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La luce di New York

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Blurb

Evan McAllister è un pittrice in via di affermazione. Si è appena trasferita a New York quando incontra Ander Ross, che assomiglia al soggetto di un quadro che lei ama molto. Ander, però, è anche il dirigente di una grossa banca d"affari, un uomo influente e una persona per cui, normalmente, Evan non avrebbe nessuna simpatia. È tutto quello che lei non è: pratico e talvolta sprezzante, superficiale, tradizionalista... ma c"è qualcosa di più in lui, qualcosa che Evan non riesce a ignorare.

"Posò il telefono sul comodino e si voltò verso di me. «Scusa» disse.

Eravamo ancora parzialmente intrecciati. Lo guardai senza alzare la testa dal cuscino. «Di niente».

«Dio, ne ho le palle così piene...» sbuffò. Si chinò su uno dei miei seni e mi succhiò un capezzolo. «Ma tu sei bellissima, è chiaro. Che botta di culo... come ho fatto a finire a letto con te?».

Gli infilai le mani tra i capelli. Erano un po’ ispidi esattamente come sembravano a vederli. «Avevo voglia di scopare con qualcuno. Era una vita che non lo facevo. È stato pure un po’ strano».

Mi posò una mano su una tetta e strinse delicatamente. «Mh, sì. Anche per me. È come se mi fossi dimenticato un po’ di cose. Senti... ora avrei voglia di leccartela».

Risi, accarezzandogli la schiena. «Potrei ricambiare» dissi.

Ander infilò la testa sotto alle lenzuola e scese verso il basso. Mi ritrovai con il suo uccello a due centimetri dal naso e ne approfittai per dargli un’occhiata. Era decisamente a posto, per quanto mi riguardava."

