Marco Bonini

2649 Words
Marco Bonini Il furgoncino del gelataio Parte prima Mi considerano un bravo ragazzo; gentile, educato, mai una parola di troppo. Faccio sport, non fumo e spendo i miei soldi per lo più in libri e dischi. Nel cortile della scuola mi riconoscereste subito; sono quello che arriva in Vespa con un sacchetto di Disco Club attaccato al gancio sotto il manubrio: lo uso da tempo al posto della cartella. Sorrido di rado, ma passo per uno spiritoso; il mio diario Linus (quest’anno edizione ‘74/’75) gira sempre tra i banchi; adatto le strisce a professori e compagni con discreto successo. Studio quel che basta ad avere tutte le sufficienze e un sette nelle materie che preferisco; potrei scrivere un trattato sull’importanza del tempo libero. Essendo alto, sto sempre all’ultimo banco con la sedia appoggiata al muro. Vado volentieri alla lavagna quando ci sono da fare schemi o cartine, l’attività che preferisco subito dopo le due ore settimanali di disegno. Cerco di andare d’accordo con tutti e, a parte una squadra di calcio, non odio niente e nessuno. Eppure stamattina, mentre salgo le scale per andare in classe, avverto uno strano senso di tensione. Potrei distrarmi buttando giù la classifica dei venti LP più belli dell’anno scorso, ma non ci riesco. Quando entro in aula e vedo molti chini sui libri capisco immediatamente e, ricordando, sento una fitta allo stomaco; oggi, alla quarta ora, c’è da affrontare un’altra volta la nuova professoressa di scienze... L’abbiamo soprannominata la Gallona perché sembra una gallina con le dimensioni di un gallo; sessant’anni circa, capelli corti tinti di nero antracite, rossetto marcato; indossa sempre tailleurs con un grosso spillone al petto. Per lei, dopo anni d’insegnamento alle medie, è la prima esperienza al liceo; ormai non ci sperava più. Guida una Dyane verde pisello che, ogni volta che vi sale sopra, si abbassa di svariati centimetri; molti compagni, passandoci vicino, fanno tintinnare le chiavi in tasca e non è difficile capire perché. Sin dalla prima lezione ha chiarito a tutti che non si parla, non ci si muove e non ci si distrae per nessuna ragione al mondo; ad ogni infrazione le sanzioni sarebbero severissime: note sul registro, interrogazioni puntigliose, voti irrimediabili. Mi siedo al banco e controllo subito se è arrivato William (pronuncia: villiam) Pugnaghi, un nuovo compagno proveniente da Modena; dovrebbe avermi portato qualcosa cui tengo molto. Incontro il suo sguardo; lui mi fa un cenno d’assenso e, roteando l’indice, rimanda la questione all’intervallo. Sabato scorso, vedendolo ancora spaesato, mi ero fermato a scambiare due chiacchiere con lui: “Allora Villiam, come ti trovi qui a Genova?” gli chiesi offrendogli una Sanagola. “Insommmma” rispose (proprio con quattro emme...). E poi: “Grasssie” (proprio con tre esse...). La sua cadenza emiliana mi era familiare e glielo dissi: “Sai che anche i miei sono emiliani? Il vostro accento, che tanti non sopportano, a me mette sempre allegria...”. Sembrava contento, poi si rabbuiò: “La professoressa di siense l’altra settimana non mi è sembrato la pensasse come te. Credeva la pigliassi in giro durante l’interrogassione parlandole di soologìa e mi ha rifilato un tre”. “Ma quella è una carogna!” notai, alzando le spalle. “Dì pure che è una stronssa” precisò lui, seguendo con la coda degli occhi una dell’ultimo anno. Annuii convinto e cambiai discorso: “Senti musica?”. “Sì, ogni tanto”. “Che cosa?”. “Per lo più Elton John e Cat Stevens. E tu?”. Mascherai la delusione e sparai quattro nomi che ero sicuro non conoscesse; notato con una certa soddisfazione il suo smarrimento, decisi pietosamente di andargli in soccorso: “...e poi Lou Reed e David Bowie”. Il suo viso s’illuminò: “Quelli mi sembra di conoscerli...”. Quel sembra mi fece istantaneamente passare ad altro: “E le tue letture?” chiesi. “Più che altro fumetti: Marvel, Supereroica, Diabolik... e poi Quattroruote: leggo quello di mio padre, mi piacciono le macchine...”. Lo interruppi perché mi venne un’intuizione: “Ma tu le hai ancora le macchinine di quando eri piccolo?”. Stavo parlando di cinque anni fa come fossero secoli prima. “Sì, devono essere in uno scatolone nella cantina della casa di Modena; ne avevo un sacco, soprattutto Ferrari...”