Claudio Balostro

1899 Words
Claudio Balostro Gentiluomo 1. Premessa. Ad uso d’una migliore comprensione Non credo d’essere un tipo all’antica. Voglio dire: niente per aspetto, modo di vestire o di esprimermi, insomma per atteggiamenti esteriori, mi distingue, credo, da qualunque altro maschio adulto di questa nostra promiscua epoca. Forse non sono più un ragazzino, ma conservo una certa implicita giovinezza matura e un fisico coltivato a sport e dissolutezze che mi consente, per un destino benevolo che non finirò mai di ringraziare, di piacere a donne assai più giovani di me. Mi permetto questo piccolo inciso presuntuoso, un po’ perché non ci conosciamo e spero vorrete tenerlo per voi, e molto perché possiate comprendere fino in fondo quello che sto per raccontarvi. Insomma, non mi considero un tipo all’antica. Eppure mi picco d’essere un gentiluomo, se vogliamo dare a questo termine non il significato d’appartenenza a una classe sociale di parassiti inguantati, ma il senso più alto d’un nobile atteggiamento verso gli accadimenti del mondo, verso le altre persone e in special modo le donne. Badate, questo non implica di per sé l’adesione a un retrivo paradigma morale, e meno che mai per quanto riguarda il sesso. Voglio dire, un gentiluomo, come lo immagino io, non è chiamato ad astenersi dalle più oscure perversioni, soltanto, quando decide di parteciparvi, deve farlo da gentiluomo. Il modo è il merito. Potrei fornire alcuni fantasiosi esempi, che incuriosirebbero i lettori più candidi e parrebbero forse stucchevoli a quelli più navigati, ma ancora non ho terminato questo pur necessario preambolo, e ogni racconto ha un suo limite destinatogli dalla propria intensità. Ancora non vi ho detto, infatti, che la mia prima maturità è stata segnata dalle interminabili discussioni con le mie amiche, ultimo baluardo resistente dopo il riflusso mondiale del femminismo. È una buona esperienza, avere delle amiche femministe. Lo dico senza ironia (perlomeno, senza quella non strettamente necessaria). Credo d’aver riflettuto su questioni importanti e profonde, e non escludo d’aver persino imparato qualcosa. Per dirla in estrema sintesi, ho vissuto a lungo felicemente, lieto d’essere un lussurioso gentiluomo femminista. Ma nella vita accadono talvolta cose, anche piccole e apparentemente insignificanti, che hanno il potere di farti ripensare agli schemi che ormai davi per scontati. 2. Sensualità d’un convoglio Il treno partiva da Brescia all’1.48 di una notte gelida. Tornavo a casa, dopo un insulso impegno che ora neppure ricordo. La stazione era deserta, trafitta di luci troppo chiare per il buio incombente. Nessuno sul marciapiede, nessun altro disperato nel luce-ombra. Accesi una sigaretta, confidando nel calore rassicurante della brace e del fumo. L’altoparlante gracchiò l’imminente arrivo dell’Intercity 426 proveniente da Venezia Santa Lucia e diretto a Genova Brignole. Casa. La voce registrata era metallica, intermittente, assurdamente asettica. Mi avrebbe fatto piacere, in fondo, ascoltare il tono stanco e annoiato, ma umano, d’un ferroviere assonnato. Sbucò finalmente la sagoma nera del treno dal grigio d’una indecisa foschia. Si fermò, per me solo, nel notturno marciapiede deserto, in uno stridio di freni da Ottocento. S’aprirono le porte, forse dalla carrozza di testa scese la sagoma scura del capotreno. Nel corridoio della carrozza 5 le luci erano basse, i compartimenti chiusi come talami discreti. E anche qui, nessuno. Neppure una voce. Aprii la porta d’un compartimento a caso, il secondo, o forse il terzo. Sì, il terzo. Credo fosse il terzo. Dentro tutto era buio, sospeso. Attraverso le tendine abbassate penetrava qualche lama di luce dai fari della stazione, per perdersi nello spessore di tenebra dell’interno. Rimasi un attimo fermo, aspettando che i miei occhi si abituassero all’oscurità, con quella miracolosa capacità animale che consente loro di vedere ciò che prima era invisibile. Immobile, sentii la ferma, tiepida densità dell’aria, e un profumo sottile ma diffuso, un sentore di macchia e di fiori selvatici, di una aspra dolcezza femminea. Immobile, ascoltai il lieve rantolo d’un sonno di donna. Intanto, le ombre incominciavano a definirsi al mio sguardo. Ebbi un attimo di curioso stupore, perché