CONTIENE SCENE ESPLICITE - CONSIGLIATO A UN PUBBLICO ADULTO

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1.
1. La mia prima settimana a New York doveva essere piena di impegni. Era stato un salto nel vuoto ed ero di quell’umore un po’ strano di quando sai di aver appena fatto una follia e non te ne importa niente. Avevo trentacinque anni, avevo vissuto a L.A. e a Washington DC, i miei quadri erano stati esposti un po’ in tutti gli Stati Uniti. Non ero famosa, ma il mio nome iniziava a girare. Il mio blog aveva un buon numero di visite, il mio profilo Twitter aveva un sacco di follower. Come illustratrice guadagnavo benino – ed era un lavoro che potevo fare da qualsiasi parte. Dopo anni di miseria quasi ininterrotta avevo la sensazione di essermi ritagliata il mio piccolo spazio nel mondo. N.Y. era il logico passo successivo. Dato che sono una persona sensata (almeno spero), nonostante avessi deciso di saltare nel buio avevo deciso di farlo con una certa prudenza. Mi ero data una settimana per cercare di capire se lì mi piaceva. Intendiamoci: conoscevo la città. Ci ero già stata diverse volte e a New York avevo un sacco di amici. Magari non amici strettissimi, ma comunque gente che conoscevo. Inoltre a New York c’era Grace, che è una delle mie persone preferite in assoluto. Il mio piano era questo: per la prima settimana sarei stata in albergo e mi sarei data alla vita sociale. Nei ritagli di tempo avrei cercato una casa da prendere in affitto. Un posto minuscolo, di certo, dato che le mie finanze non erano così spumeggianti da permettermi di trasferirmi in un attico sulla Quinta Strada. Nel frattempo, però, mi ero sistemata in un hotel a quattro stelle sulla Settima e mi sentivo in cima al mondo. +++ La mia prima sera in città l’avevo pianificata con cura. Non volevo trovarmi in albergo a guardare la tv. Volevo immergermi subito nella vita sociale newyorkese. Quindi avevo fatto in modo di farmi invitare all’inaugurazione di una botique a SoHo. L’invito me l’avevano procurato Justin Krais e Lee Bishop, che sviluppavano progetti per l’HBO. Non era la notte degli Oscar, ma non era nemmeno un’inaugurazione da niente. Little Gods era un marchio d’abbigliamento “giovane” che si stava diffondendo il tutto il paese. Per loro aprire un negozio a New York era una sorta di consacrazione, quindi avevano fatto le cose per bene. La botique era piuttosto grande, su due livelli, arredata in modo particolarissimo (be’, come tutte le boutique) e gli ospiti (circa 300) erano piuttosto su nella scala sociale. C’erano modelle (anche se magari non top), scrittori di nicchia, artisti vari, gente della finanza, gente dello spettacolo... ma per lo più c’era gente della moda. Erano tutti vestiti in modo divino. Justin e Lee continuavano a presentarmi a chiunque gli passasse davanti. Conoscevano tutti, o quasi. Mi presentarono a giovani attori, a collezionisti d’arte (ottimo), a gente semplicemente ricca e inserita... Dopo un’ora avevo il cervello fuso e volevo solo un po’ di quiete. Mentre loro andavano a parlare con altra gente, affiatati come due condor, io mi fermai accanto al tavolo con gli alcolici. C’era un cameriere che impediva agli ospiti di buttarsi sullo champagne, ma mi sembravano tutti piuttosto alticci comunque. Mi guardai attorno, sorseggiando il mio bicchiere di vino rosso (non ero ancora pronta per le bollicine). Ogni centimetro quadrato della boutique era stipato di gente. Due donne altissime e magrissima stavano guardando alcuni dei vestiti in esposizione. La gente chiacchierava e beveva. Mi trovai a guardare un tizio che era assurdamente uguale a un quadro di Phil Hale. Era impressionante. Aveva gli stessi capelli castani e un po’ ispidi, la stessa mascella allungata, la stessa carnagione chiara, la stessa ossatura... «Scusi?» fece il tizio, in quel momento. Mi riscossi. «No, scusi lei. È identico a un quadro di Phil Hale. Cioè... a una serie di quadri, quelli di Johnny