. E ti pareva... Nonostante ciò, ebbi un piccolo sussulto interno perché colleziono da tempo automobiline prodotte da due marche inglesi; immagino che continuerò a cercarle per chissà quanti anni (pare ci sia qualcuno che lo fa ancora a cinquant’anni, mi sembra incredibile...). Da precisino quale sono gli chiesi: “Hai per caso anche la Corgi Toys n. 474, il Ford Thames Musical Wall’s Ice Cream van?”. Strabuzzò gli occhi: “Non ho mica capito di che parli...”. Tradussi: “Quel furgoncino del gelataio Wall con il carillon incorporato che faceva i chills, i suoni, come quello vero, ti ricordi?”. Fece di sì con la testa: “Sorbole, me l’avevano regalato a un compleanno, ma non l’ho mai usato. Roba che andava bene per le ragasssine, a me piacevano solo le auto da corsa con il numero sopra...”. E meno male, pensai tra me. “Senti, m’interesserebbe... Lo cerco da tanto perché ho il n. 447, il Ford Thames versione senza musica, e vorrei metterli vicini nella vetrinetta di camera mia...”. Sospirai velocemente con una certa indifferenza e aggiunsi: “Potrei darti in cambio gli LP Don’t shoot me di Elton John e Tea for the Tillerman di Cat Stevens; sono come nuovi, senza una riga, non li sento quasi mai...”. Non gli sembrava vero: “Vacca se ci sto... questo pomeriggio torno a Modena coi miei per prendere dell’altra roba e lunedì te lo porto...”. Oggi è il giorno della consegna. All’intervallo prendo i due LP dal mio sacchetto (nella cartella non ci sarebbero mai stati...) e vado da William. Lui tira fuori la macchinina, fasciata nella carta, e me la passa guardandosi intorno con fare furtivo. Poi si allontana. Io torno al mio banco e non mi vergogno ad aprire il pacchetto davanti a tutti. Faccio un rapido controllo alle condizioni del furgoncino: prima le molle, poi la scorrevolezza delle ruote, infine la manovella che fa uscire il suono del carillon... Tlin! Tlin! Tlitlin! Perfetto! Lo rifascio e lo metto sotto il banco. Non vedo l’ora di tornare a casa e metterlo nella vetrinetta. Alla quarta ora entra in classe la Gallona e la classe ammutolisce. Un gesto sbagliato potrebbe costare caro. Apre il registro e, per puro sadismo, sale e scende con l’indice lungo la lista di nomi almeno tre volte prima di chiamare le due vittime da immolare. Mentre interroga rivolge lunghe e continue occhiate alla classe. A un certo punto sbotta, dando come sempre del lei: “Pittaluga, lei sta mangiando! Che cosa sono? Biscotti? Crede di essere al bar di piazza Manin? Le metto un tre sul registro...”. E poi, con un sogghigno: “Comunque, se prende nove alla prossima interrogazione, rimedia...”. Due compagne della terza fila, pensando di non essere viste, fanno una smorfia. “E a voi due laggiù...” continua la Gallona, gonfiando, se possibile, ancora di più il petto, “una bella nota sul registro, così imparate a fare commenti...”. Mentre assisto a questa ennesima sceneggiata, senza rendermene conto muovo nervosamente su e giù il ginocchio destro. Una spinta in alto un po’ più forte mi fa sbattere contro la base del banco. Mi sento raggelare. Nel silenzio della classe si espande un suono delicato: Tlin! Tlin! Tlitlin! La professoressa si alza dalla cattedra e viene verso di me, proprio come un gallo infuriato; si china e afferra la mia macchinina; mi guarda negli occhi e sputacchiandomi in faccia, urla: “Un tre anche a lei! E questa... gliela confisco!”. E se la mette nella tasca destra del suo tailleur, oggi di un verde pisello proprio come la sua Dyane. Parte seconda Mi considerano una professoressa antiquata, fuori dal tempo e incapace d’insegnare in un liceo. Tutta invidia. I colleghi non sanno tenere a bada quel gruppo di fannulloni buoni a nulla. So che mi chiamano la Gallona, ma io conosco bene i miei pollastri... Oggi, per esempio, nella quarta ho rifilato un paio di tre senza bisogno di interrogazioni. A quello alto dell’ultima fila ho anche sequestrato un’automobilina; l’ho ancora in tasca. Sono proprio dei bambini. E l’anno prossimo dovrebbero essere dichiarati maturi... Ma dove? Bestie... Mentre guido noto che oggi sono vestita in tinta con l’auto; che eleganza! Non voglio pensare alle due nuove righe che ho trovato sulla fiancata; un’inezia... Se scopro invece quello che mi ha tagliato