Arrivai a Saragozza a notte avanzata, e scendendo, mi colpì subito l'orecchio la cadenza particolare colla quale parlavano i vetturini, i facchini e i ragazzi, che si disputavano la mia valigia. In Aragona si può dir che si parla il castigliano, anche dal popolo minuto, benché con qualche storpiatura e qualche barbarismo; ma allo spagnuolo delle Castiglie basta una mezza parola per riconoscere l'aragonese; e non c'è castigliano infatti, che non sappia imitare quell'accento, e non lo metta, all'occasione, in ridicolo, per quello che ha di rozzo e di monotono, presso a poco come si fa in Toscana della parlata di Lucca.
Entrai nella città con un certo sentimento di trepida riverenza; la terribile fama di Saragozza me ne imponeva; quasi mi mordeva la coscienza di averne tante volte profanato il nome nella scuola di Rettorica, quando lo gettavo in volto, come un guanto di sfida, ai tiranni; le strade eran buie; non vedevo che il nero contorno dei tetti e dei campanili sul cielo stellato; non sentivo che il rumore delle diligenze degli alberghi che si allontanavano. A certe svoltate, mi pareva di veder luccicare alle finestre canne di fucile e pugnali, e di udir grida lontane di feriti. Avrei dato non so quanto perché spuntasse il giorno, per cavarmi la vivissima curiosità che mi stimolava, di visitar ad una ad una quelle strade, quelle piazze, quelle case famose per lotte disperate e uccisioni orrende, ritratte da tanti pittori, cantate da tanti poeti, e sognate da me tante volte prima di partire d'Italia, ripetendomi con gioia:—Le vedrai!—Giunsi finalmente al mio albergo, guardai fisso il cameriere che mi condusse alla camera, sorridendogli amorevolmente come per dire:—Non sono un invasore, risparmiami!—e data un'occhiata a un gran ritratto di Don Amedeo appeso alla parete del corridoio, in un canto, a particolare conforto dei viaggiatori italiani, andai a letto, ché cascavo di sonno come uno qualunque dei miei lettori. Allo spuntar del giorno mi precipitai fuori dell'albergo. Non c'era ancor né botteghe, né porte, né finestre aperte; ma non appena misi il piede nella strada, mi scappò un mezzo grido di stupore. Passava una brigatella di uomini così stranamente vestiti, che io credetti a prima vista che fossero mascherati; e poi pensai: no, son comparse di teatro; e poi ancora: no, neppure, sono matti. Figuratevi: per cappello, un fazzoletto rosso annodato intorno al capo, a modo di cercine, dal quale uscivano sopra e sotto i capelli arruffati; una coperta di lana a strisce bianche e azzurre, indossata a guisa di mantello, ampia, cadente fin quasi a terra, come una toga romana; una larga fascia azzurra intorno alla vita; un paio di calzoncini corti, di velluto nero, stretti intorno al ginocchio; le calze bianche; una specie di sandali a nastri neri incrociati sul dosso del piede; e in questa artistica varietà di vestimento, l'impronta evidente della miseria; e con quest'evidenza di miseria, un non so che di teatrale, di altero, di maestoso nel portamento e nei gesti, un'aria da Grandi di Spagna decaduti, che mette in dubbio, al vederli, se s'abbia da ridere o da compiangere, da metter la mano alla borsa per fare un'elemosina o da levarsi il cappello in segno di riverenza. E non son altro che contadini dei dintorni di Saragozza. Ma quella che ho accennato non è che una delle mille varietà della stessa foggia di vestire. Andando oltre, ad ogni passo ne incontrai una nuova: vi sono i vestiti all'antica, i vestiti alla moderna, gli eleganti, i semplici, i festivi, i severi, ognuno con ciarpe, fazzoletti, calze, cravatte, panciotti di colori diversi; le donne colla crinolina, e le sottane corte, che lascian vedere un po' di gamba, e i fianchi spropositatamente rialzati; i ragazzi anch'essi col loro manto a strisce e la loro pezzuola intorno al capo, e i loro atteggiamenti drammatici, come gli uomini. La prima piazza sulla quale riuscii era piena di questa gente, divisa in gruppi, chi seduto sugli scalini delle porte, chi appoggiato agli angoli delle case, qualcuno sonando la chitarra, altri cantando; molti in giro a chieder l'elemosina, coi panni rappezzati e laceri, ma pur colla testa alta e l'occhio fiero; parevan gente usciti allora allora da un veglione, dove avessero rappresentato tutti insieme una tribù selvaggia di qualche ignoto paese. A poco a poco si apersero le botteghe e le case, e il