VI - Gabbiana Sensibile
Il lunedì seguente, Allyson aspettò Sara a scuola, impensierita perché non la vedeva arrivare. La professoressa di biologia giunse in classe con la solita maniacale puntualità e, appena la campanella suonò, iniziò l’appello.
“Rossini?” chiamò dopo aver scorso i nomi fino a quel punto.
Nessuno rispose.
“Guglielmi, sai qualcosa di Sara?”
Allyson scosse la testa, guardando il banco vuoto al suo fianco.
“Strano, è la sua prima assenza quest’anno” commentò la professoressa.
Anche Allyson si stava chiedendo dove fosse finita. Il giorno prima, non vedendola a messa, aveva pensato che si fosse concessa di dormire più a lungo e aveva provato a chiamarla nel pomeriggio, per raccontarle della sorpresa della moto. Preoccupata, le aveva mandato anche vari messaggi, ma Sara non aveva risposto.
Sara scese dall’autobus in pieno centro, sotto le Due Torri, guardandosi attorno con circospezione, come se qualcuno potesse scoprirla. A quell’ora passavano frotte di studenti universitari, lavoratori e anziane signore a passeggio, ma nessuno la degnava della minima considerazione, a parte qualche venditore ambulante e qualche spacciatore di volantini. Non era abituata a fare fuga da scuola, ma non ce la faceva più a rimanere sospesa con se stessa. Aveva bisogno di un tempo tutto per sé, per capire. Doveva… scegliere?!
Prese un caffè in un bar per dare una parvenza di normalità alla situazione, infilò le cuffie dell’iPod nelle orecchie e si inoltrò nel labirinto delle vie del Quadrilatero, la zona del vecchio mercato di Bologna, dove si trovavano ancora tantissimi negozietti tra i più affollati della città.
Gabbiana, rondine o colomba… Qualsiasi cosa pur di volare via! Planare sui flutti e dominare i venti. Non rimanere ingabbiata in questo reticolo di strade e di persone. Fuggire dall’inverno e fermarsi a primavera, quando la vita è possibile. Io…
Voglio una vita possibile. Voglio essere libera come una farfalla, volare sbattendo le ali sopra i fiori e i colori. Attingere al nettare dell’amore. Perché non potrei farlo? Davvero non è possibile?
Voglio sentirmi vera.
La frutta gialla e rossa. Il profumo delle spezie. La verdura colorata. L’odore stantio dei prosciutti e dei formaggi, questa puzza di pesce che mi nausea e quel frate mendicante, che è sempre lì a quell’incrocio. Ma dove vivo? Dove viviamo tutti?
“Quanto viene quel cocomero?” “Come sta sua figlia, signora?” “Questo è ottimo, è arrivato proprio stamattina...”
Che carini quei vecchietti: lui le prende la spesa e lei gli tiene la mano… Che dolci! Sembra che tutta la loro vita si racchiuda in questo rito di procurarsi il cibo, tenersi per mano, aspettare che passi il tempo insieme.
E io?
Chi ci sarà a trascorrere il tempo con me?
Che bella questa bimba nel passeggino! Avrò mai una bimba io? E quei due? Anche loro si tengono per mano… sono… due maschi!
Vagò ancora a lungo per le vie del centro, solo con l’obiettivo di fare venire fuori tutti i pensieri; si trovò a camminare lungo la zona universitaria di via Zamboni, osservando con invidia bruciante, e un po’ in soggezione, tutti quei ragazzi più grandi che le sembravano più emancipati e sereni di lei. Poi tornò a passare sotto le Due Torri e si diresse verso Piazza Maggiore, passando accanto alle persone e cercando di decifrarne la vita, quando vide due ragazze sotto la loggia di Palazzo Re Enzo. Una indossava pantaloni larghi, aveva le Camper ai piedi e teneva lo sguardo basso, sembrava arrabbiata. L’altra portava una canottiera chiara e dei jeans scoloriti, allungando la mano cercava di sollevare il volto della sua amica e di guardarla negli occhi.
Cosa fanno queste due? Hanno litigato… lei… lei le sta dando dei baci… sta cercando le sue labbra… parlano fitto, sembrano due… due… fidanzati. Si baciano! Sono matte? Però sono tenere…
Nessuno le sta guardando.
