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Dead Man - Il Fuorilegge della Magia Nera Vol. I

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Il mio nome è Cisco Suarez: negromante, incantatore di ombre, fuorilegge della magia nera. Sembra abbastanza fico, vero? Lo era, fino a quando non mi sono risvegliato mezzo morto in un cassonetto.

Ho detto mezzo morto? Perché intendevo morto al 100%. Non faccio le cose a metà.

Perciò eccomi qui, ancora vivo per una qualche ragione, in un altro giorno assolato a Miami. È un paradiso perfetto, se non fosse che mi sono immischiato in qualcosa di brutto. Ricercato dalla polizia, avvolto dal fetore della magia oscura, con creature dell’Altrove che sbucano da tutte le parti... per non parlare delle gang voodoo haitiane. Credetemi, è tutto molto divertente fino a quando non hai un cane zombie alle calcagna.

Il mio nome è Cisco Suarez: negromante, incantatore di ombre, fuorilegge della magia nera… e sono totalmente fottuto.

“Era da parecchio tempo che aspettavo di leggere un libro così. Ha tutti i requisiti necessari per essere classificato come un ottimo libro fantasy. Non manca nulla: avventura, magia nera e una buona dose di vendetta.” (SOGNANDO LEGGENDO)

“Un thriller sovrannaturale, con molta azione e magia, dove niente è da dare per scontato. Una lettura piacevole e originale.” (VIAGGIATRICE PIGRA)

“Originalità, magia, un personaggio molto sexy e potente: questi gli elementi vincenti di Dead Man, un fantasy diverso da quelli a cui siamo abituati.” (VOGLIO ESSERE SOMMERSA DAI LIBRI)

