PRIMA VEGLIA

1886 Words
PRIMA VEGLIA Le sventure dello studente Anselmo. Il tabacco del vicepreside Paulmann e le serpi verde-oro. Il giorno dell’Ascensione, alle tre del pomeriggio, un giovane, nell’uscire di corsa dalla Porta Nera di Dresda, andò diritto contro un paniere di mele e focaccine che una brutta vecchia offriva in vendita: tutto quello che non fu schiacciato, venne scaraventato fuori, e i monelli poterono così spartirsi allegramente la preda che quel signore frettoloso aveva loro gettato. Alle strida della vecchia, le comari si alzarono dai tavolini dove vendevano dolci e grappa, circondarono il giovanotto e si misero a insultarlo con foga plebea finché questi, ammutolito dalla stizza e dalla vergogna, tirò fuori il borsellino, non proprio gonfio, e lo porse alla vecchia, che lo afferrò avidamente e lo intascò in gran fretta. Allora, lo stretto circolo si aprì, ma mentre il giovane prendeva la fuga, la vecchia gli gridò dietro: «Sì, corri… corri pure, figlio del diavolo; dentro il cristallo presto cadrai… dentro al cristallo!» La voce stridula e gracchiante della donna aveva un che di pauroso, di maniera che i passanti si fermarono meravigliati e le risate, che prima erano scoppiate, tutto a un tratto si spensero. Lo studente Anselmo (il giovane, infatti, così si chiamava), pur non comprendendo affatto le strane parole di quella donna, fu preso da uno spontaneo terrore, e affrettò più che mai il passo per sottrarsi agli sguardi della folla curiosa. Mentre si faceva largo tra la gente vestita a festa, udì mormorare di qua e di là: «Povero giovane… Accidenti a quella vecchia!» Le sue misteriose parole avevano, infatti, conferito al ridicolo incidente un certo aspetto tragico, facendo sì che tutti seguissero con occhiate di simpatia l’uomo che prima era passato inosservato. Le ragazze perdonarono al viso gentile, la cui espressione era diventata più vivace per l’ardore del dispetto provato, come pure alla bella statura del giovane, tutta la sua sbadataggine e l’abito assolutamente fuori moda: infatti, la sua marsina grigio-azzurra pareva tagliata da un sarto che doveva conoscere la foggia moderna soltanto per sentito dire, e il panciotto di raso nero, ben conservato, seguiva un certo stile pedantesco, al quale però mal si adattavano il passo e il portamento. Era quasi arrivato in capo al viale che porta ai Bagni di Link, quando lo studente si sentì mancare il fiato. Fu costretto a rallentare il passo, ma senza osare alzare lo sguardo perché ancora vedeva ballare intorno le mele e le focaccine, e le occhiate cortesi di qualche ragazza gli sembravano soltanto un riflesso delle compiaciute risate alla Porta Nera. Così, giunse all’ingresso dei Bagni dove entravano, l’uno dopo l’altro, gruppi di persone in abito festivo. Dall’interno veniva l’eco di una musica di strumenti a fiato e la calca degli ospiti allegri si andava facendo sempre più rumorosa. Il povero studente si sentì montare le lacrime agli occhi, perché aveva sempre festeggiato in famiglia il giorno dell’Ascensione e anche lui avrebbe voluto partecipare alle beatitudini del paradiso di Link, anzi intendeva arrivare fino a mezza porzione di caffè col rum e a un’intera bottiglia di birra forte; e per darsi allo scialo, aveva preso con sé più denaro di quanto a rigore non gli fosse lecito o possibile. Ed ecco che la malaugurata pedata al paniere delle mele lo aveva privato di quanto aveva con sé. Non era più il caso di pensare al caffè, alla birra forte, alla musica, alla vista delle fanciulle in ghingheri, insomma a tutti i godimenti sognati. Perciò, passò via lentamente e infilò la strada lungo l’Elba che in quel momento era deserta. Sotto un sambuco che sbucava da un muretto, trovò un posticino coperto di erba; si sedette e caricò la pipa col tabacco che gli aveva regalato il vicepreside Paulmann, suo amico. Davanti ai suoi piedi gorgogliavano e sciaguattavano le onde giallo-oro dell’Elba, al di là della quale si stendeva la bellissima Dresda che, ardita e