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In cattività: la seduzione del male

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Jillian Clarke era una detective dell’NYPD, la polizia di New York, ma è stata retrocessa e ora è di nuovo semplicemente “l’agente Clarke”. Il suo capitano, però, non crede nell’utilità della retrocessione e le assegna un compito particolare: fare da collegamento con un criminale agli arresti domiciliari che sta aiutando il dipartimento con un’indagine ad alto rischio, quella conseguente all’evasione di un serial killer. Ma mentre le vittime del serial killer si moltiplicano, Jillian inizierà a provare un’inopportuna attrazione per l’uomo in cattività che li sta aiutando a rintracciarlo...

-

"Jillian lasciò la borsa sul carrello portavivande. Si sfilò la giacca, posandola sulla poltrona. Lo sguardo di Raven era incuriosito, nient’altro. Jillian si liberò anche del maglione leggero e della t-shirt che portava sotto, restando a seno nudo. Scoprì che il modo in cui la guardava la metteva a disagio. Si voltò e posò i palmi delle mani contro una parete, come durante una perquisizione.

«Ora puoi... farlo» sussurrò. «Ma non mi guardare in faccia. Non... ancora».

Lo sentì avvicinarsi. Percepì il suo corpo, dietro di sé. Poi le sue mani, direttamente sui seni, che li sfioravano delicatamente.

«Oh, Dio» mormorò lui. Le sue labbra si posarono sul collo di Jillian, mentre le sue mani le accarezzavano i capezzoli in punta di dita. Poi sentì la sua lingua. Le dita di lui scivolarono verso il basso, fino al bottone dei jeans di Jillian. «Posso...?» chiese.

Lei annuì."

CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

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1.
1. Venendo dal New Jersey non era molto esperta della topografia di New York. Per questo, anche se lavorava lì da vari anni e tutti sostenevano che perdersi in una città fatta a reticolo fosse impossibile, continuava a usare parecchio il navigatore del cellulare. Lo tirò fuori e controllò di essere sulla strada giusta. Central Park era alla sua destra e il grosso palazzo dall’aria aristocratica che aveva alla sinistra doveva essere quello di Andrew Raven. Anche l’orario era giusto: le tre del pomeriggio. Jillian mise via il telefono e iniziò a cercare il nome sulla pulsantiera. Raven non c’era. Controllò di nuovo l’indirizzo e il numero sopra al portone, ma il posto era proprio quello. Si grattò la nuca. Tornò a guardare la pulsantiera. Forse sul campanello c’era il cognome della moglie, pensò, o forse di un coinquilino, o chissà. Jillian non sapeva praticamente niente di Andrew Raven, a parte che era un “vecchio amico” del Capitano Drummond. E, be’... naturalmente sapeva del suo problema. Se lo immaginava più agghiacciante di lui anche se forse su questo si sbagliava. Era impossibile essere più agghiaccianti di Drummond. Probabilmente aveva una raggiera di capelli unticci attorno alla testa, indossava solo vecchi pullover sformati e aveva un occhio di vetro. Ma non lo avrebbe mai saputo se prima non lo avesse trovato. Sulla pulsantiera non c’era niente che fosse di aiuto. Solo cognomi su targhette tutte uguali, scritti al computer in un carattere elegante e racchiusi da una lastra di ottone. Nessun indizio. Forse, alla fine, il palazzo non era neanche quello. O forse il cognome non era sulla pulsantiera per via del... problema di Raven. Jillian si fece coraggio ed entrò nel portone. Dall’aspetto il palazzo le era sembrato uno di quelli con portiere, e non si era sbagliata. In una specie di garitta verniciata di verde scuro stava un esemplare in perfetto stato di conservazione di un portiere degli anni venti. L’uomo, che indossava tanto di cappellino e divisa, le rivolse uno sguardo interrogativo educatamente raggelante. «Ehm… avrei un appuntamento con il signor Raven» disse lei, sottovoce. Il portinaio fece un piccolo cenno di assenso e sollevò la cornetta del vecchio telefono d’ottone che aveva a fianco. «Signor Raven? C’è qui una signorina che sostiene di avere un appuntamento con lei». A Jillian non sfuggì il sostiene, ma finse di ignorarlo. «Sì, signore» concluse il portinaio, e abbassò la cornetta. «Scala B, sesto piano» disse l’uomo, non proprio rivolto a lei, ma più all’aria che la circondava. «Può usare l’ascensore in fondo all’atrio». Jillian ringraziò sottovoce e si avviò da quella parte. Iniziava a sospettare che avrebbe dovuto vestirsi in modo più appropriato. Tutto sembrava così… antico, là dentro. Classico. Insomma: vecchiotto. Drummond le aveva spiegato che avrebbe dovuto fare da agente di collegamento con l’ex-federale, dato che a causa del suo problema Raven non poteva uscire di casa, ma Jillian leggendo l’indirizzo che le aveva dato non aveva capito che fosse così Upper West Side. Insomma, non si aspettava di entrare in una specie di monumento neogotico. Purtroppo ormai non c’era più tempo per una veloce scappata a casa per cambiarsi. Non che avesse neanche un abito appropriato alla situazione, ma forse avrebbe potuto sostituire gli scarponcini della Doc Martens con un paio di mocassini e i jeans consumati con un paio di chinos. Ormai era andata, si disse, premendo il tasto (di ottone) del sesto piano. L’ascensore salì con un vago cigolio e dopo un mezzo minuto si bloccò di scatto al suo piano. Jillian spinse la porta e si trovò in un elegante, ancorché vecchiotto e consunto, pianerottolo rivestito di marmo. Vi si affacciava una sola porta, che si stava richiudendo in quell’istante. Davanti alla porta due uomini in divisa da agente di sorveglianza, uno giovane, sui ventidue o ventitre anni, e uno più anziano, sulla cinquantina. Quando Jillian scese dall’ascensore stavano parlando tra loro, ma vedendola si interruppero. «Penso che abbia sbagliato piano, signorina» disse il più anziano, in tono non particolarmente cordiale, ma neppure scortese. Jillian restò senza parole per qualche secondo. Ripensandoci, l’abbigliamento migliore che avrebbe potuto adottare sarebbe stata l’uniforme. Tirò fuori il tesserino e lo mostrò alla guardia. «No, non credo» disse. «Sono l’agente Clarke, NYPD. Ho un appuntamento con il signor Raven». «Fortunella...» ridacchiò la guardia più giovane, sottovoce, ma l’espressione accigliata dell’altro non cambiò. «Ha una regolare autorizzazione?» chiese. Jillian tirò fuori anche quella. Drummond aveva insistito sul fatto che la portasse con sé, senza spiegarle il motivo. Ora lo capiva. La guardia carceraria studiò attentamente il foglio, prima di ridarglielo. Poi fece una cosa che Jillian non si aspettava. Prese il grosso mazzo di chiavi che aveva attaccato a un moschettone e aprì la porta da cui era appena uscito. «Be’, allora vada, agente Clarke. E non faccia quell’espressione, il