la capote, lo faccio espellere da tutte le scuole dello Stato. Tanto non m’importa; loro non sanno che è un’auto da battaglia, che in garage ho anche una BMW 1600 Touring bordeaux nuova di zecca e una Mercedes 280 oro metalizzato ereditata dal mio defunto marito. Branco di animali! E dire che non lavoro per necessità, potrei tranquillamente farne a meno... ma godo troppo nel vederli muti e tremebondi; mi danno la carica. Una mezza giornata a incutere paura è quello che ci vuole. Questo pomeriggio, se il sole tiene, farò un po’ di giardinaggio, o meglio un controllo su quello che ha fatto il giardiniere: anche a lui devo sempre dire il fatto suo; altrimenti, dopo un riposino, mi comprerò il “Corriere Mercantile” e controllerò in ultima pagina se c’è qualche bel film del terrore da andare a vedere; mi piace vedere l’espressione delle vittime prima di essere uccise... Mi ricordano quelle di certi miei alunni quando do i compiti delle vacanze... Arrivata davanti al cancello di casa, do tre rapidi colpi di clacson; aspetto che Sania, l’inserviente indiana, venga ad aprirmi. Come al solito ci mette un’ora! Quando avrò parcheggiato mi sente... Percorro il viale di ghiaia godendomi beata la vista del mio lussureggiante eremo: una villa monofamiliare immersa nel verde, a un passo dal centro e con una meravigliosa vista sulla città. Scesa dall’auto passo dalla porta-finestra direttamente in sala da pranzo. Noto che la tavola è apparecchiata e ogni cosa è in ordine: la mia sfuriata di ieri evidentemente è servita a qualcosa. Mentre vado a lavarmi le mani, incontro Sania che sta per uscire. “Domattina puntuale alle sette e mezzo!” le ricordo. “Sì signora, in cucina è tutto pronto”. E poi, da più lontano: “Arrivederci signora”. Strana ‘sta ragazza, penso; non sorride mai. Entro nel bagno ma non accendo la luce per risparmiare. Mi guardo allo specchio nella penombra: forse dovrei andare dal parrucchiere. Inarco il sopracciglio destro come faccio in classe durante un’interrogazione quando tarda ad arrivare una risposta: l’effetto non è male, agghiacciante al punto giusto. Sento sbattere il portone d’ingresso. Finalmente sola! Io e Sania c’incrociamo e basta perché non voglio nessun altro in casa quando ci sono io: è il mio regno, il mio tempio, nel quale vivo e voglio vivere indisturbata... Mi piace il silenzio... Ehi, ma cosa è stato? Tendo le orecchie: mi sembra di aver sentito un rumore provenire dalla sala da pranzo... Scosto la porta: dallo spiraglio vedo un’ombra muoversi velocemente e poi sparire. Dannazione! Vuoi vedere che ho lasciato aperta la porta-finestra della sala? Riuscissi ad andare in camera a prendere una delle mie pistole, potrei far fuori quel bastardo con un colpo solo... Ma lui probabilmente sa che ci sono; deve aver già visto la tavola apparecchiata e la roba sul fuoco in cucina... Mi starà cercando... Non mi resta nient’altro da fare che nascondermi! Non devo chiudermi a chiave però, altrimenti capisce subito che oltre la porta c’è qualcuno. Devo mimetizzarmi in qualche modo. Mi guardo intorno... Ho un gran bel bagno, rifatto da poco, delle dimensioni di un miniappartamento. La vasca ad altezza pavimento sembra una piscina. Nascondermi dietro la tenda della doccia, nell’angolo là in fondo, non se ne parla: è troppo ovvio... Meglio il cesto della biancheria sporca; fortuna che ne ho comprato uno enorme; per la gioia di Sania ogni giorno lo riempio con lenzuola, asciugamani, tovaglie e quant’altro. Perché ho anche la mania della pulizia, si capisce. Mi ci ficco dentro con qualche difficoltà e mi ricopro coi panni... Ora non rimane che aspettare e sperare che l’intruso, preso quello che vuole – tanto sono assicurata! – se ne vada. Ma stare accucciata è veramente fastidioso, mi si è già addormentato un polpaccio... Chissà ora quel maledetto dov’è... Comincio ad avere caldo; mi fossi almeno tolta la giacca quando sono arrivata! Anzi no, sarebbe stato peggio, un altro indizio della mia presenza. Inizio a sudare. Non sento più niente, deve muoversi come un gatto. All’improvviso, sento un clic e si accende la luce del bagno. La vedo attraverso le canne intrecciate. Trattengo il respiro... porca miseria, mi sta venendo un crampo! Faccio inconsciamente un movimento e, nel silenzio