alberi dense colonne di fumo, e ad ogni stazione è un via vai di contadini e di negozianti. La campagna è una successione alternata di colte pianure, di amene colline, di vallette pittoresche, coperte di boschi e dominate da vecchi castelli, fino al villaggio di Cervera. Qui si cominciano a vedere ampie distese di terreno arido, con poche case sparpagliate, che annunziano la vicinanza dell'Aragona. Ma poi, all'improvviso, si entra in una ridente vallata, coperta d'oliveti, di vigneti, di gelsi, di alberi fruttiferi, sparsa di villaggi e di ville; si vedon da un lato le alte cime dei Pirenei, dall'altro le montagne aragonesi; Lerida, la gloriosa città dai dieci assedii, schierata lungo la sponda della Segra, sul pendio d'una bella collina; e tutt'intorno una pompa di vegetazione, una varietà di prospetti, un colpo d'occhio stupendo. È l'ultima veduta della campagna catalana; dopo pochi minuti s'entra in Aragona. Aragona! Quante vaghe istorie di guerre, di banditi, di regine, di poeti, d'eroi, d'amori famosi ridesta nella memoria questo sonoro nome! E qual profondo senso di simpatia e di rispetto! La vecchia, nobile ed altera Aragona, sulla cui fronte brilla il più splendido raggio della gloria di Spagna! Sul suo stemma secolare sta scritto a caratteri di sangue:—Libertà e valore.—Quando il mondo si curvava sotto il giogo della tirannide, il popolo aragonese diceva ai suoi re per bocca del suo Gran Giustiziere:—Noi che siamo quanto voi, e più possenti di voi, vi abbiamo eletto nostro signore e re, col patto che conserviate i nostri diritti e la nostra libertà; e se no, no.—E i suoi re s'inginocchiavano dinanzi alla maestà del Magistrato del popolo, e prestavan giuramento sulla formola sacra. In mezzo alla barbarie del Medio Evo, la fiera gente aragonese non conosceva la tortura, il giudizio segreto era bandito dai suoi codici, tutte le sue istituzioni proteggevano la libertà del cittadino, e la legge aveva impero assoluto. Discesero, mal paghi alla ristretta patria delle montagne, da Sobrarbe a Huesca, da Huesca a Saragozza, ed entrarono vincitori nel Mediterraneo. Congiunti alla forte Catalogna, redensero dall'araba signoria le Baleari e Valenza; combatterono a Muret per il diritto oltraggiato e la coscienza violata; domarono gli avventurieri della casa d'Angiò, spodestandoli delle terre italiane; ruppero le catene del porto di Marsiglia, che pendono ancora dalle pareti dei loro tempi; signoreggiarono il mare dal golfo di Taranto alle foci del Guadalaviar, colle navi di Ruggero di Lauria; soggiogarono il Bosforo, colle navi di Ruggero di Flor; da Rosas a Catania corsero il Mediterraneo sulle ali della vittoria; e come se fosse angusto l'Occidente alla loro grandezza andarono ad incidere sulla cima dell'Olimpo, sulle pietre del Pireo, sui monti superbi che son quasi le porte dell'Asia, il nome immortale della patria. Questi pensieri,—benché non proprio colle stesse parole, perché non avevo sotto gli occhi un certo libricciuolo di Emilio Castelar,—io volgeva in mente entrando in Aragona. E per prima cosa mi si offerse agli occhi, sulla riva della Cinca, il piccolo villaggio di Monzon, noto per famose assemblee delle Cortes, e per alternati assalti e difese di Spagnuoli e Francesi: sorte che fu comune, durante la guerra d'indipendenza, a quasi tutti i villaggi di quelle provincie. Monzon è prostrato ai piedi d'un formidabile monte, sul quale s'innalza un castello nero, sinistro, enorme, quale avrebbe potuto immaginarlo il più fosco dei feudatari per condannare a una vita di terrore il più odiato dei villaggi. La stessa Guida si arresta davanti a codesto mostruoso edifizio, e prorompe in un'esclamazione di timida meraviglia. Non v'è, io credo, in tutta la Spagna, un altro villaggio, un altro monte, un altro castello, che rappresentino meglio la paurosa sommessione d'un popolo oppresso, e la minaccia perpetua d'un signore feroce. Un gigante che prema il ginocchio sul petto d'un fanciullo steso a terra, è una meschina similitudine per dare un'immagine della cosa; e tale fu l'impressione che mi fece, che, pur non sapendo tenere in mano la matita, m'ingegnai di abbozzare alla meglio il paesaggio, perché non mi uscisse dalla memoria; e mentre scarabocchiavo, mi venne fatto il primo verso d'una ballata lugubre.