Badhair». La mia voce si spense leggermente sul finale. Forse non era molto educato dire a qualcuno che era uguale a un personaggio di nome “Johnny Capelli-terribili”. Anche se poi i capelli del personaggio di quella serie di quadri non erano terribili, sparavano solo da tutte le parti. Anche i capelli di quel tizio sparavano da tutte le parti, nonostante lui avesse cercato di irregimentarli in un taglio sfumato, più lungo in cima e... «Oh, merda. Lei è anche uno dei governatori della Fed» aggiunsi, mentre mi veniva in mente perché la sua faccia mi fosse familiare. E di certo con quel mio “oh, merda” gli avevo fatto un’ottima impressione. «Ero» disse, con un sottile sorriso. «Ora sono con Citigroup. Chi sarebbe questo Johnny Badhair?». Be’, ormai l’avevo detto, tanto valeva cercare di addolcire la prima impressione. «È... il tema ricorrente di una serie di quadri. Di Phil Hale. Lo chiama Johnny Badhair, ma i suoi capelli non sono così terribili» dissi. «E quei quadri sono la fine del mondo» aggiunsi, sinceramente. Quel tizio – di cui non riuscivo assolutamente a ricordare il nome – si voltò verso le due persone che erano con lui e che nel frattempo avevano continuato a chiacchierare tra loro. Uno era un uomo sulla cinquantina piuttosto pelato, l’altra era una donna sulla quarantina in un elegante vestito da sera. «Pare che assomigli al soggetto di una serie di quadri» gli comunicò il tizio. «Davvero?» sorrise l’uomo. «Incredibile» commentò la donna, che però non sembrava molto colpita. «Di chi?» aggiunse, in tono educato. “Johnny”, lì, iniziò a spiegarlo, ma nessuno dei due conosceva Phil Hale, quindi la conversazione si arenò velocemente. «E lei sarebbe...» iniziò a chiedere l’ex-Fed, in tono educato, ma fu interrotto dalla ricomparsa di Justin e Lee. «Evan, c’è Mark Cosimo che vuole conoscerti e... oh, scusa, non volevo interrompere» disse Justin, interrompendo senza problemi. Io aggrottai la fronte. «Cosimo, Cosimo...». «Il direttore creativo di Little Gods!» sussurrò Lee, scandalizzato. «Sì, giusto» borbottai io. «Scusi ancora per l’interruzione, signor...» «Ross. Ander Ross» rispose “Johnny”. E io pensai: “Esatto! Ander Ross!”. Justin e Lee smisero di calcolarlo immediatamente e cercarono di trascinarmi via, ma era evidente che non avessero capito con chi stavo parlando. Cercai di rimediare allungando la mano. «Evan McAllister» mi presentai. «Vada. Cosimo è un creativo. Aspettare non gli piace» commentò lui, stringendomi la mano. Lee e Justin mi portarono via quasi di peso. «Tesoro, hai tutta la notte per fare la triglia con chi vuoi!» mi rimproverò il primo. «Cosimo mi ha chiesto espressamente di te...» rincarò l’altro. Lanciai un’occhiataccia a tutti e due. «Scusate se stavo parlando solo con un ex-governatore della Fed». Per un istante Lee sembrò colpito, ma poi sventolò una mano come a dire che non importava. «Lo inviteremo alla tua prossima mostra» concluse. +++ Naturalmente Mark Cosimo era un individuo eccentrico e un po’ prepotente, come spesso è chi lavora nella moda. Mi fece un sacco di complimenti per i miei quadri, ma praticamente mi obbligò a fargli uno schizzo su due piedi per il negozio. Mi prestai relativamente di buon grado, visto che lì la gente l’avrebbe visto. Avrei preferito regalargli uno dei miei quadri, in realtà – uno di quelli piccoli, è ovvio – ma Cosimo mi disse che nelle loro boutique avevano solo schizzi estemporanei. Mi rassegnai e presi il foglio e il piccolo astuccio che mi porgeva. Probabilmente avrebbe voluto che disegnassi lì, di fronte a lui, ma quel che è troppo è troppo. Gli dissi che mi sarei trovata un angolino tranquillo. Mi incastrai dietro a un vaso, appoggiandomi alla mensola di una finestra, e cercai di farmi venire in mente qualcosa. La gente pensa che, visto che dipingi, tu abbia sempre un’idea in testa, ma non è per niente così. Di solito io faccio decine e decine di schizzi a casaccio, prima di trovare un soggetto. Comunque, in fondo