popolo saragozzano si sparse per le strade. I cittadini, nel vestire, non han nulla di diverso da noi; ma sì qualcosa di particolare nei volti; alla serietà degli abitanti della Catalogna, uniscono l'aria sveglia degli abitanti delle Castiglie, avvivata ancora da un'espressione di fierezza tutta propria del sangue aragonese. Le strade di Saragozza hanno un aspetto severo, quasi tristo, com'io me lo immaginava prima di vederle. Fuori del Coso, che è una larga strada che attraversa una buona parte della città descrivendo una grande curva semicircolare,—il Coso anticamente famoso per le corse, le giostre e i tornei che vi si celebravano nelle pubbliche feste,—fuori di questa bella ed allegra strada, e d'alcune poche recentemente rifatte, che paion strade di città francese, le altre son strette, tortuose, fiancheggiate da case alte, di color cupo, di scarse finestre, somiglianti a vecchie fortezze. Son strade che hanno una impronta, un carattere, o come altri dice, una fisonomia loro propria, che vista una volta, non si dimentica più; per tutta la nostra vita, quando si sentirà nominar Saragozza, si vedranno quelle mura, quelle porte, quelle finestre, come se si avessero dinanzi. Io vedo in questo punto la piazza della Torre nuova, e potrei disegnar casa per casa, e colorirle tutte, ciascuna col suo colore; e mi par di respirare quell'aria, tanto son vive le immagini; e ripeto quello che dissi allora:—Questa piazza è tremenda.—Perché? Non lo so; sarà stata un'illusione mia; segue delle città come dei volti, che ciascuno ci legge a modo suo; le strade e le piazze di Saragozza mi fecero codesto senso; ad ogni svoltata, dicevo:—Questo luogo par fatto per combattervi;—e guardavo intorno, come se ci mancasse qualcosa: una barricata, le feritoie, i cannoni. Riprovavo tutta la profonda commozione che m'avevan data i racconti dell'orribile assedio, e vedevo proprio la Saragozza del 1809, e correvo di strada in strada con una curiosità crescente, come per trovare le traccie di quella lotta titanica che ha atterrito il mondo. Qui, pensavo, accennando a me stesso la via, dev'esser passata la divisione Grandjean, di là sboccò forse la divisione Musnier, di costì si sarà lanciata al combattimento la divisione Morlot; avanti, fino alla cantonata: mi pare che qui sia seguito l'assalto dei volteggiatori della Vistola; ancora un giro: qui fecero impeto i volteggiatori polacchi; laggiù furon trucidati trecento spagnuoli; in questo punto scoppiò la gran mina che fece saltar in aria una compagnia del reggimento di Valenza; in quell'angolo morì il generale Lacoste colpito da una palla nella fronte. Ecco le strade famose di Santa Engracia, di Santa Monica, di Sant'Agostino, per le quali i Francesi s'avanzarono verso il Coso, di casa in casa, a furia di mine e di contrammine, tra i rottami dei muri enormi e le travi fumanti, sotto una tempesta di palle, di mitraglia e di sassi; ecco i trivii, le piazzuole, gli angiporti oscuri, dove si combatterono le orrende battaglie corpo a corpo, a colpi di baionetta, a pugnalate, a falciate, a morsi; le case asserragliate, difese stanza per stanza, tra le fiamme e il rovinío; le anguste scale che corsero sangue, i tristi cortili che echeggiarono di grida di dolore e di disperazione, che furon coperti di cadaveri sfracellati, che videro tutti gli orrori della peste, della fame, della morte! Di strada in strada riuscii davanti alla chiesa di Nuestra Señora del Pilar, la terribile Madonna, alla quale veniva a chieder protezione e coraggio la squallida folla dei soldati, dei cittadini, delle donne, prima d'andar a morire sulle brecce. Il popolo di Saragozza ha conservato per essa il fanatismo antico, e la venera con sentimento particolare di amoroso terrore, vivo anche nell'animo della gente alla quale è straniero ogni altro sentimento religioso. Però da quando entrate nella piazza, e alzate gli occhi verso la chiesa, fin al momento che, andando via, vi voltate a guardarla per l'ultima volta, badate a non sorridere, o a fare per distrazione un atto qualunque che possa parere irriverente; ché c'è chi vi vede, e vi tien d'occhio, e all'occorrenza vi segue. E se in voi è morta la fede, preparate l'animo, prima di varcare la soglia sacra, a un confuso risvegliarsi dei terrori infantili, ché poche chiese al mondo hanno come questa la virtù di risvegliarli nei cuori più gelidi e più forti.
