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Sulla parola

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Blurb

Erin lavora nell’ufficio per la libertà sulla parola della contea, un lavoro che sua madre continua a definire “di merda”. E, in effetti, provare a far reinserire nella società i criminali appena usciti di galera non è una passeggiata. Quando Walker arriva nel suo ufficio non sembra un caso facile. È un rapinatore, uno che ha fatto dentro e fuori dalla prigione per tutta la vita. Ma dice di aver intenzione di cambiare e Erin gli dà una possibilità. Poi anche più di una possibilità...

-

"La seguì in camera come... sì, più o meno come un cane lupo che stringe le tue ciabatte in bocca e te le vuole assolutamente consegnare di persona, tutte amorevolmente sbavate. Nel caso di Walker le ciabatte erano un pacchetto di preservativi, che non le consegnò ma lanciò sbrigativamente sul comodino.

Poi polverizzò ogni record di preliminari. Non che Erin fosse un’estimatrice assoluta del prendersela con calma – anche perché la maggior parte dei maschi era penosa, quando si trattava di scaldarti per bene prima di iniziare – ma non aveva mai assistito a un disbrigo più rapido di quella che Walker evidentemente considerava una formalità.

Quindi, tanto perché restasse agli atti, la baciò.

A Erin il cuore iniziò a battere come un tamburo, ma Walker era già passato al preliminare numero due, che poi consisteva nel palparle le tette intanto che si liberava della camicia di lei.

Erin si trovò sul letto senza avere idea di come ci fosse finita e scoprì che Walker le stava sfilando anche jeans e slip in un unico gesto.

A quel punto ci fu una specie di preliminare numero tre, quando lui le aprì le cosce. Cioè, probabilmente bisognava essere grati per le piccole cose: gliele aprì con le mani invece che direttamente con i fianchi..."