superba, innalzava le torri luminose al cielo, il quale scendeva sui prati fioriti e sul fresco verde dei boschi, mentre in lontananza le montagne dentate annunciavano la Boemia. Guardando accigliato davanti a sé, Anselmo, lo studente, sbuffava mandando nuvole di fumo finché il suo malumore trovò sfogo in queste parole: «È pur vero che sono nato per caricarmi addosso tutte le croci possibili. Non occorre dire che non ho mai trovato il fagiolo nella focaccia, e che giocando a pari e caffo non ho mai colto nel segno, che la mia fetta di pane imburrato è sempre caduta dalla parte del burro: ma non è forse un atroce destino se, essendo finalmente arrivato all’università a dispetto del diavolo, ho dovuto e devo vivere sotto gli occhi di babbo e mamma? Indosso io forse una giacca nuova senza farmi subito la prima volta una macchia di unto o procurarmi uno strappo contro un chiodo malamente infitto? Saluto mai un commendatore o una dama senza scagliare lontano il cappello o magari slittare sul terreno liscio e fare un vergognoso capitombolo? Non sostenevo già a Halle ogni giorno di mercato una spesa di tre o quattro soldi per pentole rotte, perché il diavolo mi mette in mente di andare sempre per la via diritta come i lemmi? Sono forse arrivato una sola volta puntualmente alla lezione o dove ero stato invitato? A che mi giovava uscire di casa mezz’ora prima e mettermi davanti alla porta col picchiotto in mano? Appena infatti stavo per battere, allo scoccare dell’ora, Satana mi rovesciava un catino sulla testa o mi faceva imbattere in una persona che usciva implicandomi in qualche lite e facendomi arrivare sempre in ritardo. Ahimè, dove siete andati a finire, sogni beati di gioie future, quando mi figuravo di poter arrivare al posto di segretario? Ma la mia cattiva stella non mi ha forse inimicato i più importanti protettori? So bene che il consigliere segreto al quale fui raccomandato non può soffrire i capelli corti; il parrucchiere mi attacca faticosamente alla nuca un bel ciuffo, ma, al primo inchino, la disgraziata funicella si rompe e un allegro cagnolino che mi ha fiutato da tutte le parti porta, tutto trionfante, il mio ciuffo al consigliere. Gli corro dietro spaventato e cado riverso sulla tavola dove sta lavorando e facendo colazione, di modo che latte, piatti, calamaio, spolverino cadono a terra tintinnando, e un rigagnolo di inchiostro e cioccolata inonda la relazione appena scritta. “Che cosa fa? È matto?” urla il consigliere inviperito, e mi spinge, poi, subito alla porta. A che mi serve che Paulmann mi abbia fatto sperare in un posto di scrivano? Me lo concederà forse la cattiva stella che mi perseguita dappertutto? E oggi stesso: volevo festeggiare tranquillamente il simpatico giorno dell’Ascensione, ero disposto a non badare a spese. Come qualunque altro ai Bagni di Link avrei potuto esclamare dall’alto in basso: “Cameriere, una bottiglia di birra forte, ma la migliore, mi raccomando!” E, fino a tarda sera, sarei potuto star là, magari accanto a un gruppo di belle ragazze. Son sicuro che mi sarebbe pure venuto il coraggio, sarei diventato un altro. Se l’una o l’altra mi avesse domandato: “Che ora sarà mai?” oppure: “Che cosa stanno sonando?”, sarei stato capace di balzare elegantemente in piedi senza rovesciare il mio bicchiere o capitombolare sulla panca; con un inchino sarei avanzato di un passo e mezzo e avrei detto: “Mi permetta, signorina, di mettermi a sua disposizione? Questo è il preludio della Naiade danubiana”, oppure: “Manca poco alle sei”. Chi avrebbe potuto pensar male di me? Certamente nessuno. Le ragazze si sarebbero scambiate occhiatine maliziose come avviene quando ho l’ardire di far vedere che anch’io so essere uomo di mondo e trattare con le dame. Ma il diavolo mi conduce contro quella maledetta cesta di mele e ora me ne devo stare qui solo con la pipa…» A questo punto, il soliloquio di Anselmo fu interrotto da uno strano frusciare e ruscellare che si levò dall’Elba fino a lui, e poco dopo salì tra i rami