Passano affrettati, preoccupati solo delle loro cose.
Io però le ho viste.
Sono due donne e sono belle. Quindi… è possibile?
È possibile?!
Dalla volta sotto la loggia, Sara si spinse fuori verso la maestosa facciata della chiesa di San Petronio e si lasciò inondare dal sole che batteva a picco. Allora, come se la forza di gravità fosse improvvisamente cambiata, si sentì leggera, rovesciò la testa al cielo e cominciò a roteare con le braccia aperte al centro della piazza.
Quella sera stessa, però, tutto quel senso di liberazione le sembrò già smarrito. Più si avvicinava l’appuntamento con Allyson, più si persuadeva, in realtà, di non poterlo affrontare. Eppure aveva bisogno di non sentirsi sola e si era convinta che lei avrebbe potuto… aiutarla… forse...
Andava avanti e indietro guardando fuori dalla finestra e il cellulare a intervalli di una manciata di secondi, nella convinzione irrazionale che questo potesse affrettare l’arrivo della sua amica. Allo stesso tempo, sperava che tardasse ancora. Le sue preoccupazioni si fondevano e si mischiavano, dando origine a un amalgama informe di parole, immagini, frasi ed emozioni indefinibili, ma soprattutto non governabili. La sorpresa che ebbe nel vederla arrivare, però, interruppe bruscamente tutti i timori. Era sicura che fosse lei, sebbene irriconoscibile con il casco indosso, in sella alla moto nuova.
Allyson spense il motore e, dopo averla salutata calorosamente, porse a Sara il casco di riserva, dicendole che le avrebbe mostrato per bene “quel ferro” subito dopo, con calma.
Sara indossò la borsa a tracolla e salì con una certa trepidazione, cingendo Allyson in vita; la strinse non solo per tenersi, ma soprattutto per proteggersi, al punto che se non fosse stato per il casco, avrebbe poggiato la propria guancia sulla schiena dell’amica. Non si proteggeva dalla velocità, o dalla paura, ma da tutto ciò che la circondava, guardando come naufraga la loro immagine nel riflesso delle vetrine.
La moto era il simbolo della loro vita: le teneva unite, stavano facendo lo stesso viaggio, erano alleate, erano belle insieme e vicine erano forti. Allyson era certamente più sicura ed era giusto che fosse lei a fare strada; Sara, dal canto suo, le avrebbe sempre guardato le spalle. Allyson era per lei un rifugio e uno scudo contro quel mondo dal quale, ora più che mai, avrebbe voluto volare via; in cambio, Sara l’avrebbe sempre protetta, con la sua stessa vita.
Allyson parcheggiò la moto davanti alla baracchina dei gelati dove andavano sempre, vicino al tavolo più isolato. Sapeva che Sara voleva parlarle di questioni importanti, anche se non aveva idea di cosa, ma non voleva lasciare incustodito il suo nuovo gioiello.
“Allora che te ne pare?”
“È bellissima, Ally, strabiliante! Chissà quanto è costata!”
“Infatti... è proprio un super regalo! E il colore ti piace?”
“È stupenda!”
“Vuoi fare un giro tu?” disse Allyson porgendole le chiavi.
“No no, per carità! Non vorrei fare dei danni... Non è proprio il caso!”
“Va bene… un giorno allora andiamo a tirare! E adesso il nostro gelato… fa un caldo!”
Presero entrambe un cono abbondante, si sistemarono al tavolino ai margini del gazebo, e iniziarono a parlare del più e del meno. Il gelato finì subito e non era stato per niente utile a cominciare il discorso.
“Una birra?” chiese Sara, nervosa.
“Per me acqua” disse Allyson “vorrei evitare il ritiro della patente più veloce della storia!”
“Vado io” disse Sara di scatto, accennando un sorriso tirato.
Allyson la osservò chiedendosi ancora che cosa la preoccupasse così tanto e decise di passare all’attacco, ma non ce ne fu bisogno. Quando Sara tornò con la birra e l’acqua, fu lei stessa ad andare diretta al punto: “Ally, io ho bisogno del tuo aiuto” le disse gravemente.
“Certo… per cosa?”
“Però mi devi promettere che non mi prenderai in giro...” Si rabbuiò, come chi vede nel futuro imminente il più triste degli epiloghi.