CONTIENE SCENE ESPLICITE - SI CONSIGLIA A UN PUBBLICO ADULTO

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1.
1. Quando incontrò Chase Walker, Erin Hall faceva il suo “lavoro di merda” da poco più di cinque anni. La definizione era di sua madre, ovviamente. La signora Hall pensava che Erin avrebbe potuto fare un uso molto migliore della laurea e del master che aveva duramente conseguito, e lo pensava fin da quando Erin le aveva detto che intendeva fare domanda al Parole Office della Contea. Erin non l’aveva ascoltata. Secondo la signora Hall non lo faceva mai – e almeno su questo la signora Hall non aveva tutti i torti. Quando Erin era diventata un’agente di custodia era piena di alti ideali. Pensava che con il suo lavoro avrebbe reso la società un posto migliore e più sicuro, pensava che avrebbe davvero aiutato gli ex-detenuti a reinserirsi nella vita civile. Era molto ottimista. Dopo circa due mesi aveva dovuto ammettere che, no, per lo più gli ex-detenuti non volevano reinserirsi nella vita civile e che quindi, no, non stava rendendo la società un posto chissà quanto migliore. La maggior parte dei suoi “clienti” avrebbe ripreso a delinquere non appena scaduto il periodo sulla parola, molti anche prima. I tossici avrebbero continuato a farsi e a cercare di consegnarle le urine di qualcun altro, i ladri a rubare, i truffatori a truffare, gli spacciatori a spacciare e così via. Ma c’erano delle eccezioni. C’erano dei detenuti che volevano sul serio ricominciare da capo... e lei li aiutava a farlo. Molte delle persone con cui aveva a che fare provenivano da ambienti in cui il crimine era l’unica alternativa sensata. Alcuni di essi in carcere si rendevano conto che non era così dappertutto. Erin aveva imparato a distinguere le varie tipologie a prima vista. C’erano i delinquenti abituali. Non importava che fossero al loro primo o secondo crimine... prima o poi ne avrebbero commesso un terzo, sarebbero stati beccati e avrebbero passato più o meno il resto della loro vita dentro. Di questa categoria facevano parte i membri delle gang, i rapinatori, gli spacciatori, i truffatori e in genere tutti quelli che venivano da un ambiente che incoraggiava il crimine e scoraggiava l’onestà. Gente che era “nel sistema” fin da piccola e ci sarebbe rimasta. Poi c’erano quelli che probabilmente avrebbero recidivato: quelli che picchiavano le mogli, gli stupratori seriali, i pedofili, gli incendiari... di serial killer non ne aveva visti, perché quelli se li beccavano li tenevano dentro. C’erano degli agenti di custodia che si dedicavano in modo specifico ai predatori sessuali e agli schizzati e Erin non faceva parte di loro. Poi c’erano quelli che potevano reinserirsi, posto che non riprendessero le cattive abitudini: i tossici e gli alcolizzati. Naturalmente c’erano i matti. I matti erano imprevedibili. Per ultimissimi c’erano quelli che si erano resi conto di aver sbagliato, avevano scontato la propria pena e ora erano decisi a rigare dritto. Non erano molti, ma ovviamente erano quelli che ti davano più soddisfazione. Quando il fascicolo di Chase Walker arrivò sulla sua scrivania, Erin lo lesse e pensò che era un criminale abituale. Era alla sua seconda condanna: aveva già fatto un anno per furto, prima degli ultimi cinque per rapina a mano armata. Leggendo tra le righe Erin pensò di capire che anche il primo crimine era stata una rapina, ma che Walker o il suo avvocato erano stati abbastanza furbi da farlo passare per un furto. Nel secondo caso non era stato possibile – o la giuria non si era fatta prendere per il naso. Inoltre, la prima volta Chase era poco più di un ragazzino: diciannove anni. Al secondo giro ne aveva ventinove e nessuno pensava più che fosse un bambino. Erin avrebbe scommesso che tra i ventuno e i ventinove la professione di Walker non era cambiata, solo che non si era fatto beccare. Otto anni di rapine. Questo lo rendeva un professionista e probabilmente un irrecuperabile. Il supervisore di Erin, quando avevano discusso in via preliminare dell’infornata di casi che la corte stava per mandare loro, si era detto d’accordo con lei. L’Ufficio per la Libertà sulla Parola avrebbe investito su Walker minori risorse che sugli altri. Era probabile che il rapinatore violasse i termini e finisse di scontare la pena dentro: non era il caso di sprecare le poche energie che avevano su di lui. Esatto: le poche energie. Un’altra cosa che Erin aveva imparato molto presto era che il suo ufficio non aveva abbastanza personale, non aveva abbastanza soldi e non aveva abbastanza sostegno politico per potersi permettere di investire risorse sui casi disperati. Non era giusto, ma che la vita fosse ingiusta era proprio la primissima cosa che Erin aveva imparato. E per aiutare