TERZA VEGLIA

1630 Words
TERZA VEGLIA Notizie intorno alla famiglia dell’archivista Lindhorst. Gli occhi azzurri di Veronica. L’attuario Heerbrand. «Lo spirito, allora, volse lo sguardo all’acqua, ed essa si mosse e rumoreggiò a ondate spumeggianti, e precipitò tuonando negli abissi che spalancarono le nere fauci per ingoiarla avidamente. Come vincitori trionfanti i dirupi di granito alzarono la loro testa incoronata di guglie a proteggere la valle, mentre il sole la accolse nel grembo materno e, abbracciandola, la cullò e riscaldò coi suoi raggi, simili a braccia ardenti. Allora, si destarono dal sonno profondo mille germi, dopo aver sonnecchiato sotto la rena deserta, e sollevarono i loro gambi e le foglioline verdi verso il volto dell’astro materno, e, come bimbi sorridenti in una verde culla, riposarono nelle gemme fiorenti piccoli fiori, finché anch’essi, al tocco della madre, si destarono e si ornarono delle luci che per loro gioia la madre aveva tinto di mille colori. Nel mezzo della valle, sorgeva una collina nera che si alzava e abbassava come il petto dell’uomo quando si gonfia di bruciante desiderio. Dagli abissi si levarono masse di vapori che, unendo i loro globi, cercavano di nascondere con ostilità il volto del sole; il quale, però, invocò la bufera che li investì polverizzandoli, e quando il raggio puro colpì di nuovo la collina nera, ne sbucò, in un impeto di gioia, una stupenda amarillide rossa che aprì i magnifici petali come dolci labbra pronte ad accogliere i baci materni. Tutta la valle fu invasa da un grande splendore. Era il giovinetto Fosforo che l’amarillide di fiamma vide e, presa da un ardente nostalgico amore, implorò: “Sii mio per sempre, bellissimo giovane! Ti amo e devo morire se mi abbandoni”. Fosforo, allora, rispose: “Certo, voglio essere tuo, magnifico fiore, ma allora come una figlia degenere lascerai il padre e la madre! Non conoscerai più le tue compagne di giochi, vorrai essere più grande e più potente di tutti quanti fioriscono con te perché sono tuoi pari. Il desiderio che ora scalda, benefico, tutto l’essere tuo si scinderà in cento raggi, ti tormenterà e torturerà, perché il senso partorirà i sensi e la voluttà suprema, accesa dalla scintilla che getto dentro di te, è il disperato dolore nel quale perisci per rigermogliare come un’estranea. Questa scintilla è il pensiero!” “Oh”, sospirò l’amarillide, “non posso essere tua nell’ardore che adesso divampa dentro di me? Potrò mai amarti più di ora e potrò guardarti come adesso, se mi annienti?” A questo punto, il giovane Fosforo la baciò e, come attraversata dalla luce, ella sprigionò fiamme dalle quali uscì un essere nuovo che, fuggendo velocemente dalla valle, vagò per lo spazio infinito, non curandosi affatto delle compagne della sua giovinezza, né del giovane amato. Questi pianse l’innamorata perduta, perché anche lui era stato portato nella valle solitaria dall’infinito amore per la bella amarillide, e le rocce granitiche chinarono il capo, partecipando al dolore del giovane. Una di esse, però, si aprì e ne uscì, svolazzando, un nero drago alato che disse: “I metalli, miei fratelli, dormono lì dentro, ma io sono sempre sveglio e ti voglio aiutare!” Volando in alto e in basso, il drago riuscì ad afferrare l’essere che era sbocciato dall’amarillide, lo portò sulla collina e lo coprì con le ali. Ed era di nuovo l’amarillide, ma un pensiero fisso la straziava e l’amore per il giovane Fosforo era una pena lancinante, per la quale i fiori che prima avevano gioito a vederla, ora, avvolti in venefici vapori, avvizzivano e morivano. Fosforo indossò, allora, un’armatura lucente che mandava luci di mille colori e combatté col drago, il quale, battendo le ali nere contro la corazza, ne ricavava squilli sonori, e a quei suoni i fiori rivissero e volarono, come uccelli multicolori intorno al drago, che perdute le forze andò a nascondersi vinto nelle profondità della terra. L’amarillide fu libera, e Fosforo l’abbracciò, ardendo dal desiderio di un amore celeste; e in un inno di giubilo i fiori, gli uccelli, perfino le aride rocce di granito le fecero omaggio riconoscendola regina della valle». «Scusi, egregio archivista, ma queste sono ampollosità orientali!» osservò l’attuario Heerbrand, «mentre noi avevamo espresso il desiderio di sentirla raccontare, come fa di solito, qualche fatto della sua vita curiosa, non so, delle sue avventure di viaggio, ma qualcosa di vero». «Ebbene», rispose Lindhorst, «ciò che vi ho raccontato è la cosa più vera che io vi possa presentare, cari miei, e in certo qual modo fa parte della mia vita. Infatti, io sono oriundo appunto di quella valle e l’amarillide di fuoco, l’ultima regina che vi regnò, è la mia lontanissima progenitrice, sicché a rigor di logica sono un principe». Tutti, allora, scoppiarono in una risata rumorosa. «Sì, ridete pure», continuò l’archivista, «il racconto che vi ho fatto a grandi linee vi potrà sembrare assurdo o folle, ma è tutt’altro che assurdo o diciamo allegorico, è letteralmente vero. Se però avessi saputo che la bellissima storia d’amore, alla quale devo la mia origine, vi sarebbe piaciuta così poco, vi avrei comunicato piuttosto le novità che mi recò mio fratello, venuto ieri a trovarmi». «Oh, senti questa! Lei ha anche un fratello? E dove è? Dove si trova? Anche lui è al servizio del re o è forse un erudito privato?» «No, no», rispose Lindhorst calmo