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The Hollower (edizione italiana)

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Blurb

Qualcosa di alieno sta perseguitando gli abitanti di Lakehaven, nel New Jersey. Non può vederli, ascoltarli o toccarli, ma li conosce: le loro paure, le loro insicurezze e i loro segreti. Sa come distruggerli dall"interno. E non si fermerà fino a quando non saranno tutti morti. Dave Kohlar ha sempre pensato di essere un buono a nulla. Ma quando realizza che la sua sanità mentale, la sua vita e la sicurezza della sua famiglia e dei suoi amici sono in pericolo, dovrà cercare dentro di sé una forza che il suo avversario ultraterreno non può toccare: una forza in grado di salvarli tutti.

Nominato al Bram Stoker Award nel 2007 tra i migliori romanzi d’esordio.

Un orrore cosmico ottimamente costruito. (Kevin Lucia – autore di Things You Need e Devourer of Souls)

Se vi piacciono gli horror basati più su un orrore psicologico che su violenza o sangue, allora dovreste leggerlo assolutamente. (Worlds Without End)

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PROLOGO
PROLOGO Un uomo è in grado di sopportare fino a un certo punto. Max ne aveva abbastanza. Era colpa dell’insonnia, che era sempre stata lì (Non sono in­cubi se sei sveglio, Gladys, ma quelle parole peggioravano le cose e basta). Poi, dopo il primo anno, era scivolato di nuovo nella balbuzie. Aveva sempre avuto problemi di stomaco, di conseguenza l’ulcera non era stata una sorpresa. Ma il modo in cui le mani a volte tremavano, come quelle di un vecchio… era troppo giovane per avere mani che tremavano così, giusto? A quarantotto anni non era troppo presto per balbettare e tre­mare? A volte, quando si guardava allo specchio, non ne era così sicuro. Ma non quel giorno. Quel giorno, osservava il suo riflesso con approvazione. La faccia che lo osservava di rimando era più vecchia, sì, ma soddisfatta. Lo stesso tipo di contentezza che vedeva prima che Gladys lo lasciasse. Aveva un bell’aspetto, pensò. Be’, magari non proprio bel­lo, ma migliore. Una camicia elegante comprimeva la sua cor­poratura, e riusciva comunque a riempire la giacca stirata. I ca­pelli ramati spruzzati di grigio, accuratamente pettinati, gli co­privano buona parte della testa. Aveva accorciato barba e baffi. Le labbra erano un po’ secche e screpolate, ma era riuscito a togliersi la nervosa abitudine di leccarle di continuo. E cosa importava se aveva le borse sotto gli occhi? Avevano smesso di avere tic e brillavano del tipo di determinazione che non aveva provato dai suoi primi giorni con il gruppo. Un pizzico di colpa guizzò il tempo necessario affinché Max se ne accorgesse, poi si spense. Il gruppo. Gli sarebbe mancata quella stanzetta umida con la lampadina oscillante e le sedie pieghevoli che non si scaldavano mai. Sorrise a se stesso. Il ri­cordo dell’odore del caffè e dei biscotti Entenmann sul tavolo da gioco rimaneva, ancora fresco, nelle sue narici. Gli amici del gruppo erano gli unici a non averlo abbandona­to. Si chiese se avrebbero interpretato quella decisione come se lui stesse abbandonando loro. Non credeva, però. Comprende­vano ogni carta presente nel suo mazzo, una mano da perdente dopo l’altra: essere licenziato dopo aver lavorato per ventitré lunghi anni; i disturbi fisici che gli impedivano di dormire; Gladys che lo aveva lasciato l’autunno precedente; i venti che di notte facevano tintinnare gli scacciaspiriti con parole appe­na udibili; i conti da pagare. Il gruppo capiva cose del genere. Se fossero stati quelli i suoi unici problemi, avrebbe potuto provare un semplice conforto nell’empatia dei suoi amici del gruppo. Ma lo affliggeva un problema ben peggiore (Gladys, non sono realmente incubi, di per