qualcuno è necessario che quel qualcuno voglia farsi aiutare. +++ Chase Walker arrivò intorno alle undici del mattino. O era venuto dalla prigione in pullman o si era fermato da qualche parte prima di presentarsi da loro. Erin era seduta nel suo cubicolo straripante di faldoni quando lui arrivò. Una cosa che il suo fascicolo non diceva era che fosse bello. Erin pensò con un sospiro mentale che se quell’idiota nella vita non avesse voluto fare il pistolero avrebbe potuto tranquillamente fare l’attore. Era alto, con i capelli scuri tagliati corti, ma non cortissimi, il fisico perfetto di uno che negli ultimi cinque anni non aveva avuto molto da fare a parte gli addominali. Erin ne vedeva almeno cinque alla settimana, come lui, ma non tutti sapevano quando fermarsi e certi detenuti erano poco meno che culturisti. Walker si era fermato molto prima di quel punto ed era perfetto. Il viso era lungo e angoloso, con un velo di barba sul mento, gli occhi blu scuro. Il naso doveva esserselo rotto almeno una volta, ma il risultato era interessante. Indossava un paio di jeans vecchi. Non invecchiati ad arte, ma invecchiati nel deposito della prigione. Sopra, un gilet da pescatore e una t-shirt bianca, che lasciava scoperte le braccia piene di brutti tatuaggi da carcerato. Erin cercò con gli occhi l’affiliazione a qualche banda: un 88, un 14 o anche una vera e propria svastica, perché di solito i bianchi finivano con i nazi. Non trovò niente del genere, ma di per sé non significava nulla, solo che non aveva avuto bisogno di protezione da parte loro. Walker sfilò tranquillamente davanti agli altri cubicoli, con un passo calmo e un po’ indolente. Si fermò davanti al suo e la guardò. «Agente Hall» disse. Non era una vera domanda, ma una richiesta di conferma. «Sono io. Si sieda, Walker». Lui si mise comodo e la guardò di nuovo. Non ostile, ma neppure amichevole. Neutro. Come se sapesse che nei successivi tre anni avrebbe dovuto avere a che fare con lei – se non lo rimettevano dentro prima – e fosse rassegnato alla cosa. Non fece battute sull’età o sull’aspetto di Erin, il che in un certo senso deponeva a suo favore. In un altro senso diceva che non gli importava di lei. «Dunque... è uscito stamattina. Sapeva di dover venire subito qua, vero?». L’altro annuì. «Sono arrivato ora. Autobus». Prese una ricevuta tutta accartocciata dalla tasca dei jeans e la posò delicatamente in un punto libero della scrivania. Erin la ignorò, ma non perché non le importasse. Walker aveva dato per scontato che lei non gli credesse, e aveva fatto bene a darlo per scontato. A quel punto lei gli credeva e sarebbe stato stupido far finta che la “prova” prodotta da lui fosse inutile. «È al secondo crimine» continuò, sfogliando il suo fascicolo. Gli lanciò un’occhiata. «Non credo di aver bisogno di dirle che cosa succederà se verrà condannato una terza volta». «Nossignora» rispose Walker. Quanto meno si stava comportando in modo educato. «Ha un posto dove dormire? Ha qualche soldo da parte?». Lui si mordicchiò il labbro inferiore. «Soldi no» disse, alla fine. «Ci hanno messi tutti dentro... quello che avevamo da parte ci è servito. Mi saranno rimasti... due, trecento dollari. In quanto alla casa, non ho parenti. Probabilmente posso dormire da qualcuno, per un po’». Alzò fiaccamente una mano. «Lo so che le serve un nome e un indirizzo. Glielo darò domani, okay?». «Ha un numero di telefono?». Lui annuì. Tirò fuori dalla tasca un vecchio cellulare e lo posò davanti a lei. «Appena riattivo la scheda di questo, signora. E mi sa che devo cambiare la batteria». Erin sospirò. «Non va bene». Walker non sembrò deluso. «Lo so. Ho provato a farlo da dentro, ma non c’è stato verso. Che facciamo?». Lei gli passò il telefono. «Provi a riattivare il contratto, intanto. Poi l’accompagno a comprare una nuova batteria. Se non ha almeno un recapito è già fuori dai termini della libertà vigilata. Lui prese il telefono senza una parola e compose un numero. Al primo tentativo non riuscì a farsi passare un operatore, al secondo sì. Erin lo osservò mentre gli parlava. Non perdeva la calma e quello che diceva sembrava sensato. Di nuovo, scosse mentalmente la testa. Quell’uomo non era neppure un idiota, se nella vita non avesse voluto fare il pistolero avrebbe potuto riuscire a trovare un lavoro decente. Davanti alla sua scrivania ne passavano tanti che a un test del Q.I. sarebbero stati sul limite tra normalità e ritardo mentale, e niente impediva a un idiota di essere un violento o un ladro, ma questo qua aveva come minimo un’intelligenza nella media. Walker abbassò la cornetta e le restituì il telefono. «Ce l’ho fatta. Dicono che il numero sarà di nuovo attivo tra qualche ora». «Bene. Parliamo del lavoro, Walker. Conosce qualcuno