e le foglie del sambuco che s’incurvava sopra di lui. Ora pareva che il vento della sera scuotesse le foglie, ora che gli uccellini giocassero tra i rami agitando capricciosamente le alucce. Poi, cominciò un bisbiglio, un sussurrio, come se i fiori tintinnassero al pari di campanelle di cristallo. Anselmo stette in ascolto ed ecco, senza che egli se ne rendesse conto, quel tintinnio, quel bisbiglio, quel sussurrio si tramutò in parole sommesse, quasi soffiate via dal vento: «Attraverso… dentro e fuori… tra ramoscelli, tra turgidi fiori, oscilliamo, sventoliamo, serpeggiamo… sorellina… sorellina, lanciati alla luce. Presto, presto… in su, in giù… il sole al tramonto manda i suoi raggi, il vento sibila… fruscia la rugiada… cantano i fiori, noi muoviamo la piccola lingua, cantiamo coi fiori e coi rami… tra poco brillano le stelle. Dobbiamo scendere di qua e di là, serpeggiando, intrecciando, oscillando, sorelline». Il discorso continuò così confuso. E lo studente pensava: «Non può essere che il vento della sera, che oggi sussurra parole comprensibili!» Ma, in quell’istante, risuonò, sopra di lui, come un accordo di tre nitide campane di cristallo: egli, allora, alzò gli occhi e vide tre serpicine, brillanti nell’oro verde, che si erano avvolte ai rami e sporgevano il piccolo capo verso il tramonto. Il sussurro e il bisbiglio ripresero con le stesse parole, le serpi scivolarono garbatamente in su e in giù tra i rami e le foglie e, a quel loro rapido urtare, sembrava che il sambuco spargesse, attraverso le foglie scure, migliaia di smeraldi luccicanti. «È il sole al tramonto i cui raggi giocano nel sambuco», pensò Anselmo, ma le campane ripresero a suonare, ed egli vide che una di quelle serpicine volgeva la testolina verso di lui. Sentì, allora, in tutte le membra come una scossa elettrica, e tutto tremante guardò in alto: un paio di splendidi occhi azzurri lo guardavano con indicibile desiderio, sicché un sentimento, mai conosciuto, di felicità suprema e di profondo dolore parve che gli spezzasse il cuore. E, mentre fissava quegli occhi soavi con brama ardente, gli accordi cristallini delle campane risuonavano più forti, gli smeraldi scintillanti gli cadevano addosso e mille fiammelle lo attorniavano, lingueggiando e intrecciandosi a fili d’oro. Il sambuco si mosse e parlò: «Stavi seduto alla mia ombra e il mio profumo ti avvolgeva, ma tu non mi hai compreso. Il profumo è il mio linguaggio quando l’amore mi infiamma!» Il vento della sera passò alitando e disse: «Ti ho accarezzato la tempia ma tu non mi hai compreso. Il soffio è il mio linguaggio quando l’amore mi infiamma!» I raggi del sole sbucarono dalle nubi e il loro splendore parlò: «Ho versato su di te l'oro infocato, ma tu non mi hai compreso. Ardore è il mio linguaggio quando l'amore mi infiamma!» Sempre più immerso nello sguardo di quei due splendidi occhi, la brama di lui divenne più ardente, il desiderio più bruciante. Ogni cosa si mosse quasi ridestata alla vita gaia. Intorno a lui olezzavano i fiori, il cui profumo era quasi incanto di mille voci di flauto, e questo canto era portato echeggiante in lontani paesi dalle migranti nuvole d’oro. Ma, quando dietro ai monti scomparve veloce l’ultimo raggio del sole e il crepuscolo stese il suo velo su tutta la regione, una voce brusca e profonda esclamò da lontano: «Ahi, ahi, che mormorio, che borbottio è quello laggiù? Ahimè, chi mi cerca, il raggio dietro ai monti? Si è cantato abbastanza, si è preso abbastanza sole… via, via, nell’erba e nei cespugli… nell’erba e nel fiume! Giù… giù, giù!» La voce si spense, come nel brontolio d’un tuono lontano, e le campane di cristallo s’infransero con stridente risonanza. Tutto era ammutolito, e Anselmo vide le tre serpi scivolare luminose nell’erba verso il fiume, dove si gettarono frusciando e sibilando. Nel punto dove erano scomparse scoppiettò, sulle onde, un fuoco verde che svanì obliquo e lingueggiante in direzione della città.
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