Il videoterminale

639 Words
Il videoterminale Dopo cena ero solito bere una tisana per rilassare corpo e mente; una doccia calda e un pigiama pulito mi aiutavano a ritrovare me stesso dopo la confusione del giorno, e finalmente accendevo il mio computer. Attivavo, a quel punto, anche il terminale che proiettava le immagini dal cancello principale, attraverso un sistema di videosorveglianza a circuito chiuso - bastano quindici pollici, ed il mondo dei morti è sotto la mia protezione - sdrammatizzavo, un po’ per sciogliere quel sottile senso di disagio che a forza s’imponeva sulla mia tranquillità. Scrivevo, sorseggiavo la tisana, guardavo il videoterminale: così passavo le mie serate ad eccezione dell’unica sera libera che avevo ogni settimana in cui prendevo la macchina e raggiungevo gli amici in città. L’immagine da controllare era una specie di fotografia, sempre la stessa, e l’inquadratura della telecamera riprendeva sia parte del cortile d’ingresso, sia del cimitero; essendo essa stessa piazzata proprio sopra al cancello: In questo modo avrei potuto scorgere tentativi d’invasione dall’esterno, ma anche fughe dall’interno, qualora mi fosse sfuggito l’ingresso di qualche malintenzionato. Il mio compito era di restare sveglio fino alla mezzanotte; dopodiché dovevo inserire il sistema di allarme in modo da poter andare a dormire. In realtà, inserivo subito l’allarme, perché spesso mi addormentavo prima della mezzanotte; tutti sapevano che funziona così: nessuno venne mai a controllarmi dopo le 22.00 o reclamare ore di lavoro non svolte con zelo. - ... quando le dissi addio, i nostri volti assunsero la medesima espressione malinconica... – No, accidenti, suona malissimo, dunque vediamo. - decisi di dirle addio, ma la mia espressione la colpì più delle mie parole – Banale! Questa va proprio cambiata. - le dicevo addio, e già la medesima, triste espressione, ci regalava quello che sarebbe rimasto l’ultimo ricordo dei nostri volti, per molto, molto tempo a venire – Ecco, ci siamo, questa va meglio. Mi stiravo la schiena mugugnando di dolore, mi sfregavo gli occhi con le mani e capivo che avevo bisogno di un momento di pausa. Quel romanzo non mi piaceva per nulla, ma non sapevo più come uscirne: quando scrivo, mi sento padre delle mie creazioni quindi, anche se improvvisamente mi paiono terribili o banali, difficilmente riesco ad eliminarle così vado sempre fino in fondo, per poi magari archiviare l’intera opera. Accesa la radio, mi mettevo a guardare l’immagine inviata dalla telecamera al piccolo schermo che avevo posato sul tavolo della cucina. Ogni tanto vedevo passare qualche animale, piccoli topolini di campagna che correvano velocemente da una parte del marciapiede all’altra, accostandosi al cancello per la sua lunghezza. Devo ammettere che tifavo per loro, perché, talvolta, qualche gatto randagio sbucava fuori dal nulla e interrompeva piuttosto violentemente quella frenetica traversata: a volte il topolino di turno spariva fra le sbarre del cancello, entrando di colpo nel cimitero per poi dileguarsi chissà dove, lasciando il gatto a interrogarsi con quei movimenti tipici dei felini, fatti di piccoli scatti del muso e delle orecchie; a volte, il gatto aveva la meglio sulla sua preda e restava per diversi minuti fermo tenendola fra le zampe. Dopo un po’ il topo provava a muoversi e il gatto stringeva la sua morsa; capitava che il felino aprisse le zampe per guardare immobile la povera vittima, immobile anch’essa. «Dai uccidilo, cosa aspetti? Che razza di sadismo!» brontolavo, vedendo quel topo vivo, ma terrorizzato, che appena provava a muoversi subiva le zampate giocose e terribili del suo carnefice. Il resto era assoluta noia. Non si muoveva nulla. Nessuna macchina parcheggiava nei pressi del cimitero, nessun passante rompeva la routine, niente. A volte qualche pipistrello si attaccava all’obiettivo della telecamera, scambiandone probabilmente il braccio meccanico di supporto per il ramo di un albero e, il più delle volte, mi toccava aprire la finestra del soggiorno che dava sul cancello, per cacciarlo con una lunga scopa di saggina.
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