che può aiutarla? Ha qualche idea?». Di nuovo, lui si mangiucchiò il labbro inferiore. Non aveva fretta, ma quello era tipico dei carcerati. Il tempo per loro si dilatava, mentre erano dietro alle sbarre. «Siamo onesti. La gente che conosco di lavoro per me ce n’ha. Legale? No. Quindi dovrò provare a fare in un modo diverso». Per la prima volta Erin ebbe il dubbio che quel tizio volesse cambiare. Non perché fosse pentito di quello che aveva fatto, ma perché non voleva finire dentro una terza volta. Era una motivazione anche quella. «Posso aiutarla» si trovò a dire, con un mezzo sospiro, spostandolo mentalmente nella casella di quelli su cui investire una porzione del suo già esiguo tempo. «Che cosa sa fare?». Lui le rivolse un sorriso storto. «Rapinare furgoni portavalori». Erin non rispose al sorriso. Non aveva intenzione di dargli l’impressione di essere morbida. Già era giovane, se fosse stata anche morbida non sarebbe più riuscita a fare niente. Walker tornò serio. «So cucinare» disse. «Ha fatto dei corsi o...» Lui annuì. «Mentre ero dentro. Qualcosa bisogna fare, no? Me la cavo bene specialmente con i dolci. Poi so... immagino che potrei imparare a fare il meccanico. Vado abbastanza d’accordo con i motori. Mi piacciono le macchine. Ma in realtà mi va bene tutto, anche il cameriere o il lavacessi». «Sa che non sarà facile, vero? Sarà frustrante». Walker si strinse nelle spalle. «Posso sempre contare sullo Stato, se non saprò dove trascorrere la vecchiaia». C’erano detenuti che non vedevano l’ora di parlare con lei (non molti in realtà). Persone decise a cambiare che erano insicure di tutto e volevano che lei li aiutasse come bambini. Quelli taciturni, di solito, avevano già i loro piani. Su Walker... non era sicura. La logica le diceva che avrebbe ricominciato a delinquere alla prima occasione, ma le trasmetteva anche delle vibrazioni positive. Forse per l’aspetto, si disse. Le persone belle ti sembrano sempre anche migliori di quanto siano. Comunque fosse era chiaro che Walker non voleva consigli e non voleva parlarle. Avrebbe accettato il suo aiuto se gli fosse servito, tutto qua. A Erin ricordava un cane, chissà perché. Un cane diffidente, che se ne sta sulle sue. Che mangia il cibo che gli dai, ma non ti concede confidenza. «Bene. Andiamo a comprare questa batteria» concluse, alzandosi. +++ Lo precedette verso la sua macchina, che era parcheggiata fuori dalla sede del Parole Office sulle strisce riservate agli impiegati. Non era un gran macchina, ma Erin le faceva regolarmente manutenzione e la teneva pulitissima. Le capita spesso di portarci in giro i suoi assistiti e pensava che se l’abitacolo fosse stato sporco e pieno di ciarpame l’avrebbe resa un po’ meno autorevole. Walker, comunque, non guardò la macchina, almeno in un primo momento: guardò il suo culo. Anche a quello Erin era abituata. Se avesse avuto un centesimo per ogni volta in cui un detenuto aveva ci provato con lei avrebbe messo da parte già il necessario per un set nuovo di pneumatici, come minimo. Quelli appena usciti, ovviamente, erano peggio. Alcuni si fermavano a scopare come primissima cosa, prima di venire al Parole Office. Erin teneva una linea morbida con loro. Altri non facevano in tempo o non ne avevano modo, ed erano quelli che ci provavano più insistentemente. Un paio di volte aveva dovuto spruzzare con il Mace dei “corteggiatori” troppo insistenti. In alcune altre occasioni non si era fidata a farli salire in macchina con lei. Quindi... Walker le guardò il culo, non c’era niente di nuovo. Era un bel culo, tra l’altro, e questo faceva parte del problema. Erin era carina. Si vestiva sempre in jeans, scarpe piatte e camice graziose ma non-provocanti, ma che era carina si vedeva lo stesso. I suoi capelli ramati erano folti e dalle onde morbide, gli occhi verdi erano grandi ed espressivi, sul naso aveva una piacevole spruzzata di lentiggini, le labbra erano piene e gli incisivi lievemente accavallati, come quella modella europea. Walker le guardò il culo e non disse niente. Salì sulla macchina con lei quando gli fu detto di farlo e si allacciò la cintura senza bisogno di sollecitazioni. Erin partì e si diresse verso il centro. «Credo che serva un negozio di ricambi un po’ fornito» disse lei, più che altro per riempire il silenzio. «Mh-mh» fece Walker. Guardava fuori dal finestrino e di nuovo a Erin ricordò un cane. Lo portò fino a uno di quei negozi di tecnologia vecchio-stile, di quelli che tengono tutto, non solo l’ultimo modello del giocattolo di tendenza. Il commesso recuperò una batteria per il suo cellulare. Quaranta dollari che Walker tirò fuori con espressione infelice. Poi accese il telefono, alzò una mano come a chiedere silenzio mentre cercava di ricordare il codice