“Non mi permetterei mai...”
“...e che non riderai, non te ne andrai, non sparirai e mi starai vicina.”
“Ehi, Sara, sono qui. Sei la mia migliore amica! Dove vuoi che vada? Puoi dirmi tutto, ok?”
“Ok” disse Sara, guardandosi in giro. Poi chinò la testa, imbarazzata. “Non so nemmeno da dove cominciare.”
“Inizia da dove vuoi.” Per provare a sdrammatizzare, sapendo che Sara non aveva un ragazzo e pensando di conoscerla abbastanza, mischiò la più grande dolcezza a una sfumatura della voce appena scherzosa: “Per esempio: sei incinta?”
L’effetto riuscì. Sara sorrise, lievemente. “No. Decisamente. Questo almeno no...”
“Beh, dai, il peggio è passato… A meno che non hai un brutto male...”
“No, fortunatamente neanche quello!”
“Grande! Vedi! Due a zero per Sara. Allora non c’è niente di irrimediabile. Ne ero certa, ovviamente!”
“Infatti. Non è questo il problema. Il punto è, Ally, che a me... non piacciono i ragazzi.” Guardò il tavolino, fissò la terra e, se possibile, sarebbe scesa all’inferno, pur di non vedere gli occhi della sua amica, il volto che cercava di trattenere lo stupore, l’irrigidirsi della postura. “Più precisamente, non mi piacciono i maschi” disse infine sputando fuori ogni residuo dei suoi più oscuri timori. Per un istante, lo sforzo emotivo le provocò un senso di nausea e percepì, improvvisamente, di essere svuotata di ogni energia. Non si era mai sentita più vera e più libera, ma non riusciva ad alzare lo sguardo. Temeva di scoprire nel viso dell’amica la faccia del nemico, il muro della distanza, lo spettro del rifiuto.
Per quanto Allyson avesse provato a dominare ogni fibra del suo essere dopo quella rivelazione, ebbe esattamente tutte le reazioni che Sara si sarebbe aspettata, eccetto il rifiuto e il distacco. Fu sorpresa, paralizzata, emozionata, confusa e stupita. Ma mai, nemmeno per un attimo, ci fu in lei una parvenza di giudizio. Fortuna che non mi sta guardando... Aveva poco tempo. Ogni istante che passava senza una reazione avrebbe aperto sempre di più l’abisso nel cuore e nella mente di Sara. Trovandosi incapace a ordinare le emozioni e totalmente inesperta ad affrontare l’argomento, scelse di agire sul corpo. Si allungò sul tavolino, prese la mano di Sara e la accarezzò nel modo più rassicurante che poté.
“Ehi, Sara, stai tremando...”
Il contatto con Allyson fu per Sara il primo istante di una nuova vita, la scintilla della creazione. Asciugandosi gli occhi con un tovagliolino del bar, cominciò a focalizzare di nuovo il mondo che la circondava. Era ancora tutto lì: le persone sedute ai tavoli, gli alberi sul limitare del parco, le macchine parcheggiate, le strade, le case, il cielo e soprattutto Ally. Era rimasta seduta di fronte a lei, nonostante tutto, e il contatto con la sua mano non era venuto meno.
Allyson, in realtà, aveva compiuto quel gesto con le migliori intenzioni, ma in emergenza, senza pensarci troppo e certamente senza avere in mente che cosa potesse significare. Ora stava solo cercando di capire quale fosse la seconda mossa da fare, cosa dire ancora per tranquillizzare Sara nel modo più efficace possibile. Tutto il resto sarebbe venuto dopo. Provvidenzialmente, fu Sara a venirle in aiuto: “Quindi non ti faccio schifo?”
Allyson la conosceva dall’inizio delle medie e riteneva di sapere tutto di lei ma, mentre diceva quelle parole, capì che non aveva mai visto realmente dietro quegli occhi marroni bellissimi, brillanti come la corteccia degli alberi dopo un temporale. Avevano vissuto gomito a gomito quasi ogni giorno per sette anni, e ora si trovava davanti una persona con l’impressione di non averla mai conosciuta. Sara le stava chiedendo se non le facesse schifo. Si sentì quasi in colpa che potesse farle una domanda del genere: tutta la sua empatia sembrava svanita in un lampo e, amaramente, realizzò quanto è profonda la realtà dietro la tenda dell’apparenza. “Tesoro!” esclamò con voce affettuosissima “ma ti pare?!”