dottor Raven non uccide nessuno da un pezzo». Lei fece un sorrisino tirato e varcò la soglia. «Permesso?» mormorò, entrando in un vestibolo rivestito di carta da parati verde chiaro e dal pavimento di marmo bianco e lucido. La lucidità, pensò, sembrava dovuta più all’usura che a un’assidua pulizia. La casa dava l’impressione di essere piuttosto grande ed era arredata con mobili vecchiotti che forse qualcuno avrebbe definito “antiquariato”. «McBride ha ragione, agente Clarke, non si preoccupi». In piedi a un paio di passi di distanza da lei, parzialmente in ombra, c’era l’uomo che era andata a incontrare, a braccia conserte. Indossava un paio di pantaloni di tela blu, del tipo con molte tasche inutili, e un maglione a collo alto grigio chiaro, di lana ispida e, probabilmente, pungente. «Forse gradisce un caffè?». Jillian scosse la testa, confusa. Non era quello che si aspettava. Quell’uomo, Raven, doveva essere sulla quarantina a dir tanto. Era alto e aveva i capelli molto scuri, praticamente neri, tirati all’indietro, la pelle pallida di chi vede ben poco sole e gli occhi nerissimi. Aveva pronununciato l’ultima frase con un sorriso bonario, in completo contrasto con lo sguardo torvo e penetrante. «È perplessa?» chiese, facendole strada verso un’altra stanza. «Ehm… no, mi aspettavo… be’, pensavo che fosse diverso» tartagliò lei. Lui le lanciò un’occhiata decisamente spaventosa. «Si aspettava un vecchio consumato dalla sifilide, con un pitale legato a una gamba e un pappagallo sulla spalla?». «La mia versione aveva un occhio di vetro, a dire il vero» deglutì Jillian. Raven la fece accomodare in una sorta di studio. C’era una scrivania ingombra di carte, una sorta di carrello da portata con sopra un computer della Apple, un paio di poltrone messe a quarantacinque gradi tra loro, un’immensa libreria a vetrine di mogano scuro e un tappeto bello ma vecchiotto che si arricciava agli angoli. Il dottor Raven si sedette su una poltrona e indicò a Jillian la seconda. «Sì, davvero?» chiese, accavallando le gambe. Sembrava in forma, persino un po’ troppo in forma, considerato il suo... problema. «Non ricevo molte visite e le aspettative a volte sono... esagerate. Anche se in questo caso credo che non dovremmo concentrarci troppo su di me». «No, signore» mormorò Jillian. Aprì la propria capiente borsa di tela. «Le ho portato il materiale che le serve». Raven annuì, ma non si mosse. «C’è il sole?» chiese. Jillian sbatté le palpebre, perplessa. «Sì, signore, c’è il sole» finì per dire. Probabilmente quello era un indizio del problema dell’altro. Il problema mentale, così si diceva. Lui sospirò. «Oh, so di avere delle finestre, non si preoccupi. Ho anche una terrazza. Ma se le apro e vedo che fuori c’è il sole il mio umore diventa così nero che preferisco non aprirle del tutto. Immagino che per lei non abbia senso». «Non... non proprio» ammise Jillian. Raven si sporse a prendere la documentazione e si appoggiò il voluminoso fascicolo sulle cosce. «Quindi... questà parte in effetti è inutile» disse, separando uno spesso fascio di fogli e appoggiandolo sul carrello da portata. «Purtroppo ho un’ottima memoria. Vediamo le nuove imprese del nostro Garret». Jillian si rese conto che aveva scartato tutta la parte del fascicolo che riguardava le vecchie indagini su Garret Nie, le indagini che avevano portato al suo arresto, otto anni prima, per concentrarsi sulla parte relativa all’ultimo delitto. Sfogliò le pagine con un moto di impazienza quasi rapace. Le scorse con attenzione, gli occhi che si muovevano veloci da una riga all’altra, per poi rialzare lo sguardo sulla sua interlocutrice. «Sapevo che avrebbe ricominciato a uccidere. Quando ho sentito dell’evasione...» Fece un gesto vago, quasi rassegnato. «Non ho molto da fare, a parte guardare i notiziari e leggere. Lei sarebbe la mia agente di collegamento, quindi?». «Sì, signore» annuì Jillian. «E che cosa ha fatto di male?» chiese lui, con un sorriso sardonico. «Non capisco, signore. Eseguo solo gli ordini». Raven inarcò le sopracciglia. Sopracciglia nere come i capelli, sottili. E occhi spaventosi. «Che cosa vorrebbe dire? Che mi hanno mandato un manichino idiota, una signorina graziosa e inutile, sperando che a me, come a Nie, la prigione abbia insegnato ad accontentarmi?». Jillian si alzò di scatto e fece un paio di veloci passi indietro, mentre appoggiava la destra sulla fondina. «Non sia assurda» fece Raven, con una smorfia. Era ancora seduto in poltrona, con le gambe accavallate. Sbuffò. «Mi riferisco all’ultima vittima. La nuova vittima. Un tempo gli piacevano le bionde. Bionde formose, burrose, forse persino un po’ materne, ma anche... be’, è ovvio. Cerchi di seguirmi. Quest’ultima vittima? Una prostituta. Emaciata, forse tossicodipendente. O è diventato di bocca buona, oppure proprio non ce la faceva ad aspettare. Evaso da tre giorni... bam». Fece un gesto vago nell’aria. «In quanto a me, io non sono diventato di bocca buona. Mi dimostri di essere utile a qualcosa, agente Clarke, di non essere solo una passacarte sfortunata, spedita nella tana del mostro per espiare qualche