Dopo Monzon, la campagna aragonese non è che vaste pianure, chiuse in lontananza da lunghe catene di colline rossastre, con pochi miseri villaggi, e qualche colle solitario su cui nereggiano le rovine d'un castello antico. L'Aragona, già sì fiorente sotto i suoi Re, è ora una delle provincie più povere della Spagna. Solamente sulla sponda dell'Ebro, e lungo il canale famoso che si stende da Tudela, per diciotto leghe, fin presso Saragozza, e serve insieme all'irrigazione dei campi e al trasporto delle derrate, ha un po' di vita il commercio; nelle altre parti langue, od è morto. Le stazioni della strada ferrata sono deserte: quando il treno si ferma, non si sente altra voce che quella di qualche vecchio trovatore, che strimpella la chitarra, canterellando una canzone monotona, che si riode poi in tutte le altre stazioni, e in seguito nelle città aragonesi, variate le parole, eternamente uguale il motivo. Non essendoci che vedere fuori del finestrino, mi rivolsi ai compagni di viaggio.
Il carrozzone era pieno di gente; e siccome i carrozzoni di seconda classe, in Spagna, non hanno scompartimenti, eravamo quaranta fra viaggiatori e viaggiatrici, visibili tutti uno all'altro: preti, monache, ragazzi, serve, e altri personaggi che potevano essere negozianti, o impiegati, o agenti segreti di Don Carlos. I preti fumavano, come è uso in Ispagna, il loro cigarrito, offerendo amabilmente ai vicini la scatola da tabacco e le cartoline; altri mangiavano a due palmenti, facendosi passare l'uno all'altro una specie di vescica che, compressa con ambe le mani, mandava uno schizzo di vino; altri leggevano il giornale corrugando tratto tratto le sopracciglia in atto di profonda meditazione. Uno spagnuolo, quand'è in compagnia, non si mette in bocca uno spicchio d'arancio, o una fetta di formaggio, o un boccone di pane, se prima non ha pregato tutti di mangiare con lui; e per questo io mi vidi passar sotto il naso frutta, e pani, e sardelle, e bicchieri di vino, e che so io, accompagnato ogni cosa da un gentile: “Gusta Usted comer conmigo?” al quale risposi: “Gracias,” a contracorpo (è la parola che ci va) perché avevo una fame da conte Ugolino. Davanti a me, proprio co' piedi contro i miei, c'era una monaca, giovane, a giudicarne dal mento, ch'era quel po' di viso che appariva sotto il velo, e da una mano che lasciava come abbandonata sur un ginocchio. Io le tenni gli occhi addosso per più d'un'ora, sperando che alzasse il viso; ma rimase immobile come una statua. Eppure dal suo atteggiamento era facile accorgersi che faceva uno sforzo per resistere alla naturalissima curiosità di guardarsi intorno; e per questo appunto mi destò un sentimento d'ammirazione.—Che costanza!—pensavo,—che vigore di volontà! Che forza di sacrifizio, anche nelle più piccole cose! Che nobile disprezzo delle vanità umane!—Stando in questi pensieri, chinai gli occhi sulla sua mano,—era una bianca e piccola mano—e mi parve di vederla muovere; guardo meglio, e vedo che si allunga adagio adagio fuor della manica, e allarga le dita, e si appoggia sul ginocchio un po' avanti, così, in modo da spenzolare, e si rigira un po' da un lato, e si raccoglie e si ridistende... Dei del cielo! Altro che disprezzo delle vanità umane! Era impossibile ingannarsi: tutto quel lavorìo era fatto per mettere in mostra la manina! E non alzò una volta la testa in tutto il tempo che rimase là, e non lasciò vedere il viso neanco quando scese! Oh imperscrutabile profondità dell'anima femminile!
Era scritto che in quel viaggio non dovessi incontrar altri amici che i preti. Un vecchio sacerdote, di aspetto benevolo, mi diresse la parola, e cominciammo una conversazione che durò fin quasi a Saragozza. Da principio, quando gli dissi ch'ero italiano, stette un po' sospeso, pensando forse ch'io potevo esser uno di quelli che avean scassinato le serrature del Quirinale; ma avendogli detto che non m'occupavo di politica, si rasserenò, e parlò con piena fiducia. Si cascò nella letteratura; io gli dissi tutta la Pentecoste del Manzoni, che lo fece andare in visibilio; egli a me una poesia del celebre Luis de Leon, poeta sacro del secolo decimosesto; e diventammo amici. Quando giungemmo a Zoera, penultima stazione per arrivare a Saragozza, s'alzò, mi salutò, e posto il piede sul montatoio, si voltò improvvisamente e mi sussurrò nell'orecchio: “Cuidado (prudenza) con las mujeres, que tienen muy malas consecuencias en España.” Poi scese e si fermò per veder partire il treno, e alzando una mano in atto di paterna ammonizione, disse ancora una volta: “Cuidado!”