era solo uno schizzo... decisi di disegnare il profilo di una donna in stile vagamente Art Decò. «Quindi era questo che voleva... scucirle un disegno» disse una voce divertita, alle mie spalle. Mi voltai a metà. Ander Ross stava bevendo un bicchiere di champagne e aveva l’aria di non sapere bene che cosa fare. «Lei invece sembra un pesce fuor d’acqua» sorrisi, tornando a disegnare. «Non è esattamente il mio genere di festa. In realtà è stata mia, mh, moglie a voler venire». Presi nota di quell’ “mh” anomalo, ma non commentai. «In effetti non sembra il tipo da Little Gods» dissi, invece. «Quando hai dei capelli terribili devi cercare di vestirti in modo sobrio». Mi voltai di nuovo a metà, ridendo. «Non avrei dovuto dirlo. Se mi fossi ricordata chi è prima che mi venisse in mente Phil Hale non l’avrei detto, lo giuro. Ma dovrebbe guardarli, sa. Sono proprio fantastici». «Li ho guardati. Sul cellulare, prima. E sono fantastici. Preferirei chiudere questa parentesi narcisista, però. Me ne starò qua a guardarla disegnare, se per lei non è un problema». «Ma non ha idea di chi sia io, giusto?». «No» ammise lui, tranquillamente. «È una che disegna davvero bene e presumo che sia un’artista famosa». Risi leggermente, ritoccando le sopracciglia del mio profilo di donna. «Non direi “famosa”. Abbastanza conosciuta in certi ambienti, magari, ma le bollette le pago con le illustrazioni, non con i quadri». Lui rimase in silenzio, osservandomi lavorare. Non era affatto invadente. Avevo l’impressione che restasse lì per avere una scusa per non essere da qualche altra parte, non perché gli interessasse il mio schizzo. «Sì, ho cercato anche lei, su internet» disse, dopo un po’, riprendendo il discorso da dove l’avevo interrotto io. Aveva aspettato che finissi di tratteggiare i capelli. «Ha una pagina Wikipedia». «Già» sorrisi. «Non voglio sembrarle uno stalker. Se resto accanto a mia moglie sono costretto a parlare di finanza o di moda. Cioè, di lavoro o di una cosa di cui non so niente. Inoltre da mia moglie sto divorziando. Se resto qua non devo parlare di arte, giusto?». Gli lanciai un’occhiata ironica. «Non sembra uno stalker, sembra uno che prova a flirtare» gli dissi. Lui aprì la bocca come se volesse ribattere qualcosa in tono offeso, ma poi sbuffò solo debolmente. «Non molto, però» si difese. «Non molto» concordai, finendo tranquillamente di disegnare una cornice Art Decò attorno a metà del mio profilo. «E prima dell’accenno al divorzio avrei detto “per niente”. Con quello si è un po’ scoperto, diciamo». Ross rise senza grande allegria. «No, guardi. Quella era solo una constatazione, ma capisco che fosse fraintendibile. Stavo per dirle che ha delle belle scarpe». Firmai e mi voltai, con il foglio in mano. «Queste ballerine?». Lui le indicò. «Sì, perché mettono in evidenza la curva del polpaccio. Con i tacchi alti si crea una specie di spigolo duro. Oddio, non sempre». Diede un colpetto di tosse. «Non sono un feticista dei piedi» aggiunse, rendendosi conto che le sue precisazioni stavano diventando un po’ troppo specialistiche. «Okay» dissi io. E, in realtà, non sapevo bene che cosa dire e che cosa fare. Ovviamente mi piaceva, a livello estetico: assomigliava a un quadro di Phil Hale. Però era anche lì con sua moglie – che fosse quasi-ex o meno – quindi non capivo dove volesse andare a parare. Dovette leggermi la perplessità in faccia, perché si strinse appena nelle spalle e sorrise. «Potremmo andare a flirtare da un’altra parte» propose. «Quale altra parte?» chiesi, un po’ sospettosa. «C’è un wine bar, a due isolati di distanza. Lo conosce?». «Non sono di New York». «È un posto carino» spiegò. Lo guardai in silenzio, cercando di mettere a fuoco il suo tipo. Mi ricordavo di averlo visto alla tv che parlava di cose mortalmente noiose: politiche monetarie espansive e anticicliche, roba del genere. E non ne parlava in tono brioso e avvincente, no. Ne parlava in tono piatto e opaco, come se