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CAPITOLO UNO
CAPITOLO UNO L’ultima volta che mi ero svegliato con i postumi di una sbronza del genere, ero nudo, bagnato fradicio e avvolto in una bandiera cubana. Adesso almeno avevo i vestiti addosso. Nell’oscurità non riuscivo a vederli, ma potevo sentirli. Ero in grado di sentire anche altre cose. Un’emicrania pulsante. Abbastanza rigidità al petto da farmi soffrire a ogni respiro. Avvertivo dieci tipi di dolore diversi. E c’era dell’altro. Il freddo, l’umidità e lo sporco. Le mosche mi ronzavano intorno al viso, volteggiando nel fetore di morte. Il mio braccio era viscido. Spostai il peso e qualcosa scricchiolò sotto di me. Mani e piedi premevano contro i confini stretti di una scatola. Puzza di morte e decadimento. Okay. Una specie di bara gigante. Okay. Non sono un matematico ma le cose, sommate insieme, cominciavano a dare un risultato. Nonostante le prove della mia morte apparente, non mi lasciai prendere dal panico. Vedete, sono un negromante (tra le altre cose) perciò so qualcosa sull’argomento. Non avrei saputo dirvi dove fossi e cosa fosse accaduto quel giorno per farmi arrivare lì, ma avevo il sospetto di essere ancora vivo. Anche se per un soffio. Provai a mettermi a sedere. Un dolore lancinante mi attraversò il corpo fino a quando non mi rilassai di nuovo. Richiesta respinta. Okay, era il caso di respirare profondamente. Mi concentrai fino a calmarmi, quindi riaprii gli occhi. Una striscia sottile di luce filtrava dall’alto, ma era troppo debole perché potesse illuminare l’interno. Per fortuna conoscevo un trucco o due. Fissai l’oscurità, più profondamente di prima. Non all’interno della bara o in qualunque posto fisico, ma in un luogo dentro di me. Le pupille cambiarono e le iridi da verdi diventarono nere. Un battito di palpebre dopo, ero in grado di vedere. E voi che pensavate che essere negromanti significasse solo vestirsi di nero e farsi crescere i capelli. Mi dispiace smontarvi, ma non sono lo stereotipo vivente di un fan del death metal. Non indosso un trench e ho i capelli corti. Vivo a Miami, cazzo. Fa caldo ed è umido anche in inverno. Non ha senso beccarsi un colpo di calore per cercare di sembrare nordico a tutti i costi. Non solo, ma Cisco Suarez (che poi sarei io) non è soltanto un negromante. È anche un incantatore di ombre. Era quella la magia che avevo appena utilizzato. L’oscurità intorno a me c’era ancora, ma adesso potevo vedere attraverso di essa. La lama di luce ora mi faceva male agli occhi. Evitai di guardarla direttamente e controllai il resto della tomba. Scatole di cartone schiacciate. Sacchi di plastica pieni. I miei alloggi non erano così morbosi come avevo temuto. Quella non era una bara ma un cassonetto. Forse non ero deceduto, dopotutto. Mi ero solo concesso un riposino. In un letto fatto di bottiglie di birra. E come cuscino? Un topo di fogna morto. Questo avrebbe fatto dare di matto ai più, ma ricordate una cosa: negromante. Allungai le mani. Il semplice tentativo di sciogliermi fu seguito da una battaglia di sofferenza. I muscoli mi dolevano. Erano secchi e avvizziti come la corteccia di un albero caduto. Le ossa scricchiolavano e le giunture sembravano cemento semi solidificato. Avevo accumulato più polvere di una mummia. Lottai con l’agonia fino ad afferrare il ratto morto per la coda. Era stato decapitato. Un tributo. Magia sacrificale, e non mia. Questo significava guai. Cercai altri segni di rituale o legami. Amuleti. Rune. Oggetti sacri bruciati. Setacciando tra i rifiuti, vidi che indossavo un paio di stivali da cowboy rossi e saltai letteralmente per la sorpresa, quasi sbattendo la testa contro la parte superiore del cassonetto. Cercate di capirmi, potevo sopportare il topo, ma avere ai piedi un paio di autentici stivali in pelle d’alligatore era inaccettabile. Non fraintendetemi. Non c’era niente di magico o maledetto al riguardo. È solo che i cubani moderni non indossano stivali da cowboy. Cisco Suarez non indossa stivali da cowboy. Sono sempre io, a proposito. È più breve e musicale di Francisco, e mi fa pensare all’eroe di un fumetto. Quale ragazzino non vorrebbe essere un supereroe? Mi piaceva come suonava, così ho cominciato a riferirmi a me stesso in terza persona. Abituatevici. Okay, basta parlare del mio nome. Parliamo di magia. Sono quello che chiamereste un animista: un essere umano in grado di entrare in contatto con gli spiriti per ottenere energia magica. Fico, eh? So cosa state pensando: un chierico ha a che fare con gli dei e un mago con i libri, giusto? Be’, mettete via il manuale del giocatore e dimenticate tutto ciò che credete di sapere. Dei e libri si accavallano parecchio (e il libro più famoso della storia ne è un esempio calzante). Il fatto è che la magia è una forza universale, utilizza energie pure conosciute come gli Intrinseci. Sono i tasselli di tutto il creato. Persone come me o come voi possono manipolarli soltanto attraverso gli spiriti. E questo ci rende animisti. Il resto sono solo titoli. Stregone. Chierico. Gli uomini istruiti preferiscono mago (fa più sofisticato). Sciamano si usa di più per i popoli primitivi. O, se volete denigrare un animista, chiamatelo guaritore o fattucchiere. Avete afferrato l’idea. Sono sicuro che qualcuno abbia realizzato una lista non ufficiale di definizioni “ufficiali”, ma per voi sarebbe difficile utilizzare quella terminologia per le strade. Ed è per le strade che succede la roba vera. Ma torniamo al caso in esame: al cassonetto in cui mi trovavo. Un allarme nella mia testa mi segnalava che ero ferito. Forse