tutti i sedili erano variamente ingombri di valige, bagagli o vestiti, salvo uno strano fagotto che si trovava nel posto accanto al finestrino. “Dove siamo?” chiese una voce femminile, morbida eppure sensualmente arrochita dal sonno. Ma non attese una mia risposta, perché il fagotto si srotolò in una forma flessuosa di donna, e un braccio sollevò per un solo attimo la tendina che oscurava la finestra. Un lampo di luce, uno solo, illuminò per un attimo due occhi verdi, sottili, deliziosamente felini. “Brescia” disse, rispondendosi da sola. “siamo ancora lontani”. Poi, finalmente accorgendosi della mia presenza, in un soffio musicale: “Deve scusarmi, ho ingombrato tutto con i miei bagagli. Le dispiace sedersi accanto a me? Io non occupo molto posto”. Non mi dispiaceva. “Ho sonno” disse, “e c’è tempo prima dell’alba”. Si acciambellò dolcemente nell’angolo verso la parete, con una lenta morbidezza, e nell’ombra pareva un gatto, o meglio un giovane puma, nella languida beatitudine del riposo. Sedetti nello spazio rimasto libero accanto a lei, cercando d’assumere un’aria il più possibile rilassata e naturale. Si udirono le porte del treno chiudersi, un fischio nel silenzio, poi il convoglio prese un lento abbrivio uscendo dalla stazione, verso la notte assoluta. Stavo fermo, la testa appoggiata, composto, gli occhi ora chiusi, ora aperti a una uguale eppure diversa oscurità, cercando di intravedere la forma circolarmente languida accanto a me. Respiravo, sempre più denso e sempre più avvolgente, quel profumo che cominciavo a trovare d’una sensualità torrida. Era la situazione ideale per le mie ambizioni di gentiluomo. Perché il gentiluomo, come un sincero uomo di Dio, non s’accontenta della correttezza dell’agire. No, egli ricerca, combattendo i propri mostri interiori, se non un’impossibile assenza di tentazioni, perlomeno una nobile purezza di intenzioni. Così, se era inevitabile essere avvolto in quest’aura di femminile tentazione, e se era, d’altro canto, ovvio che mai avrei tentato qualche goffo o volgare approccio, ecco che la mia parte femminista di gentiluomo mi costrinse a chiedermi se, oggettivamente, nutrissi un qualche interesse per quell’essere non come possessore di un conturbante corpo con annesso profumo, ma semplicemente come persona. Diciamo, per capirci, se avevo o meno interesse a conoscere il di lei parere sulla ciclicità della storia. Oggettivamente, non ne avevo. La risposta era encomiabilmente sincera, ma poneva un grosso limite etico alla concretizzazione di alcuni possibili e auspicabili sviluppi che avevo colpevolmente immaginato nel buio dondolio del treno. Seguendo il filo complesso del ragionamento, me ne uscii con una frase che doveva per forza suonare illogica alla mia sconosciuta vicina. “Stia tranquilla, può dormire serena. Buonanotte”. La vidi nel buio alzare un poco la testa, e un lampo di luce che entrò per un attimo fuggevole attraverso il finestrino, mi consentì di intravedere un sorriso, un tenero candore di denti. “Però sei un tipo carino” disse. “Buonanotte anche a te”. Trovai corretto non aggiungere altro, non provare ad attaccare un qualche discorso vacuo con un fine insincero. 3. Inquieta immobilità Trascorsero due ore tra tentazioni e purezze, mentre il treno avanzava con una marcia diseguale nelle campagne deserte, fischiando ogni tanto nelle stazioni abbandonate alla nebbia, periodo nel quale alternativamente passai da una frustrante lucidità a uno stato di torbido dormiveglia. Mi assopivo di tanto in tanto, abbandonandomi a sogni, o quasi sogni, dai quali d’improvviso mi sradicava la mia coscienza gentilonesca. Non so se credete ai miracoli, al destino, alle congiunzioni astrali o a qualcosa del genere. Ma qualcosa di strano stava accadendo. Perché neppure a Milano Centrale entrò qualcuno nel compartimento, a reclamare un posto e a rovinare un’aria magica. Nessuno, neppure il fantasma di un conduttore. Lei continuava a dormire, con un respiro regolare, lento, che sollevava i contorni del suo corpo nel buio. Solo quando la carrozza venne sballottata nella manovra d’aggancio ebbe un gemito, e alzandosi un poco dalla sua tana sollevò un lembo della tendina. Così potei intravedere il suo viso, che mi parve dolce e regolare, e notai che indossava una specie di tuta intera, nera, morbida, che le consentiva di essere buio nel buio, morbido nel morbido. “Siamo ancora a Milano!” disse, e riabbassò la tendina. Poi, felinamente stiracchiandosi: “Sto scomoda” disse, “ti dispiace se mi appoggio a te?”