volesse che la gente cambiasse canale. «Quindi lei vorrebbe che io salutassi i miei amici e venissi via con lei?» gli chiesi. «Perché se è così voglio che sappia che ho un’obiezione morale». Lui scosse appena la testa. «No, potremmo rincontrarci fuori. È la madre dei miei figli, in fondo». Inarcai le sopracciglia. Non era esattamente quello che intendevo, ma era una risposta anche quella. «E lo suggerisce così, eh?». Mi rivolse un lieve sorriso, un po’ imbarazzato. «Già. Però ho parlato solo di un wine bar». Risi. «Due isolati in che direzione?». Lui indicò l’angolo con il mento. «Nord». «Tra venti minuti, allora. Sono il tipo che è spesso in ritardo, ma non aspetta... mi sembra giusto specificarlo». Lui sorrise di nuovo. «Sono il tipo che a volte non si presenta, ma che se si presenta è puntuale». +++ Diedi il disegno a Mark Cosimo, che mi sommerse di complimenti. Poi spiegai a Justin e a Lee che me ne sarei tornata in albergo, dicendo che ero stanca per il viaggio e così via. Li ringraziai tanto e ci promettemmo di rivederci al più presto. Per quel che ne sapevo SoHo il venerdì sera non era un posto pericoloso, ma decisi di non rischiare e presi un taxi. L’autunno era ancora tiepido, in città, e i tavolini fuori dal wine bar erano pieni di persone. Per lo più mi sembrarono trenta-quarantenni in carriera, un tipo di trenta-quarantenni in carriera che non erano esattamente il mio habitat naturale. Il mio habitat è un po’ più selvatico, se capite quello che intendo. Quelli che conosco non si vestono così bene, di solito, e hanno dei gusti un po’ più particolari. Ander Ross mi aspettava seduto a un tavolo d’angolo, ma si alzò quando mi allontanai dal taxi. «Mi aveva avvertito» sorrise, scostandomi una sedia. «Sono tanto in ritardo, eh?». «Una ventina di minuti. Ho preso una bottiglia di Merlot». Me ne versò un bicchiere e facemmo un brindisi silenzioso. «Quindi adesso è alla Citigroup» dissi. «Non avevo molte prospettive, alla Federal Reserve. Ma fa una bella figura sul curriculum. Come si finisce a fare l’artista, invece?». Scrollai una spalla sola. «Si fa la scuola d’arte, per cominciare, anche se non è obbligatorio. Poi è, sa... uno dei quei mestieri di contatti. Conosci persone, che ti presentano persone... Fai qualche mostra, vinci qualche premio, qualcuno inizia a parlare di te...». «Ma non è a New York per una mostra» disse. «Ho controllato, mentre aspettavo». Bevvi un altro sorso. Era proprio buono. «Forse ci vengo a vivere, qua. Devo ancora decidere. Conosco un po’ di persone, c’è la scena giusta. Non sono sicura che mi piaccia, però, per cui vedrò. New York sembra fantastica, dall’esterno». «Da dove viene?». «Da dove vengo o dove sono nata?». Mi fissò con espressione seria, come se ci stesse pensando. Aveva gli occhi blu. Non azzurri o grigi, proprio blu scuro. «Tutti e due» disse, alla fine. «È buffo il modo in cui ci ha pensato, Ross». «Credo di poter indovinare il posto in cui è nata, in realtà. E credo che possa chiamarmi Ander, visto che si è detto che stiamo flirtando». Risi. «Quindi credi di poter indovinare dove sono nata, Ander». «Già. Seattle, secondo me. O comunque stato di Washington». «Okay, giusto. Ho un accento spaventoso?». «No, no. Sono le t. Ma non è da dove vieni, abbiamo detto». «Sono stata a Los Angeles, per un po’. E poi a DC». Si grattò il mento. «Sì, anch’io. A DC, dico. Mi sono trasferito un anno e mezzo fa». «Dove?» gli chiesi. Poi cercai di sembrare un po’ meno impicciona. «Forse devo trovare una casa, ma non sono sicura di sapere quali siano i posti migliori. Probabilmente non i tuoi, in ogni caso, ma...» Lui fece una buffa espressione. «In ogni caso non te li consiglio, i miei posti. Mi sono svenato per un appartamento nell’Upper West Side. Ho un mutuo ciclopico. E alla fine probabilmente dovrò mollarlo e andremo tutti a vivere da un’altra parte. Un posto in affitto qua in città io, una qualche casa fuori città Sarah e i ragazzi. Di solito