del bagno, si espande un suono delicato: Tlin! Tlin! Tlitlin! Parte terza Non mi considerano niente perché non mi conoscono. Ho sempre agito in incognito. Il mio segreto è non farmi mai riconoscere. E per mantenerlo a volte arrivo a decisioni estreme. Sono anni che mi muovo nell’ombra e nessuno si è mai accorto di me. Il mio modo d’agire è sempre legato al caso, mai alla programmazione. Non faccio piani, non metto niente per iscritto. Mi pongo all’opera solo quando circostanze casuali me ne danno l’opportunità. Quando nessuno se l’aspetta. Come poco fa... Dalle inferriate della cancellata che circondava la casa ho subito notato, dopo il vialetto, il prato all’inglese su cui si affacciava una porta-finestra bianca coi vetri a quadri. Mi sono sempre piaciuti, ho un certo gusto e prediligo le cose belle; col mio secondo mestiere me le posso anche permettere. Ho visto uscire dal portone principale una ragazza asiatica con la faccia imbronciata. Ho colto anche un arrivederci signora. Ho collegato subito: nessun allarme e una porta secondaria aperta... Viaggio sempre leggero: con me porto sempre solo un arnese per le emergenze; gli altri li trovo ingombranti e superflui. Scavalcare la cancellata di una casa quasi isolata non è difficile, specie per chi, come me, si tiene allenato con la palestra di roccia. Una corsa fino alla porta-finestra ed entro. Noto la tavola apparecchiata per uno. Tutto torna. È facile evitare di essere visti quando si ha a che fare con una sola persona: basta non trovarsi nella stessa stanza contemporaneamente, o meglio sapere in quale l’altra si trova e muoversi di conseguenza. In questo caso la cosa migliore sarebbe addirittura stare su piani diversi, in quel caso potrei cercare quello che m’interessa con tutta tranquillità. Resto in silenzio per capire; la tavola imbandita e l’odore di risotto mi fanno pensare che si trovi al piano di sotto. Ma potrebbe essere salita di sopra a lavarsi o a cambiarsi. Non sento nulla. La situazione si complica. Non è normale. Mi allungo verso la cucina e constato che anche quella è vuota. C’è la pentola sul fuoco e nessuno che giri il risotto... mi sembra quasi di sentire odore di bruciato... in tutti e due i sensi, reale e metaforico. Devo la mia lunga carriera proprio al mio fiuto. Non solo, anche al fatto che individuo subito quando è il momento di passare al piano B. Che non è la fuga, ma ben altro. È il piano che mi consente di proseguire indenne, senza nubi all’orizzonte; di non lasciare tracce. Colui, anzi colei (è una signora...) che aspetto deve avermi visto e ora sta nascondendosi da qualche parte. Potrebbe anche essere scappata, ma da dove? Non posso correre rischi: devo sapere se è ancora sotto questo tetto con me... Mi muovo in silenzio al piano terra. Apro la prima porta: è buio. Accendo la luce: è uno stanzino per le scope, non c’è nessuno. Chiudo la luce. Apro la seconda porta. C’è una strana penombra, grazie a un oblò sulla parete in fondo. Accendo la luce: è un bagno enorme. Vado lentamente verso la doccia e scosto la tenda, ma anche lì non c’è nessuno. Torno indietro. Nel silenzio del bagno erompe un suono delicato: Tlin! Tlin! Tlitlin! Tiro fuori il mio unico arnese, un coltello a serramanico che faccio scattare. È il momento di usarlo. Parte quarta Sono seduto, col mio sacchetto di Disco Club tra le gambe, davanti alla porta del magistrato incaricato dell’indagine. Ho chiesto in casa come rintracciarlo facendo il finto tonto. Ieri, quando ho letto nel giornale l’articolo con i particolari del delitto, mi sono reso conto che dovevo assolutamente parlargli. Certe cose vanno fatte. La porta col vetro smerigliato si apre. Esce un avvocato col suo cliente; tutti e due scuotono la testa. Vedo il pubblico ministero alla scrivania; sta chiudendo un voluminoso fascicolo. Mi intrufolo. “Mi scusi, sono qui per il delitto Laponderosa. Era la mia professoressa di scienze...” dico con una certa ansia. Lui alza gli occhi, nota la mia trepidazione e con gentilezza mi chiede: “Ma lei quanti anni ha? È solo? Lo sa qualcuno che è venuto?”. Cerca di prendere tempo, ma io mi faccio coraggio e glielo dico subito, finché posso: “Quando pensa che potrò riavere la mia macchinina?”.
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