. Non mi dispiaceva affatto. Il treno uscì rollando dagli scambi della stazione, e si gettò verso il sud. Io, seduto diritto e composto, sentivo la sua testa appoggiata alla mia spalla e la vicinanza eccessiva del suo corpo dal profumo notturno. Passai mezz’ora di tormentata beatitudine. A Pavia, come continuando a dormire, si lasciò scivolare lungo il mio petto, e posò la testa sulla mia coscia. Appoggiò una mano, con noncuranza, sul mio ginocchio, come una continuata, distratta carezza. Sentivo il contatto ormai intimo con il suo corpo, e il calore della sua guancia e della sua mano. Le luci della stazione illuminarono una ciocca di capelli chiari che le ricadeva in disordine sul viso. Ebbi, fortissima, la sensazione di sistemarla, carezzevolmente. Ma rimasi immobile, per via della circolarità della storia e di tutto il resto. È nell’affrontare gli ostacoli più impervi che emergono le vere qualità e le profonde convinzioni. 4. Folgorazione Passarono i minuti, con una lentezza ferroviaria; il treno arrotò chilometri su chilometri, fino a imboccare la galleria dei Giovi, verso casa. Ci saremmo lasciati alle spalle le nebbie della pianura, il buio della notte, i turbamenti dei sogni. Ero esausto. Quando già avevamo oltrepassato le ultime coste dei bricchi, la mia compagna si sollevò, con un sospiro di soddisfazione, come si alzasse dal più morbido dei letti, e aprì del tutto la tenda all’alba che stava arrivando. Ora, finalmente, era in luce e potei vederla bene: la sua bellezza mi parve dolorosa. “Ora” disse, “siamo quasi arrivati. È stato un bel viaggio. Per favore, vuoi aiutarmi con i bottoni?”. E così dicendo si alzò, con un gesto di allegria, e si pose di fronte a me, subito voltandosi con consapevole noncuranza. La tuta era completamente sbottonata e lasciava scoperta e nuda una schiena flessuosa e ben modellata. Il bianco della sua pelle spiccava assoluto nel contrasto con il nero della stoffa. In basso, dove la linea della colonna s’incurvava dolcemente verso la pienezza intravista delle natiche, due fossette deliziosamente insopportabili segnavano un limite e un confine. Alzai le mani, lentamente, verso i primi bottoni, quelli più vicini all’abisso e alla perdizione. Ma quelle, come se avessero una loro propria volontà, continuarono il movimento, più su, più avanti, fino a fermarsi nel gesto d’una carezza sensuale a pochi millimetri dalla pelle di lei. Non so dire quanto sia durato quel gesto immobile. Forse pochi impercettibili istanti, forse molto, molto di più. Non so se lei si sia accorta di questa sospensione del tempo e del desiderio. Quello che è certo è che non disse nulla, non si mosse. Aspettò. Fu una grande lotta. Ma alla fine le mie dita, gentili ma corrette, afferrarono i bottoni più in basso, quelli più vicini all’abisso e alla perdizione, e li chiusero in un gesto tranquillo, come non ne avessero neppure un rimpianto. 5. Triste epilogo Il treno si avvicinava a Genova; si cominciava a vedere il mare e i traghetti della Tirrenia nel porto indolente del primo mattino. “Scendo a Principe” disse. “Grazie della compagnia”. E sorrideva d’un sorriso che non sapevo se dolce o beffardo. “Anch’io scendo qui” mentii. La aiutai a trasportare il suo disordinato bagaglio fino ai taxi di piazza Acquaverde. Solo qui compresi che non potevo lasciare che se ne andasse così. “Aspetta” supplicai. “Andiamo insieme a fare colazione. Vorrei parlare un po’ con te”. Ero sicuro che prima della fine del cappuccino avrei saputo tutto della sua opinione sulle teorie vichiane. “No” rispose, sempre con quel sorriso che ancora mi tormenta. “Ora è tardi”. “Aspetta” supplicai. “Dimmi come ti chiami, dove abiti”. “Non importa” disse lei. “È stato solo un bel viaggio”. “Dimmi se prenderai qualche altra volta questo treno”. “No. Ci sono treni che passano una volta soltanto”. E salì sul taxi, sorridendo. P.S. L’ho detto, ci sono cose che hanno il potere di farti ripensare agli schemi che ormai davi per scontati.
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