La prima pietra di Nostra Donna del Pilar, fu posta nel 1686 in un luogo dove sorgeva una cappella innalzata da san Giacomo per deporvi l'immagine miracolosa della Vergine che vi è tuttora. È un immenso edifizio di base rettangolare, sormontato da undici cupole, coperte di tegole variopinte, che gli danno una graziosa aria moresca; le mura disadorne e di color cupo. Entrate: è una vasta chiesa, oscura, nuda, fredda, divisa in tre navate, circondata di cappelle modeste. Lo sguardo corre subito al santuario che sorge nel mezzo: là è la statua della Vergine. È come un tempio nel tempio, che potrebbe star solo in mezzo alla piazza, se si abbattesse l'edifizio che lo circonda. Una corona di belle colonne di marmo, disposte ad elissi, sorreggono una cupola riccamente scolpita, aperta nella parte superiore, e ornata intorno all'apertura di ardite figure d'angeli e di santi. Nel mezzo è l'altar maggiore; a destra l'immagine di san Giacomo; a sinistra, in fondo, sotto un baldacchino d'argento che spicca sur un'ampia tenda di velluto tempestato di stelle, in mezzo al luccichío di migliaia di voti, al chiarore d'innumerevoli lampade, la statua famosa della Vergine, postavi or sono diciannove secoli da san Giacomo, scolpita in legno, annerita dal tempo, tutta coperta, tranne il capo suo e quello del bambino, da una splendida dalmatica; e sul dinanzi, tra le colonne, intorno al santuario, e lontano, in fondo alle navate della chiesa, in tutti i punti di dove lo sguardo può giungere all'immagine venerata, fedeli inginocchiati, prostrati, col capo quasi a terra, colle mani in croce: donne del popolo, operai, signore, soldati, fanciulli; e dalle varie porte della chiesa un continuo venir di gente a passi lenti, in punta di piedi, con gravi aspetti; e in quel profondo silenzio non un mormorío, non un fruscio, non un respiro; la vita di quella folla pare sospesa; par che s'attenda da tutti un'apparizione divina, una voce misteriosa, una qualche rivelazione tremenda da quell'arcano Santuario; e anche chi non crede e non prega, è forzato a fissare lo sguardo dove si fissan tutti gli sguardi, e il corso dei suoi pensieri s'arresta in una specie d'inquieta aspettazione. Oh suonasse pur quella voce! io pensavo; seguisse pure l'apparizione; e fosse anche una parola o una vista che mi facesse incanutire dallo spavento e gettare un urlo non udito mai sulla terra; purché mi liberasse per sempre da questo orribile dubbio che mi rode il cervello e mi contrista la vita!
Tentai d'entrar nel Santuario, non ci riuscii; avrei dovuto passare sulle spalle d'un centinaio di fedeli, qualcuno dei quali cominciava già a guardarmi in cagnesco perché andavo attorno con un quaderno e una matita fra le mani. Cercai di scendere nella critta sotterranea ove son le tombe degli arcivescovi e l'urna che racchiude il cuore del secondo don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Filippo IV; non mi fu concesso. Domandai di vedere le vestimenta, gli ori, le gemme, che profusero ai piedi della Vergine i grandi, i principi, i monarchi d'ogni età e d'ogni paese; mi fu risposto che non era l'ora opportuna, e neanco mostrando una luccicante peceta potei corrompere l'onesto sacrestano. Ma non rifiutò di darmi alcune notizie intorno al culto della Vergine quando gli dissi, per entrargli in grazia, ch'ero nato a Roma, nel Borgo Pio, e che dal terrazzino di casa mia si vedevan le finestre dell'appartamento del Papa.
“È un fatto,” mi disse, “quasi miracoloso, e che non si crederebbe, se non fosse attestato dalla tradizione, che dal tempo antichissimo quando fu posta sul piedistallo la statua della Vergine, fino al giorno in cui viviamo, tranne la notte che la chiesa è chiusa, il santuario non rimase vuoto un momento, un momento solo, in tutto il rigore della parola. Nuestra Señora del Pilar non è mai stata sola. Nel piedistallo della statua, a furia di baci, s'è fatto un incavo nel quale può entrar la mia testa. Neanco gli Arabi non ebbero il coraggio di proibire il culto di Nuestra Señora: la cappella di San Giacomo fu sempre rispettata. È caduto molte volte il fulmine nella chiesa, accanto al santuario, e anche dentro, in mezzo alla gente affollata: ebbene, neghino le anime dannate la protezione della Madonna: non è mai stato colpito nessuno! E le bombe dei Francesi? Ne hanno ben bruciati e rovinati degli edifizi; ma a cadere sulla chiesa di Nuestra Señora gli era come se cadessero sulle rocce della Serra Morena. E ai Francesi che fecero man bassa in ogni parte, gli è bastato il fegato di toccare i tesori di Nuestra Señora? Un solo generale si permise di prendere un gingillo per fare un regalo a sua moglie, offerendo in compenso alla Vergine un ricco donativo; ma sa che cosa gli è seguito? Alla prima battaglia una palla di cannone gli portò via una gamba. Non c'è barba di generale o di re che ne abbia mai imposto a Nuestra Señora. E poi è scritto lassù che questa chiesa durerà fino alla fine del mondo....” E tirò innanzi su questo tenore, fin che un prete da un angolo buio della sagrestia gli fece un cenno misterioso, e allora mi salutò e disparve.