e freddo, annusando una presa di tabacco, «è passato dalla parte malvagia e si è unito ai draghi». «Come dice, caro archivista?» domandò Heerbrand. «In mezzo ai draghi?» «In mezzo ai draghi?» chiesero altri facendo eco. «Sì, fra i draghi», continuò l’archivista. «A dir il vero, fu per disperazione. Voi sapete, signori, che mio padre è morto recentemente, saranno tutt’al più trecentoottantacinque anni, per questo porto ancora il lutto, e a me che ero il suo beniamino lasciò una magnifica onice. Mio fratello la voleva a tutti i costi. Davanti alla salma di mio padre litigammo perciò in un modo indecente, finché il defunto, perduta la pazienza, balzò in piedi e buttò il cattivo fratello giù dalle scale. Rodendosi per questo, egli andò difilato fra i draghi. Adesso vive in un bosco di cipressi alla periferia di Tunisi, dove ha il compito di custodire un famoso carbonchio mistico al quale un dannato negromante che d’estate è domiciliato in Lapponia dà la caccia; perciò si può allontanare al massimo un quarto d’ora, quando il negromante coltiva nel giardino le sue aiuole di salamandre, e in tutta fretta mi viene a raccontare ciò che succede di buono alle sorgenti del Nilo». Per la seconda volta, i presenti scoppiarono a ridere, ma lo studente Anselmo fu colto da un brivido e si arrischiò a malapena a guardare negli occhi severi dell’archivista con un tremore che a lui stesso era incomprensibile; tanto più che la voce dell’archivista, aspra, ma stranamente metallica, aveva un che di misterioso e penetrante al punto da far venire i brividi. Lo scopo per cui l’attuario lo aveva portato con sé al caffè non era ormai raggiungibile. Infatti, dopo l’incidente davanti alla casa dell’archivista, lo studente non si era più lasciato indurre a tentare la visita una seconda volta: era profondamente convinto che soltanto il caso lo avrebbe salvato se non dalla morte, dal pericolo di impazzire. Paulmann, il vicepreside, era passato proprio di lì quando Anselmo era caduto davanti alla porta privo di sensi e una vecchia, deposto il paniere delle sue mele e delle focaccine, era affaccendata intorno a lui. Paulmann aveva chiamato subito una bussola e lo aveva fatto portare a casa. «Si pensi di me quel che si vuole», disse Anselmo, «mi si prenda per matto o no, fatto è che da quel picchiotto usciva il ghigno della maledetta strega della Porta Nera. Di ciò che avvenne in seguito preferisco non parlare, ma se fossi rinvenuto e avessi visto davanti a me la dannata donna delle mele (era lei infatti quella che si dava da fare intorno a me), un colpo apoplettico mi avrebbe ucciso sull’istante o sarei quantomeno ammattito». Le esortazioni, le ragionevoli obiezioni del vicepreside e dell’attuario non approdarono a nulla, e nemmeno la giovane Veronica dagli occhi azzurri fu capace di distoglierlo dallo stato di malinconia nel quale era sprofondato. Realmente fu considerato malato di mente e si cercarono mezzi per distrarlo, dopo di che Heerbrand espresse il parere che nessuna cosa potesse essere utile quanto il lavoro presso l’archivista, cioè la copiatura dei manoscritti. Si trattava di presentare, in modo garbato, lo studente all’archivista, e siccome l’attuario sapeva che quello frequentava, quasi ogni sera, un ben noto caffè, invitò Anselmo ad andarci tutte le sere, a bere una birra e a fare una pipata, sempre a spese dell’attuario stesso, finché in un modo o nell’altro fosse stato presentato all’archivista e si fosse messo d’accordo sulla faccenda della copiatura. Anselmo accettò con animo grato. «Dio la premierà, caro attuario, se riuscirà a far ragionare questo giovane», concluse il vicepreside. «Dio la premierà», ripeté Veronica, alzando devotamente gli occhi al cielo, convinta che lo studente fosse già un giovane molto garbato, anche senza la ragione. Mentre Lindhorst, preso il cappello e il bastone, stava per uscire, Heerbrand prese Anselmo per mano e, tagliando la strada all’archivista, gli disse: «Egregio signor archivista, questo è lo studente Anselmo. È abilissimo in calligrafia e disegno e vorrebbe copiare i suoi rari manoscritti». «Ciò mi fa un immenso piacere», replicò l’archivista e, messosi rapidamente in testa il tricorno militare, spinse da parte l’attuario e lo studente, e scese rumorosamente le scale, sicché entrambi rimasero straniti e stettero a guardare la porta che quello aveva sbattuto loro in faccia facendone cigolare i cardini. «Strano questo vecchio», commentò Heerbrand. «Strano vecchio», ripeté lo studente, balbettando e rabbrividendo come se una gelida corrente gli passasse nelle vene riducendolo quasi alla rigidità di una statua. Tutti i clienti invece risero: «Oggi l’archivista era di nuovo del suo umore particolare, domani sarà certo mansueto e non dirà una parola, si limiterà a guardare i vortici di fumo della pipa e a leggere il giornale. Non bisogna fargli caso». «Giusto», pensò Anselmo, «chi ci farà caso? Non ha forse detto l’archivista che gli farebbe molto piacere se gli copiassi i manoscritti? E perché mai l’attuario gli tagliò la strada proprio nel momento in cui stava per rincasare? In fondo è una cara persona, il signor archivista Lindhorst, ed è certamente strano e un po’ curioso per il modo di esprimersi… ma che male c’è per me? Domani ci vado alle dodici in punto, dovessi pur incontrare l’ostacolo di cento vecchie bronzate!»
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