di sblocco. Lo azzeccò al primo tentativo e il telefono si accese. «La linea c’è. Ecco il suo recapito, agente Hall» le disse. Erin gli passò il suo bigliettino. «Questo è il mio numero. Se ha un’emergenza chiami qua. Vuole che la accompagni da qualche parte, prima di tornare in ufficio?». Walker ci pensò. Con calma. Annuì. Le diede un indirizzo a una ventina di minuti da lì, in uno dei quartieri meno raccomandabili della città. Quando lo raggiunsero Erin vide che era un bar. +++ Il resto della giornata di Erin volò via. Il suo tempo sembrava scomparire in un buco nero. Troppe cose da fare e troppe poche ore per farlo. Durante la mattina incontrò altri tre detenuti, si fece aggiornare sul lavoro (o la mancanza di esso), la frequenza agli incontri dei gruppi che erano tenuti a seguire, la vita relazionale, i problemi pratici... Nel pomeriggio fece alcune visite a domicilio. I quartieri in cui finiva non erano mai buoni e aveva imparato a tenere la pistola sempre a portata di mano – e non in borsetta come faceva all’inizio. Nel tardo pomeriggio andò a una riunione con lo staff dei servizi sociali, per una desolante panoramica su alcuni dei casi che avevano in comune. Quando tornò nella sua metà di bifamiliare erano le sei di sera passate. Riscaldò una zuppa pronta nel microonde e la mangiò davanti alla TV. Forse aveva ragione sua madre, pensò. Quello era un lavoro di merda e avrebbe dovuto mollarlo. La pagavano poco, correva un sacco di rischi e le soddisfazioni erano quasi nulle. Pensò di chiamare suo fratello, che viveva a New York e insegnava in un’università, ma alla fine decise di rimandare. Clive a volte la supportava così forte da ottenere l’effetto opposto. E Erin era piuttosto sicura che si riempisse la bocca del suo lavoro a proposito e a sproposito. L’aveva visto su f******k. “Mia sorella, che ha scelto di lavorare come agente di sorveglianza per la libertà sulla parola, mi ha spiegato che...” scriveva Clive, quando voleva dare credibilità a una delle sue tesi liberal-ma-realiste. Era in buona fede, ma ti faceva anche venir voglia di strozzarlo. Erin concluse la sua cena con una tazza di cereali. Sua madre non avrebbe approvato la sua alimentazione, cosa che, per qualche attimo, la fece sentire profondamente soddisfatta. Poi si disse “Erin, Cristo santo... cresci”. E ammise che la sua alimentazione faceva cagare. Si lavò i denti e si mise in pigiama attorno alle otto. Poi lesse per un’oretta, cercando anche di sottolineare le parti che riteneva più interessanti del saggio sui crimini sessuali di una procuratrice newyorkese. Verso le nove si arrese e chiuse il libro. Guardò la TV fin quasi alle dieci, orario in cui stava per andare a letto... quando suonò il suo cellulare. Il numero non era in rubrica, ma sul cellulare lavorativo di solito era così. Il cellulare privato, d’altronde, aveva in rubrica ben pochi contatti. Rispose. «Salve» disse una voce maschile «sono Chase Walker, ha presente?». Erin aveva presente benissimo. «Sì» disse. «Mi ha detto di chiamarla se avessi avuto un problema. Be’, ho un problema... mi dispiace disturbarla». Erin sospirò. Avevano un appuntamento per la mattina dopo, ma supponeva che il suo “problema” non potesse aspettare fino ad allora. «Mi spieghi». «La versione breve è che non ho un posto dove passare la notte. O meglio... fa caldo, potrei dormire su una panchina, ma se mi arrestano per vagabondaggio torno dentro, giusto?». «Giusto». L’altro rimase in silenzio per un paio di secondi. «Ho pensato che magari aveva un posto dove mettermi solo per stanotte. Posso dormire in una pensione, ma poi non avrò i soldi per mangiare. C’è un mini-market, qua davanti... la telecamera è rotta, dentro c’è un tizio davvero magro. Lo guardo da venti minuti». «Perché me lo sta dicendo?» chiese Erin. Era così, eh? Be’, che le dicesse esplicitamente che stava per rapinare quel mini-market, così il giorno dopo l’avrebbe fatto rimettere dentro e avrebbe avuto un caso in meno da seguire... Un secondo dopo averlo pensato Erin si sentì di merda. Come diavolo si era ridotta? «Ho pensato... pure l’agente Hall avrà delle statistiche da riempire, come tutto il mondo, no? E se il numero di suoi detenuti che ritornano dentro è troppo alto qualcuno non sarà contento di lei, giusto? Quindi magari se la chiamo e le dico che se non mi aiuta tornerò in gabbia alla velocità del fulmine... farà qualcosa per me. Tra un po’ finisco anche i soldi del cellulare». Un altro istante di silenzio, mentre decideva come concludere la chiamata. «Sono sulla Central, davanti alla statua di Roosevelt. Ho dietro il mini-market. O viceversa. La aspetto per un po’, okay?». Erin fece per rispondere, ma Walker aveva attaccato.

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