peccato burocratico». Jillian fece uscire lentamente il fiato. Cercò di calmarsi, anche se Raven era agghiacciante – decisamente più di Drummond. Pungente, scostante e senza peli sulla lingua. «Non faccia più commenti sul mio aspetto e cercherò di essere utile a qualcosa» disse. Raven le scoccò un’occhiata quasi divertita, ma poi si incupì di nuovo. «Ho fatto un commento sul suo aspetto? Non me ne sono accorto, mi perdoni. Il fatto è... che sembra che l’abbiano mandata qua per blandirmi. Non la prenda come un’osservazione personale. Ho l’impressione che Drummond possa averla spedita da me sperando che non me la sarei presa con una cosina così carina – davvero, mi perdoni. Mi auguro che segua la mia analisi». Jillian lo faceva fin troppo bene, a quel punto. «Non so se abbiano mandato me per blandirla. Di certo c’è una proposta». L’altro rise. Una risata secca e gracchiante, per niente divertita. «Ah, ecco. Quale proposta?». «Un permesso di un’ora, una volta alla settimana». Raven ne sembrò rattristato, più che deluso. «Un’ora, eh? A Manhattan? Cielo... potrei addirittura andare a correre nel parco, è proprio qua davanti». In effetti in una sola ora non c’era molto che uno potesse fare, a New York. Quello che pensava dovette leggersi sulla sua faccia, perché l’espressione dell’altro sembrò ammorbidirsi un po’. «Ho pure un tapis roulant» borbottò. «Be’, parliamo della prostituta. È stata sulla scena, agente Clarke?». Jillian annuì. «L’ultima? Sì». «Be’, se fosse stata sulle scene precedenti sarebbe...» «Non ci sono stata, signore» lo interruppe lei. «No, certo. Stavo per dirlo: probabilmente stava ancora facendo il corso o le ronde. Da quant’è assegnata alla omicidi?». Jillian si mordicchiò il labbro inferiore. Sembrava una domanda innocua, ma iniziava a capire che il cervello dell’altro era veloce come un serpente e altrettanto pronto a mordere. «Quattro anni». Raven socchiuse appena gli occhi, ma le sue parole successive non andarono nella direzione che Jillian aveva temuto (per il momento, si trovò a pensare). «Quindi si è persa anche il mio exploit, giusto?». Be’, non che quello la mettesse particolarmente a suo agio... «Sì, signore» disse. «Temo che i suoi superiori abbiano un’idea un po’ confusa sulle mie priorità». Jillian fissò un punto dietro alla sua spalla destra, senza parlare – e senza sapere che cosa dire. Raven si alzò e iniziò a camminare svogliatamente per la stanza. Non aveva fretta, nè l’avrebbe avuta per i prossimi dieci anni. «Dunque, la scena. La donna era sdraiata sulla schiena, giusto? Mutilazioni, tracce di legature sul corpo… all’addome. La gola tagliata. Causa della morte: emorragia. I capelli biondi, ventisette o ventotto anni, nessun segno di lotta. Arma del delitto: un coltello da cucina. Tracce di pneumatici di una Ford ad arrivare ed andare. Il corpo scoperto dopo una telefonata anonima di un ispanico…eccetera, eccetera…» Jillian si mordicchiò un dito, di fianco alla perfetta unghia laccata di smalto trasparente. Avrebbe voluto chiedergli qualcosa – avrebbe dovuto chiedergli qualcosa, in realtà, era il suo ruolo – ma non ci riusciva. «Niente vestiti, vero?» continuò l’altro. «No». Jillian si fece forza. «Pensa che l’abbia... voglio dire, il suo modus operandi...» Raven si passò le mani sulla faccia. «Ah, non lo so. Su questo non credo di poter aggiungere niente alle conclusioni del medico legale. Non so se l’abbia stuprata. In realtà...» Fece una pausa, pensieroso. Sembrava trovare interessante la questione su un piano intellettuale. Non era minimamente turbato dalla fine di quella donna, ma non essere sicuro di come si fossero svolti i fatti lo frustrava. «In realtà sarebbe interessante saperlo, no?» concluse. Jillian si limitò a deglutire. La scena di quel delitto non l’aveva fatta dormire, quella notte. Il sangue e la crudeltà di Nie... il modo in cui si era accanito, il tempo che doveva averci messo... «Perché ci parla del suo livello di compensazione, non trova?» aggiunse Raven. «Non mi sembra molto compensato» borbottò lei. L’ex-agente speciale tornò a sedersi. «No? Non ne sono sicuro. Ha abbandonato il corpo in una zona piena di contaminanti... sporcizia. Rende difficile la vita ai tecnici della scientifica. L’avrà fatto volontariamente? Io credo di sì. Era astuto, un tempo. Ma la scelta della vittima ci dice che aveva un’urgenza. E quando uno ha un’urgenza non pianifica. Mi interesserebbe sapere se la sua urgenza era anche di natura genitale». «Penso di averla persa, qua, signore» confessò Jillian. Raven le lanciò un’occhiata sprezzante. «Le mutilazioni, le torture, agente Clarke... che ha un’urgenza di tipo sessuale lo sappiamo già. Quella è la roba che lo accende. Ma... come? Nel suo cervello? Oppure ha bisogno di una sublimazione fisica?». Le mostrò il palmo delle mani. «Diversi livelli di funzionamento psicologico. Meno compensato significa anche più crudele, più violento, con tempi di cooling-off emotivo più brevi, ma...» «Quindi più vittime» sottolineò Jillian. «Quindi più facile da prendere» concluse l’altro, con logica spietata.

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