Si immaginò quanto avesse sofferto negli ultimi anni. Provò a calarsi nei panni di Sara in tutte quelle circostanze in cui aveva dovuto tenere nascosti sentimenti ed emozioni, alle volte in cui aveva magari finto, quando tutte loro parlavano di ragazzi, a quanti pensieri aveva dovuto spegnere e censurare. Sentì una rabbia bruciante dentro le viscere pensando ai momenti di vergogna che aveva dovuto provare a scuola, alle battute idiote, ai ragazzi che usano gay o lesbica come offesa. Le vennero in mente le discussioni agli scout sulle posizioni della Chiesa, e tutti i teorici che aveva sentito di ciò che è “buono e naturale”: come se fosse buono e naturale fare provare a una ragazza degli abissi del genere! Si perse, infine, a esplorare quanto doveva essere stato misterioso e doloroso diventarne cosciente, accettare questa consapevolezza, sentire che il suo cuore, il suo corpo, i suoi sentimenti e i suoi desideri funzionavano in un altro modo.
C’era stata una lunga pausa di silenzio fra loro due.
Sara stava semplicemente lasciando che la vita scorresse come prima, traendo conforto dal fatto che non era stata catapultata in un’altra dimensione. Voleva solo non smarrire quell’unica conferma che non tutto sarebbe andato perduto. Allyson capì che c’era un mondo sommerso che aveva bisogno di venire alla luce, un fiume carsico che cercava l’uscita, e seppe infine, con assoluta certezza, che cosa fare.
“Raccontami tutto” disse.
Sara le raccontò di quando, due anni prima, aveva sentito per la prima volta l’emozione degli innamorati per una ragazza che le piaceva; dopo era venuto il bisogno di chiarificazione, le notti insonni passate nelle ricerche su Internet, la paura – inizialmente – e poi la vergogna. Allyson propose di fare due passi, ma Sara si ricordò della moto e obiettò.
“La moto è meno importante di questo” rispose Allyson decisa. “Ha una buona catena, nessuno la ruberà.”
Passeggiarono a lungo nel parco adiacente alla baracchina dei gelati, così Sara ebbe molto tempo per riferire del dialogo con la psicologa dello sportello scolastico, poi con una del consultorio, dei momenti di frustrazione, delle pulsioni sessuali che non sapeva come ordinare e dei desideri impossibili da realizzare.
Il suo racconto giunse infine all’ultimo mese, alle parole di padre Michel durante la breve route di Pasqua, fino al suo perdersi come Biancaneve per le vie del centro e alla sua chiarificazione in Piazza Maggiore.
Allyson aveva pianificato di non dire una parola, di ascoltarla e basta con ogni fibra del suo essere, ma il monologo di Sara si trasformò presto in dialogo, fatto di confidenze reciproche, di parole di comprensione e di riflessioni condivise. Entrarono insieme in una dimensione di vita più vera e complessa di quella che avevano vissuto fino a quel momento. Percorrevano i sentieri illuminati di un parchetto di periferia, ma in realtà stavano attraversando il tempo della giovinezza. Quando ritornarono infine al punto di partenza era notte inoltrata, la baracchina dei gelati stava chiudendo e non c’era nessuno nelle vicinanze, se non un gruppetto di ragazzi in lontananza. Loro non erano più le stesse di prima. Erano improvvisamente diventate donne.
La temperatura era scesa notevolmente e il buio di primavera, che può essere sorprendentemente freddo, le colse impreparate. Entrambe indossarono un maglione di cotone che non le riscaldava abbastanza. Allyson salì sulla moto, per muoverla dal parcheggio e permettere a Sara di salire più agevolmente. Un autobus passò, come un vascello fantasma, senza avere scaricato o caricato nessuno alla fermata pochi metri più in là. Sara aspettava sulla strada, infilò la borsa a tracolla e mise il casco. In quel preciso istante, nascosto dall’autobus fino a un attimo prima, apparve un motorino con due persone, lanciato a tutta velocità, vicinissimo a loro.