funziona così». Accantonò il discorso con un gesto della mano. «Secondo me dovresti provare Brooklyn. Alcune zone sono piene di artisti». «Dici?». Il mio cellulare iniziò a squillare e lo tirai fuori. «Oh, è Grace... ti dispiace?». Ovviamente Ander disse che non gli dispiaceva. «Ciao, tesoro» sorrisi io. «Ehi» disse la sua voce. «Sei arrivata, giusto? Sei a N.Y.?». «Esatto. Sono già stata a un’inaugurazione. Domani ci vediamo, allora?». «Pensavo di sì, ho chiamato per questo. Sono un po’ incasinata qua al locale... potresti passare tu?». Grace aveva preso in gestione un club. Facevano musica dal vivo, reading e cose di questo genere. Doveva essere un bel posto e lei ne era assolutamente entusiasta. «Certo che passo. Tanto volevo vederlo». «Ma c’è anche Garth?». Mi mordicchiai l’interno di una guancia. Giusto, pensai, non glielo avevo ancora detto. «No, ci siamo lasciati. Bene, eh? Ci siamo lasciati ottimamente. Ma lui è rimasto a DC. Domani ti racconto». «Oh, cavoli, mi dispiace. Ma quando...?». «Ufficialmente, tre mesi fa». «Credevo che viveste ancora insieme...». «Sì, infatti. Ti ho detto che ci siamo lasciati bene. In pratica ci eravamo già lasciati da qualche anno. Abbiamo solo litigato un po’ per Billy, ma alla fine so che con lui è in buone mani. Comunque... ci sentiamo domani pomeriggio, okay?». Ci salutammo e chiusi la telefonata. Ander mi guardava con espressione pensierosa, come se non sapesse se fare una domanda oppure no. «Billy è il cane» spiegai, spontaneamente. «Fosse stato un bambino credo che ci sarebbe stata qualche discussione in più». Ander sorrise. «Era un po’ quello che mi stavo chiedendo. Niente bambini, dunque». Assunsi un’espressione seria. «Sono un’intellettuale. Noi non ci riproduciamo». Lui rise, poi bevve un altro sorso di vino. Poi sembrò perdersi nei propri pensieri per qualche minuto, per riscuotersi poco dopo. «Scusa. Sono un pessimo flirtatore». «Non ce l’ha mica ordinato il dottore. Possiamo anche non flirtare. Magari più tardi facciamo sesso e basta». La faccia che fece fu buffissima. Perplessa da morire, ma anche speranzosa. Credo che si rese conto da solo di quanto sembrasse idiota, perché subito dopo si mise a ridere. «Okay, con questa frase hai vinto tutto. Dove si firma per diventare te?». Mi strinsi nelle spalle. «Flirtare è carino, se lo fai con vero impegno. Ma se ti senti stupido mentre lo fai, tanto vale non farlo, no? Il fondo è tutto codificato». «Suppongo di sì» ammise lui. Mi guardò con una certa attenzione. «Mi fai un effetto strano, perché credo che tu sia troppo bella, per me». Inarcai un sopracciglio. «Non voglio sembrarti insensibile, ma tua moglie è un gran pezzo di donna». «Ora ti sembrerò insensibile io, ma mia moglie non è il tipo che si focalizza sull’aspetto esteriore. O sul carattere. O sulle affinità elettive». L’aveva detto in tono piuttosto cinico, ma si vedeva che gli scocciava. Ebbi la tentazione di rispondergli che a me invece interessavano i suoi soldi, ma non lo feci. Non tutti apprezzano quel tipo di umorismo e avrebbe potuto offendersi. «No, dai» dissi, in tono morbido. Lui fece uscire lentamente tutta l’aria dai polmoni. «No, infatti. Va bene che abbiamo smesso di flirtare, ma a tutto c’è un limite. Potremmo...». Un lieve sorriso. «Ehm, potremmo...». «Sì?» infierii io. Sorrise e mi prese una mano a mezz’aria. Se la portò alla bocca e mi baciò le nocche. «Potremmo andare via da questo posto. Quella sul sesso non era una boutade, giusto?». Lo disse guardandomi negli occhi e lo trovai stranamente convincente. Mi venne in mente che mi sarebbe piaciuto vederlo nudo e pensai anche che forse, in realtà, quello che subivo era il fascino erotico dei quadri di Phil Hale. Non che avesse davvero importanza. Avevo voglia di fare sesso con qualcuno e farlo con lui sembrava un buon modo per festeggiare il mio primo giorno a New York. «No che non era una boutade» confermai.

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