sé) e quello non lo avrebbero compreso. Be’, il dottor Stevens di sicuro non lo aveva fatto. Nessuno di loro ci era riuscito, tranne Sally Kohlar. E lei gli aveva assicurato che anche suo fratello capiva. Sapeva della cosa senza volto che lo perseguitava in ogni aspetto della sua vita. E non poteva sopportare l’idea di affrontarla di nuovo. Neanche una sola volta. Nessuno che capisse, nessuno che sa­pesse… avrebbe potuto fargliene una colpa. La cravatta blu con il nero motivo a S era la preferita di Gla­dys. La legò con cura, lisciandosela sul petto. Si sentiva calmo. Erano anni che non si sentiva così calmo. Quella mattina era addirittura riuscito a ritrovare un po’ di ap­petito e si era preparato un piatto dannatamente buono di pan­cetta e uova. Dopo il video, era come se l’albatro che aveva intorno al col­lo fosse stato rimosso e la gravità si fosse dissolta nel cosmo. Era solo con i suoi pensieri, e sollevato per il fatto di poter ri­trovare quella calma di nuovo. I membri del gruppo si materializzarono ancora una volta nella sua mente, ma questa volta non seguì alcun senso di col­pa. Le loro bocche si muovevano senza emettere suoni e gli stavano offrendo sorrisi incoraggianti. Stavano facendo il tifo per lui, urlando la loro approvazione. Loro sapevano, capiva­no… tutti quanti. Aveva lucidato il fucile la sera prima. Ora, vestito di tutto punto, si sedette sul bordo del letto, di colpo intimidito. Si sen­tiva come se avesse avuto di nuovo quindici anni e stesse cer­cando di abbracciare una ragazza. Il fucile non protestò quando lo prese tra le mani. Il metallo gli dava una bella sensazione: fresco, liscio, come pelle in una gelida notte di primavera. La sua vecchia ragazza. Con movimenti lenti e deliberati aprì il cassetto del comodi­no, tirò fuori la scatola di cartucce calibro 20 e caricò l’arma. Estrasse la lettera per Gladys dalla tasca della camicia con un gesto plateale mirato a piacere a nessuno se non a se stesso, e la appoggiò con cura alla base della lampada sul comodino. Poi avvolse le labbra attorno al fucile (sapore metallico, si­mile al sangue, ma freddo) e fu sorpreso di quanto gli sembras­se naturale. Si era aspettato di non riuscirci, che in qualche modo fosse troppo grande. Ma le labbra della sua vecchia ra­gazza erano lisce e la canna scivolò agilmente dentro di lui. Il telefono lo strappò alle sue fantasticherie e il dito si con­trasse sul grilletto. Il suo cuore cambiò improvvisamente le marce e batté a triplo tempo contro l’acuto trillo dell’apparec­chio. Max aspettò, contando gli squilli, gli occhi chiusi e la lin­gua ad assaporare il metallo acido che premeva contro di essa. Tre, quattro, cinque… il telefono si bloccò dopo undici squilli. Undici squilli e poi un’ondata di quiete capace di smor­zare anche l’allegro gorgheggio degli uccelli all’esterno. D’istinto spostò gli occhi sulla finestra della parete sinistra. Le cime scure degli alberi coprivano la metà inferiore del cielo proprio sopra il davanzale. Sbuffi di gas di scarico si allunga­vano piacevolmente intorno a esse. Dal suo posto sul materas­so, Max non riusciva a vedere la strada. Non ce n’era bisogno. Sapeva che lui lo stava guardando, in attesa, un pallido ovale di inesistenza inclinato interrogativamente da un lato e verso l’alto, in direzione della camera da letto. Neanche una sola volta. Era il momento. Ci volle poca pressione per premere il grilletto. Era quasi come se un altro dito spingesse contro il suo, guidandolo. Se Gladys o chiunque altro fossero stati ancora in casa, avrebbero potuto udire una risatina secca e il suono sordo di passi che echeggiavano nella strada sottostante, seguiti dal morbido cigolio della porta d’ingresso che si apriva.

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