fatalmente. Il fatto era che, a parte la rigidità, non c’era nient’altro che non andasse in me. Non stavo morendo, comunque. Mi sentivo una specie di vampiro barbone, più che altro. Il che sarebbe stato molto più divertente se non avessi saputo che i vampiri esistevano davvero. Dopotutto, avevo dei postumi da sbornia infernali: magari venivo proprio dall’inferno. Forse vi siete annoiati, giusto? Scusatemi. Penso troppo. È un problema che sto cercando di risolvere. Con un calcio assestato con lo stivale di pelle, il coperchio del cassonetto si spalancò. Una luce accecante mi circondò e inaridì i miei sensi. Sibilai e sollevai inutilmente le mani davanti a me. Forse ero davvero un vampiro, dopotutto. Ma non mi trasformai in cenere. Dopo qualche secondo, mi resi conto che stavo ancora utilizzando la mia vista notturna. Scacciai le tenebre dagli occhi, richiamando all’indietro le lacrime nere fino a quando non fu sicuro guardarmi intorno. Un cielo blu. Nuvole soffici. Palme. Ero a South Beach. Non la spiaggia con la sabbia bianca che fanno vedere in TV durante le partite di football. Non era lontana da Miami Beach, naturalmente, ma i vicoli interni sono molto meno pittoreschi. Ero da qualche parte in una traversa di Washington Avenue, all’esterno di una bettola. Il vicolo era vuoto. Mi sollevai sul cassonetto e atterrai sul cemento con un tonfo. Non avrei vinto alcuna medaglia di salto in alto, ma almeno avevo ottenuto il risultato sperato. Alzarmi in piedi e cominciare a camminare risvegliò nuovi tipi di dolore, ma o stavo cominciando a stare meglio o mi stavo abituando. Normalmente avrei ipotizzato che la situazione difficile fosse stata causata da me stesso – non sarei io se non facessi le cose in grande – ma il topo morto era troppo. Era anche una prova inequivocabile che qualcun altro fosse coinvolto. Controllai le tasche dei jeans. Avevo il cellulare ma non il portafogli. Ero stato rapinato? Sembrava poco probabile, dato che c’erano le prove di stregoneria. Un pestaggio, allora? Mi accigliai. Davo fastidio, sicuro. Avevo avuto qualche litigio con i tizi di qualche gang, ma quella era la vita per un pesce piccolo come me. Ero troppo giovane per avere dei nemici reali. Non c’erano motivi per cui qualcuno potesse volermi morto. La nebbia sovrannaturale nella mia testa non se ne stava andando. Non riuscivo a pensare lucidamente. E continuare a lambiccarmi non avrebbe aiutato. Con gli occhi ben aperti, barcollai sul marciapiede rosa – siamo a Miami Beach, ricordate? – pronto a tutto. Ciò che non mi aspettavo era di venire ignorato. Piccoli gruppi di persone facevano su e giù su Washington Avenue. I clacson suonavano e le auto si muovevano di qualche metro prima di fermarsi di nuovo al semaforo. Ricevetti qualche occhiataccia ma nessuno mi aggredì o mi lanciò insulti. Sembrava la tipica giornata a South Beach. Un uomo mi passò accanto e mi offrì la mano. Cercando (e fallendo) di stabilire un contatto visivo, accettai la sua offerta. Un nichelino e due penny. Lo sconosciuto evitò la mia espressione confusa e continuò per la sua strada. Era stato un evento casuale, ma non potevo ritenermi responsabile per ogni pazzo di South Beach. Cisco Suarez doveva rimanere concentrato sulla missione. Visto che tutto sembrava normale almeno all’esterno, pensai di spremere i dipendenti del bar per ottenere qualche informazione. L’auto che si fermò davanti a me inserì la sicura agli sportelli. Guardai la donna seduta al posto del passeggero e lei distolse gli occhi. Stronza. Quindi scorsi il mio riflesso nel finestrino. Anch’io avrei messo la sicura. Al di là dell’abbronzatura, niente del mio aspetto trasandato era riconoscibile. I capelli, che di solito erano tagliati corti, ora mi arrivavano sulle spalle in una specie di criniera selvaggia. Gli occhi si agitavano nelle orbite, dandomi l’aspetto di un tizio cresciuto nei boschi. La barba da senzatetto a tempo pieno non aiutava. E i vestiti. A parte i jeans e gli stivali rossi da cowboy, indossavo una canottiera gialla e insanguinata. Non ero mai stato un tipo da canottiera ma, con mia grande sorpresa, questa la riempivo davvero. I pettorali premevano contro il tessuto sottile e le braccia nude sembravano scolpite nel marmo. Ancora incredulo, flettei un bicipite nel riflesso. Forse i finestrini di quell’auto erano stati fatti con gli specchi di qualche luna park. Questo richiede una spiegazione. Sarò anche un po’ imprudente e spericolato a volte, ma di sicuro non sono un topo da palestra. Sono sempre stato il ragazzino magro che era troppo stupido per rimanere a terra. Già, questo significa che ho perso un po’ di volte. Avrei voluto essere un supereroe ma mi mancava la dedizione. Quale animista passerebbe del tempo ad allenarsi, in ogni caso? Hai il potere del mondo sulle punte delle dita e lo rovini continuando a sollevare oggetti pesanti. No, non ero mai stato fuori forma, ma avrei dovuto essere solo magro. Ora improvvisamente mi sentivo come Peter Parker dopo essersi imbattuto in quel ragno radioattivo. Adesso ero tutto in tiro. Con la mascella ormai a terra, continuai a guardare nel riflesso come un pazzo. Il guidatore ripartì alla prima opportunità. Al suo posto, si fermò una jeep nera e opaca. Il che era strano, perché il semaforo era verde e le auto dietro di essa cominciarono a suonare. Uscii dal mio stato di shock quando il gruppo di haitiani all’interno della vettura si concentrò su di me, con l’odio negli occhi. Urlarono «Uomo morto!» e scesero, brandendo delle automatiche. Gli lanciai contro i sette cent.

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